Le persone normali di Sally Rooney

Mi capita estremamente di rado di emozionarmi per una lettura, per un film o per la musica — talmente di rado che ne conservo a lungo il ricordo; mi è capitato per esempio con Peggy Sue si è sposata di Francis Ford Coppola, e con Die Kunst del Fuge di Johann Sebastian Bach, mentre mi accade meno di frequente con la letteratura, che pure è il genere artistico che preferisco.

Questo per dire che mi è successo di recente con Normal people della scrittrice irlandese Sally Rooney, e soprattutto con la serie tv che ne ha tratto la BBC, che porta lo stesso titolo. Il film in dodici puntate rispetta abbastanza fedelmente i capitoli del romanzo, per cui ho alternato la visione alla lettura, che mi ha permesso, o “costretto”, di immaginare i protagonisti con la fisionomia degli attori.

La visione mi ha coinvolto al punto da togliermi il sonno, farmi provare un senso di rovente ingiustizia e spingermi a attendere con impazienza il momento di vedere la puntata successiva — secondo i ritmi di mia moglie — mentre recuperavo con la lettura i capitoli raccontati dalla puntata appena vista.

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Il cinema è la regola, Godard è l’eccezione

«In un certo senso, vedete, la paura è comunque figlia di Dio. Redenta la notte del Venerdì Santo, non è bella da vedere: derisa a volte, a volte maledetta, da tutti ripudiata.
Eppure non fate questo errore, essa si trova al capezzale di ogni agonia. Intercede per l’uomo, perché c’è la regola e c’è l’eccezione. C’è la cultura, che appartiene alla regola. C’è l’eccezione che appartiene all’arte. Tutti sanno dire la regola: sigarette, computer, magliette, televisione, turismo, guerra. Nessuno dice l’eccezione, che non si dice, ma si scrive: Flaubert, Dostoevskij; che si compone: Gershwin, Mozart; che si dipinge: Cezanne, Vermeer; si filma: Antonioni, Vigo… Oppure si vive, e allora è l’arte di vivere: Srebrenica, Mostar, Sarajevo. È della regola il volere la morte dell’eccezione. Sarà dunque regola dell’Europa della cultura organizzare la morte dell’arte di vivere che ancora fiorisce sotto i nostri piedi.
Quando sarà necessario chiudere il libro, non avrò rimpianti: ho visto tante persone vivere così male, e tante persone morire così bene.»

Jean-Luc Godard, commento off al film “Je vous salue, Sarajevo” (1993)
Jean-Luc Godard, 1930-2022

Nouvelle Vague al Covo della Ladra

Uscito a fine febbraio, il mio romanzo Torino Nouvelle Vague comincia a collezionare recensioni favorevoli.

Ieri sera, 22 marzo, ho avuto l’opportunità di presentarlo alla libreria Covo della Ladra di Milano, specializzata in giallo, noi e fantasy, di Mariana Marenghi. Ho avuto il piacere di parlare del libro con Marina Visentin, esperta di cinema e scrittrice di fiction. Ne è uscita una delle più belle presentazioni librarie cui mi sia capitato di partecipare.

La registrazione dell’evento è disponibile su youtube:
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Coscienza razziale: “Dune” e il fascismo

di Jordan S. Carroll, da Los Angeles Review of Books, traduzione di Franco Ricciardiello

I FASCISTI AMANO DUNE: L’adattamento cinematografico di Denis Villeneuve era molto atteso sui siti nazionalisti bianchi come Counter-Currents e Daily Stormer. Non appena il trailer è uscito, hanno iniziato a studiarlo attentamente per vedere se devia dalle loro interpretazioni preferite del romanzo di fantascienza del 1965 di Frank Herbert.

La fantascienza popolare come Dune gioca un ruolo centrale nella propaganda nazionalista bianca. L’alt-right denuncia o promuove regolarmente i film di fantascienza come parte della sua strategia di reclutamento: la rete fascista su Twitter ha reso popolare l’hashtag “genocidio bianco” durante una campagna di boicottaggio contro il casting inclusivo in “Star Wars: Il risveglio della forza”. Ma il film di Villeneuve sembra provocare più indignazione del normale perché il libro di Herbert è un testo chiave per l’alt-right.

