Forma e sostanza

La recentissima lettura di Radicalized[1] dello scrittore canadese Cory Doctorow mi ha spinto a pormi alcune domande sul rapporto tra scrittura e contenuto, o se preferiamo tra stile e messaggio — parola orribile in questo caso, il cui significato tuttavia esprime in maniera compiuta ciò che intendo.

Le domande sono queste:
Fino a che punto è lecito sacrificare lo stile al messaggio che voglio trasmettere?
E in subordine:
La necessità di andare “dritto” al messaggio, in un testo scritto con questo obiettivo, ha la preminenza sullo stile?
Infine, per riassumere le due domande in una:
Qual è il giusto punto di equilibrio tra preoccupazione estetica e sostanza del testo?

Mi rendo conto che è necessario anticipare una premessa: mi riferisco a testi scritti con un esplicito intento “impegnato” (definizione da prendere con le dovute cautele), che non si accontentino cioè dell’aderenza a formule di genere stereotipate. Con quest’ultima definizione intendo riferirmi a storie che trovino la loro giustificazione unicamente nello statuto estetico cui appartengono: fantasy, horror, distopico, romance, storico, ma anche fantascienza, storie di vampiri o di zombi, tutti i casi insomma nel quali autore/autrice e lettrici/lettori si incontrano su un terreno comune che è il tópos di genere, senza pretesa di rappresentare qualcosa di non-letterario.

La definizione è quanto mai vaga; cercherò di aggiungere un nuovo elemento con la distinzione di Brian McHale[2] tra generi letterari, a partire dalla loro natura: genere epistemologico per eccellenza sarebbe la detective fiction, il poliziesco di indagine, che risponde precisamente alle domande-tipo della letteratura modernista: Chi è l’assassino? In che modo ha ucciso? D’altro canto, il genere ontologico par excellence è la fantascienza, che per sua natura mette a confronto mondi differenti. Ovviamente questo è vero per qualsiasi lavoro di fiction, anche per la letteratura realista — ma il romanzo moderno tende a sopprimere il contenuto ontologico per aumentare l’effetto mimetico.

Per tornare alla definizione di cui sopra, posso sostituire a quello che prima ho definito testo “impegnato” il termine “ontologico”; ma la domanda rimane: qual è il giusto punto di equilibrio tra preoccupazione estetica e sostanza del testo?

Ammettiamo che un testo può essere bello anche senza altro intento che quello di rimanere nelle convenzioni di genere: certi racconti gialli o di fantascienza sono gioielli di perfezione e originalità anche se non possiedono giustificazione oltre l’estetica del genere cui appartengono. D’altronde, i grandi classici della letteratura d’ogni tempo sono spesso stati scritti con intento di denuncia, di avvertimento, di propaganda, ma altrettanto spesso la loro grandezza è nella restituzione del mondo dei sentimenti, di quelle verità immortali sulla vita e la morte che rendono la letteratura insuperabile e unica di fronte alle altre arti.

Ma così ritorno da capo, ritorno a Doctorow e al suo Radicalized, che contiene quattro racconti lunghi con esplicito contenuto sociale. L’America contemporanea è osservata e vivisezionata senza pietà nei suoi lati più oscuri: la prevaricazione della polizia, la discriminazione razziale, le distorsioni del liberismo, le deviazioni dell’individualismo. Quattro racconti di sicuro impatto emotivo, nei quali l’autore non ostenta la minima originalità stilistica, va dritto alla meta grazie alla scelta di quattro personaggi-punto di vista straordinariamente adatti, e il pathos e l’indignazione che suscita nel lettore rendono le sue storie difficili da dimenticare.

Riformulo la domanda. La ragione per cui Cory Doctorow ha fatto questa scelta (come altri grandi autori “politici” di science fiction in fondo, per esempio Kim Stanley Robinson e Ursula LeGuin, ma diversamente da altrettanti come Samuel Delany o Joanna Russ) è perché scrive fantascienza?

Ma Doctorow ritiene davvero di scrivere fantascienza? E questa distinzione di genere ha ancora un senso, quantomeno commerciale?

Non sono in grado in questo momento di dare una risposta. Sono consapevole che una frazione importante di lettori che ancora riconoscono una legittimità all’etichetta di genere si aspetta una scrittura senza voli stilistici; una struttura d’intreccio complessa è stata pienamente accolta nella science fiction, mentre l’originalità della scrittura è caratteristica solo del postmoderno — tuttavia mi sembra una contraddizione il fatto che gli autori postmoderni abbiano saccheggiato a piene mani gli stereotipi della fantascienza (Angela Carter, William Burroughs, Don DeLillo, Thomas Pynchon) senza riuscire a contagiarla con il virus dell’originalità stilistica?

Che sia colpa del vecchio adagio dell’era pulp, “la fantascienza è un letteratura di idee”?


[1] Cory Doctorow, Radicalized. Quattro storie del futuro (Radicalized, 2019), traduzione di Dafne Calgaro, Mondadori 2021

[2] Brian McHale, Postmodernist fiction, Routledge 1987

Naturale, artificiale: “Irene” di Nino Martino

A tre anni da Errore di prospettiva, che notevole successo ha riscosso tra i lettori di Delos Digital, Nino Martino torna con un secondo romanzo, Irene, vincitore ex æquo del Premio Odissea 2020 insieme a Eden di Franci Conforti. A leggere la quarta di copertina, e le prime pagine, Irene sembrerebbe una riscrittura del precedente: forme di vita aliena su base totalmente differente da quanto possiamo immaginare, rapporto problematico tra l’opinione pubblica terrestre e gli esploratori spaziali, manipolazione del consenso. Ma questo solo a un’indagine superficiale, perché stavolta c’è molto di più; e mi auguro che i potenziali lettori capiscano e rispondano come prima, perché il messaggio è sottile e importante.

La trama, in breve.

Il romanzo inizia in media res, introducendo il lettore prima di tutto al rapporto tra Roberto (personaggio-punto di vista), un esploratore spaziale inviato su un pianeta alieno, Aldebaran II, alla ricerca di risorse economiche indispensabili sulla Terra sovrappopolata e sfruttata, e la protagonista, l’intelligenza artificiale che presiede alla missione; quest’ultima, prevista per sostituire la maggior parte dell’equipaggio nell’ottica di diminuire i cosi, viene dotata di un nome, Irene, per “umanizzare” la sua presenza; la sua interazione con Roberto non avviene però unicamente sul piano fisico. Roberto è collegato all’IA mentalmente, anzi se rimanesse troppo a lungo disconnesso, il suo cervello soffrirebbe danni irreparabili. Il modo in cui Irene gli appare è quindi antropomorfizzato, nell’immagine e nella sostanza di una donna avvenente; il mezzo, è soprattutto la realtà virtuale, quindi nella mente di Roberto, sebbene in caso di necessità l’IA sia in grado di proiettare un’immagine tridimensionale di se stessa, a beneficio di terzi.

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