Horrakh all’infinito. La (de)coerenza della fs italiana

Avendo fatto nelle settimane scorse alcuni post su un social media, nei quali parlavo di fantascienza scritta da italiani, sono costretto a constatare un fatto singolare (ma, dopotutto, assolutamente in linea con la nostra psicologia di fan): se scrivo bene di un determinato libro, i commenti dicono che “le mie recensioni sono analitiche e puntuali”, “accendono la voglia di leggere”, “aiutano gli autori a migliorarsi”; quando invece in un altro post lamento che il panorama della sf italiana è “un po’ ingessato, asfittico”, vengo accusato (non necessariamente dagli stessi commentatori e commentatrici) di “commenti gratuiti e negativi” e di pensare che “i miei gusti siano universali”.

C’è una parte del fandom, non so quanto consistente, che ha la coda di paglia; i commentatori potrebbero anche essere autori esordienti, rimane il fatto che non abbiamo l’abitudine ad accogliere le critiche negative. Va da sé che molti recensori si regolano come il sottoscritto: se un testo non mi piace, non ne scrivo, per evitare di danneggiare un ambiente già di per se spento, svigorito.

Non per questo ho intenzione di astenermi dal disapprovare lo stato dell’arte.

Bene, allora qual è la soluzione? Cosa possiamo fare per migliorare il livello della fantascienza italiana — ammesso che qualcosa si possa fare?

La mia risposta è semplice: una Macchina del Tempo.

Una macchina del tempo per tornare agli anni Settanta e Ottanta, quando è successo qualcosa di irreparabile e abbiamo perduto, o lasciato andare, un autore come Livio Horrakh. Perché è questo il mio antidoto alla irrilevanza della sf italiana: dateci più Horrakh, riportiamo la fantascienza sull’altra diramazione dell’albero, quella che avrebbe potuto essere e non fu. Siamo noi per primi ad avere bisogno di un’ucronia. In quell’altro mondo, un romanzo come Memphis all’infinito di Livio Horrakh sarebbe uscito per Einaudi, e l’avrebbe letto anche chi non ha mai preso in mano un libro di fantascienza, e magari sarebbe finito nella cinquina del Premio Strega.

L’immagine è tratta dalla pagina autore sul sito Amazon

Ma chi è Livio Horrakh? Nato nel 1946, ha esordito nel 1968, negli anni in cui l’onda lunga della New Wave fantascientifica aveva investito persino l’Italia. Erano gli anni dell’editto lucchese di Fruttero & Lucentini, Urania non pubblicava italiani (e non era molto considerata dai fan più preparati, perché ripubblicava soprattutto classici), ma c’era la concorrente Galassia (237 titoli in diciannove anni, tra il ’61 e il ’79) che accoglieva autori italiani, prima in appendice poi nelle antologie, infine anche come romanzi. Horrakh si fa notare con il racconto Dove muore l’astragalo, in appendice a un’antologia Galassia intitolata “Amore a quattro dimensioni”, che vinse la prima edizione assoluta del Premio Italia, all’Italcon di Trieste del 1972, che fu anche la prima Eurocon della storia.

Secondo me, il suo racconto più notevole è Tutto l’acido dell’impero, nell’antologia “Maturità” pubblicata nel 1977 su Galassia: un testo incredibile, pura New Wave, che anticipa di anni il cyberpunk, parlando di multinazionali e strapotere del capitalismo, di pubblicità invadente, di controllo delle coscienze tramite mass media e le droghe, di falsificazione della Storia.

Nel 1981, sempre su Galassia, ecco il suo primo romanzo, Grattanuvole, che non è però all’altezza delle prove precedenti. La sua bibliografia continua, piuttosto rarefatta, mentre l’autore si tiene lontano dal fandom, e sembra terminare agli inizi degli anni Novanta.

