L’universo è una foresta oscura

Gene Raz von Edler, “L’universo” (particolare)

A tempo di record, dopo il grande successo di Il problema dei tre corpi, Mondadori ha pubblicato in Italia il seguito, Hēi’àn sēnlín (黑暗森林), secondo volume della trilogia di fantascienza “il passato della Terra” di Liú Cíxīn. Peccato che l’edizione italiana porti il titolo La materia del cosmo, totalmente slegato dal significato originale che è “la foresta oscura”, come è stato correttamente tradotto in tutte le lingue tranne la nostra: The dark forest in inglese, La forêt sombre in francese, Der dunkle Wald in tedesco, A floresta sombria in portoghese — ma in Italia si è educato il pubblico di serie B, quello che legge fantascienza, a riconoscere la roba commestibile dal titolo, perciò ficchiamoci un “cosmo” e vedrai che comprano.

Peccato soprattutto perché la soluzione del grave problema che si presenta all’umanità in questo episodio centrale del ciclo è proprio legata al concetto di universo come “foresta oscura” in cui qualsiasi civiltà planetaria si trova circondata da possibili nemici ostili.

Nel primo volume della serie, Il problema dei tre corpi, la razza umana scopre di essere diventata preda di un’altra civiltà più progredita, a causa di un messaggio incautamente inviato nello spazio. Infatti il pianeta Trisolaris, che si trova a 4 anni luce di distanza e soffre di periodiche distruzioni a causa dell’instabilità del suo sistema solare, ha lanciato alla volta della Terra una flotta di mille astronavi. A causa della distanza, la squadra d’invasione impiegherà 450 anni per raggiungere il nostro pianeta, ma i trisolariani si preoccupano di impedire qualsiasi possibilità di progresso scientifico dell’umanità nella fisica delle particelle, in modo che l’evoluzione della scienza terrestre non annulli in corso di viaggio la superiorità dell’attaccante.

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«Nell’ombra della Luna», capitolo 1

Questo è il prologo del mio ottavo romanzo, Nell’ombra della Luna, pubblicato il 30 agosto scorso da Meridiano Zero editore. Buona lettura.

Non sono molte le automobili lungo le arterie di Città del Messico, in questa notte raccapricciante di stelle fredde del gennaio 1942. Una donna sta morendo sul sedile posteriore dell’automobile in sosta d’emergenza a lato dell’Avenida de Los Insurgentes, a poca distanza dalla sede diplomatica di quelli che prima della rivoluzione comunista erano conosciuti come Stati Uniti d’America.
Le interminabili vie del centro, larghe come fiumi della foresta equatoriale, sono illuminate a giorno dalla nascente prosperità di questo paese che si sta riprendendo dal sussulto rivoluzionario degli anni Dieci. L’avenida Constituyentes con i murales di Diego Rivera, Chapúltepec, il paseo de la Reforma con i suoi sessanta chilometri di lunghezza.
Una Chrysler del 1935, gli ammortizzatori provati dallo stato delle strade della capitale federale, è ferma a lato dell’avenida, sotto un mural alto come l’edificio; le portiere anteriore e posteriore dalla parte del guidatore sono spalancate, come se l’autista fosse sceso di corsa per salire sul retro dopo il parcheggio in emergenza nel cono d’ombra fra due lampioni. L’uomo è curvo sul sedile, chino su una donna magra, forse invecchiata precocemente, sdraiata contro lo schienale, la blusa slacciata e aperta sul collo per favorire la respirazione.

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