Dune è stato inizialmente considerato una parabola controculturale che mette in guardia contro la devastazione ecologica e il governo autocratico, ma i fascisti geek[1] vedono il romanzo come un progetto per il futuro. Dune è ambientato tra migliaia di anni in una società neofeudale interstellare che ha impedito l’ascesa di pericolose intelligenze artificiali vietando i computer, e sostituendoli con esseri umani condizionati da discipline parapsicologiche che consentono loro di operare allo stesso livello di macchine pensanti. Le astronavi navigano nello spazio usando le abilità sovrumane dei sensitivi i cui poteri derivano da una droga che migliora la mente, nota come melange, una sostanza che si trova solo sul pianeta desertico di Arrakis.

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Cos’è che ci attira nell’oscurità reazionaria di “Dune”?

Con il suo mix spesso reazionario di cinismo politico, catastrofismo ecologico e orientalismo spudorato, Dune rimane stranamente attraente per gli spettatori di sinistra.


CHRIS DITE da Contretemps, revue de critique comuniste, traduzione dal francese di Franco Ricciardiello


L’attesissimo film del regista canadese Denis Villeneuve è ora sugli schermi italiani. Desideroso di attirare il pubblico, il distributore del film cerca disperatamente di presentarlo come un film Marvel, mentre legioni di fan del romanzo si impegnano in una battaglia spirituale online per difendere le credenziali di “grande arte politica” della serie.

Dune è un’esplorazione psichedelica, epica e coinvolgente delle lotte di potere e del controllo sociale. È anche un libro spesso goffo e politicamente vago. Non è difficile capire come il romanzo sia diventato molto popolare grazie al passaparola a metà degli anni Sessanta. Prende in prestito selvaggiamente da quasi tutte le principali religioni, con un’enfasi ossessiva sull’esperienza interiore, mistica e trascendente.

La sua trama è incentrata su feroci lotte imperiali per quote di mercato e violente lotte di liberazione. Per i primi seguaci della controcultura di Dune, molti dei quali stavano assumendo contemporaneamente nuove droghe e avevano una visione romantica dei movimenti indipendentisti algerino e vietnamita, mentre leggevano le nuove traduzioni accessibili delle Upanishad e del Dàodéjīng, doveva suonare meravigliosamente premonitore.

Il fatto che la saga sia rimasta costantemente popolare da allora, anche se ha visto precedenti adattamenti cinematografici, suggerisce che qualcosa in essa ancora ci chiama. Che si tratti di cinismo politico, mitologia del salvatore bianco, sincretismo consumistico, catastrofismo ecologico, orientalismo lussurioso o una combinazione di tutto questo, dipende dalla persona con cui stai parlando.

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Ferruccio Busoni su Solaris

Natal’ja Bondarčuk con il regista Andreij Tarkovskij

Questo post è un frammento tratto da “Storie di Berlino“, il quarto libro che ho pubblicato con Odoya Edizioni, dedicato a musica, cinema e letteratura in una città italiana o europea. Ferruccio Busoni (1866-1924) è un compositore italiano che ha vissuto una parte importante della sua maturità artistica e personale a Berlino. La sua trascrizione per pianoforte del corale  Ich ruf’ zu dir, Herr Jesu Christ (BWV 639, Io chiamo te, signore Gesù Cristo), dall’Orgelbüchlein di Johann Sebastian Bach è stata usata dal regista russo Andrej Tarkovskij nella colonna sonora del suo film Solaris (1972) in una struggente versione per organo, che amplifica le emozioni dei personaggi.

Un uomo vestito con un abito scuro, giacca e cravatta, entra in una stanza che sembra una sala di forma ovale, con boiserie alle pareti, dove una giovane donna fuma, girata di spalle.

I due si trovano all’interno della stazione spaziale terrestre messa in orbita per scopi scientifici intorno al lontano pianeta Solaris. Lui è Kris Kelvin, inviato dalla Terra per verificare cosa accade nella stazione, primo passo verso lo smantellamento. Lei è sua moglie Hari, che non potrebbe essere qui, non potrebbe neppure essere in vita dal momento che è deceduta anni fa. Però Solaris è ricoperto da un mare che in realtà è un unico, immenso organismo senziente, in grado di estrarre ricordi dalla mente degli esseri umani, e materializzarli all’interno della stazione.