Di Horrakh è disponibile in internet anche anche una quantità di interventi professionali di linguistica testuale, su questioni connesse alla traduzione (ha insegnato per quindici anni traduzione specializzata all’università di Trieste). Poi nel 2003 una ripresa del suo romanzo breve Il Buddha dell’era oscura sul primo numero della rivista Robot, ripresa dopo l’esperienza Armenia delle edizioni Solid, che dal numero successivo sarebbe continuata con Delos Digital fino a oggi. Poi di nuovo un vuoto, e ecco nel 2016 questo Memphis all’infinito, numero 1 della collana Immaginaria, curata da Fabio Nardini, di Cut Up Publishing, e ancora disponibile in catalogo). In seguito ha pubblicato altri due libri, Apophis 2049 e Alternate Elvis, che vede Elvis Presley sopravvissuto in sedici possibili universi alternativi.


Memphis all’infinito è ambientato in un 2004 alternativo nel quale, nell’anniversario degli attentati dell’11 settembre, è stata portata a termine un’altra serie di attacchi spettacolari contro obiettivi negli USA. Il presidente (che non è George Bush bensì un certo Wallace), che teme per la propria rielezione nelle votazioni di novembre, decide di mandare indietro nel tempo una squadra di agenti con il compito di neutralizzare i dirottatori-attentatori prima che colpiscano. Da decenni infatti un’équipe di scienziati compie esperimenti segreti di fisica quantistica sul viaggio nel tempo, possibile soltanto verso il passato; benché il rientro nel presente non sembri garantito, tutto è pronto per una missione più ambiziosa.

Tuttavia, un potente senatore che appartiene allo stesso partito, interessato a evitare un secondo mandato del presidente, costringe i fisici del progetto a cambiare le coordinate temporali della missione, in modo che non riescano a evitare gli attentati.

In questo quadro iniziale si inserisce una trama incalzante, che vede un giovane fisico, Jim Wallace, costretto a un salto quantistico nel tempo fino al 1954; e qui il lettore assiste alla più straordinaria invenzione letteraria di questo romanzo.

La possibilità del viaggio nel tempo è giustificata dall’autore con i concetti della meccanica quantistica; ciò che nessun altro autore di sf ha immaginato prima di lui, è che il viaggiatore umano sia causa di un collasso della funzione d’onda continuo, per cui ogni cosa intorno a lui muta in continuazione: la presenza di altre persone, il loro aspetto fisico, l’abbigliamento, gli oggetti, l’architettura. Il protagonista scivola tra una serie di stati paralleli provocati dal fatto stesso che egli osservi il passato. Quali sono le conseguenze del protagonista sul suo presente, il 2004, di questa sarabanda di decoerenza quantistica? Lascio al potenziale lettore di immaginare; dico solo che una volta imparato come padroneggiarla, la decoerenza permette al protagonista di influenzare la realtà (grazie al principio d’indeterminazione). L’atto di osservare cambia l’oggetto dell’osservazione.

Ripeto l’invito, dateci più Horrakh. Memphis all’infinito ha tutte le caratteristiche che dovrebbe avere un romanzo di fantascienza maturo e contemporaneo:

è basato su un’idea scientifica hard, della quale sfrutta le ricadute narrative in modo approfondito e creativo;

ha una documentazione estremamente curata, sia nel 2004 che nel 1954, con una profondità di dettaglio che va dall’alimentazione all’abbigliamento, dalla toponomastica alla musica;

mette in scena personaggi solidi e credibili, non pupazzi manichei, eroi o cattivi divisi da una barriera netta;

è sessualmente esplicito, e contiene anche una di quelle solide storia di sentimenti che di solito *lǝ autorǝ italianǝ snobbano, un po’ perché la fs che ha prevalso dopo il periodo cyberpunk è avventurosa e puritana, un po’ perché proprio non sono capaci a scrivere di sentimenti;

malgrado le premesse, Memphis all’infinnito non ha niente a che vedere con quel genere “nuovo distopico” che è la scorciatoia di chi non è in grado di fare un world building credibile.

Livio Horrakh è qui a indicare la possibilità di un’ucronia anche per la fantascienza italiana: la decoerenza contro l’incoerenza.

Franco Ricciardiello

Alexander Mandradjiev, Loos Angeles (USA), “in attesa”

3 pensieri su “Horrakh all’infinito. La (de)coerenza della fs italiana

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