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Come nacque il film «Riso amaro»

Approfitto del recente “tutto esaurito” in occasione della quarta serata del musical Amar Riso, del quale ho scritto il libretto su invito della produzione, per pubblicare uno stralcio tratto dal mio “Storie di Torino”, dove racconto come è nato il film “Riso Amaro” di Giuseppe De Santis. Tutte le foto nel post sono di Christian Zecchin ©

Ricordo le lunghe passeggiate sotto i portici di via Po, affascinati, io e De Santis, dall’eloquio di Pavese, a volte enigmatico, e rispettosi anche di certi suoi silenzi. Ci sedusse anche la sua curiosità per il nostro lavoro, il suo apprezzamento per il cinema neorealista di cui mi pare avesse intuito il carattere non naturalistico. La sua curiosità lo avrebbe portato, qualche mese dopo, sul set di Riso amaro.

Carlo Lizzani, TorinoSette

L’idea di fare un film sulle mondine, protagoniste della grande epopea di lotta che a inizio secolo le ha portate a conquistare per prime in Italia le otto ore lavorative, viene a Giuseppe De Santis alla stazione ferroviaria di Torino; è il 1947, il regista sta tornando dalla presentazione a Parigi del suo film Caccia tragica, le mondine aspettano il treno che le riporterà ai paesi d’origine: giovani donne disinvolte che si mettono volentieri a cantare. De Santis le interroga, ascolta le loro storie, si sente coinvolto, come molti intellettuali della sua generazione, con il mondo di chi si guadagna da vivere con fatica.

Tornato a Roma scrive con Lizzani il primo trattamento di un film da intitolare Riso amaro, che la casa cinematografica Lux accetta subito. Il produttore Riccardo Gualino conosce personalmente Gianni Agnelli, e gli chiede di poter girare nella sua tenuta di famiglia, la Veneria, grossa cascina che si trova a Lignana, poco a sud di Vercelli: ed ecco il paradosso dell’emblema del capitalismo italiano che mette una sua proprietà a disposizione di una produzione decisamente di sinistra. L’Avvocato comunque frequenta lo stage più volte nei tre mesi di lavoro, dal momento che è sensibile al fascino femminile, prima di tutto quello di Silvana Mangano.

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La ragazza che cadde sulla Terra

“Il miglior film del 2014” (Cahiers du Cinema)

In occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ho cercato di ricostruire se la fantascienza abbia mai affrontato in maniera seria l’argomento; soprattutto, ho cercato un autore maschio per dimostrare che la violenza di genere non è soltanto una questione femminile. In questo modo mi sono inaspettatamente imbattuto in un romanzo dell’olandese Michel Faber, Sotto la pelle, che pur essendo palesemente fantascienza non è apparso presso l’editoria di genere (in Italia è tradotto da Einaudi), e soprattutto mi sono imbattuto nel film che ne è stato tratto, Under the skin (2012) di Jonathan Glazer — secondo me una delle più belle pellicole di fantascienza nella storia del cinema: inquietante, visionario, reticente con eleganza, di una violenza formale cui non siamo abituati: in poche parole, terribilmente spiazzante. Non deve stupire che Under the skin abbia incassato metà della somma investita dalla produzione: la sua estetica è troppo lontana dai consolanti blockbuster di effetti speciali hollywoodiani che hanno distorto il gusto del pubblico.

Come nella migliore tradizione della science-fiction speculativa, Under the skin rappresenta il tema della violenza di genere tramite un’inversione narrativa: la protagonista femminile è una di cacciatrice seriale di uomini che vengono abbordati, allettati e poi eliminati brutalmente. A un certo punto si capisce che la ragazza non è di origine terrestre, tanto che qualche recensione[i] richiama esplicitamente L’uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg. Verso il finale invece va in scena un rovesciamento dei rapporti di forza, una ricomposizione del senso, e la cacciatrice diventata femmina umana si trasforma in preda sessuale.

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Hanging Rock, la pietra scartata

IL CINEMA AUSTRALIANO E IL FINALE APERTO DI «PICNIC AD HANGING ROCK»

Nell’introduzione a un prezioso e raro volumetto del 1987, The Secret of Hanging Rock, pubblicato in Australia da Angus Publishers, l’agente letterario John Taylor mette l’accento su un dato difficile da smentire: se il romanzo di Joan Lindsay del 1967 non avesse quel finale aperto che ha stimolato la curiosità dei lettori, difficilmente il regista Peter Weir e la sua produzione avrebbero deciso di acquistarne i diritti cinematografici. E siccome l’industria del cinema australiano si è praticamente costruita sopra la inusitata fortuna internazionale di quell’unico film, Taylor enuncia un paradosso: senza quell’invisibile mattone, “la pietra che il costruttore rifiuta” di biblica derivazione, non esisterebbe il cinema australiano contemporaneo. E subito suggerisce un corollario, perché in realtà il manoscritto che Joan Lindsay consegnò alla casa editrice conteneva un finale esplicito — che centinaia di curiosi appassionati si sono messi inutilmente a cercare, e che ha perfino generato un intero libro, The Murders at Hanging Rock, nel quale Yvonne Rousseau propone cinque possibili soluzioni al giallo narrativo, partendo unicamente dai dati contenuti nel romanzo (dal momento che ancora non era divulgato il possibile capitolo finale).

Vedrò di procedere con ordine. La trama innanzitutto, identica per romanzo e film: il giorno di San Valentino dell’anno 1900 una ventina di studentesse di un esclusivo collegio australiano non distante da Melbourne, si recano per il tradizionale picnic presso una formazione rocciosa isolata nella pianura. Quattro ragazze chiedono il permesso di osservare da vicino la rocca prima di tornare al collegio, ma durante l’ascesa succede qualcosa di inesplicabile. Miranda, la studentessa più ammirata e benvoluta, guida altre due compagne ancora più in alto, allontanandosi per sempre.

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«Oltre l’Eden»: il doppio film di Alain Robbe-Grillet

La prima presentazione libraria organizzata per l’uscita di “Storie di Parigi” mi dà l’occasione di pubblicare in questo post l’ultimo brano stralciato dal testo.

Catherine Jourdan

L’argomento è un doppio film del regista Alain Robbe-Grillet, probabilmente più conosciuto come scrittore, meglio ancora come teorico del Nouveau Roman o École du regard, corrente che prende le distanze dallo psicologismo; per esempio nel romanzo “Le gomme” (Les Gommes, 1953), con il pretesto di un’indagine poliziesca per catturare il responsabile di un omicidio che ancora non c’è stato, Robbe-Grillet inscena uno stile fenomenologico: invece di immedesimarsi nei personaggi (il punto-di-vista) descrive le cose. È la “teoria della superficie pura” — a proposito di un successivo romanzo, “La gelosia” (La jalousie, 1957) l’autore stesso lo definisce scritto da un narratore in “terza persona assente”, rovesciamento di prospettiva della “terza persona immersa” della creative writing.

È facile per i contemporanei percepire la sua narrativa come una serie di film abortiti, o tentativi cinematografici in potenza. Naturale quindi che questa poetica della superficie lo porti a interessarsi di cinema, l’arte dell’immagine, del suono, dei cinque sensi: prima scrive sceneggiatura e dialoghi di uno dei più fortunati film francesi degli anni Sessanta, “L’anno scorso a Marienbad” (1961) di Alain Resnais, poi passa egli stesso alla regia per dirigere dieci pellicole tra il ’67 e il 2006. Due di queste sono in realtà prodotte con lo stesso materiale montato in maniera differente. Dopo tre film in bianco e nero, esigenze commerciali richiedono che Robbe-Grillet cominci a lavorare con il colore; il regista temporeggia, soprattutto perché prova un’avversione irrazionale per il verde. L’ispirazione gli viene mentre si trova in Tunisia, osservando il paesaggio diviso tra l’azzurro saturo del cielo estivo e il bianco assoluto dei muri affrescati a calce. Sull’isola di Djerba, il verde è assente persino dalla vegetazione.

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