(continua)

Pensavo all’esercito senza volto che formicolava sulle quattrocento isole di Venezia, alla marea incolore di lineamenti artificiali che aveva invaso il mondo: perché in quel momento, nel vicolo buio con Michela chiusa fra le mie braccia, credetti che tutta la città fosse stata invasa dalla gente senza volto.

Nascondendo il tremito delle labbra la baciai, poi raccolsi tutto il mio coraggio e con pochi passi silenziosi tornammo alla via; una banda di pomodori di gommapiuma quasi ci travolse, seguiti da un orso con il piccolo in spalla. Mi asciugai gli occhi con il palmo della mano.
— Posso aiutarti? — mi sussurrò Michela in un orecchio.
— Grazie, è passato — risposi.
Così finiva la domenica di carnevale.

Lunedì di carnevale. Mi svegliai e per un attimo non riuscii a orizzontarmi; poi ricordai che mi trovavo nella camera di pensione insieme a Michela, dove avevo deciso di trasferirmi sino al ritorno a Torino. Mi passai una mano fra i capelli, poi guardai Michela sotto le coperte, accanto a me; le posai una mano sull’anca e si voltò, apparentemente già sveglia.

Uscimmo nell’aria addolcita dal sole di marzo; Michela indossava i soli vestiti con cui l’avessi mai vista: la mantella e la bautta nera. Preferimmo non prendere il vaporetto e passeggiare per le calli guardando le vetrine dei negozi. Non avendo appetito camminammo per ore, progettando la nostra ultima notte a Venezia: a tutti i costi volle che andassimo a un ballo in maschera in una casa privata, per il quale possedeva due inviti.

Gironzolammo intorno al tavolo degli aperitivi; tutti sembravano volersi divertire a ogni costo, ma io rimasi discretamente in disparte, di cattivo umore per qualcosa che non riuscivo a definire: forse un brutto sogno, perché mi ero già svegliato con quella sensazione al mattino.
Dopo un po’ Michela mi guidò su per alcuni gradini di uno scalone, poi un lungo corridoio decorato ad affreschi, con vetrate da un lato e porte bianche sull’altro.

Vedevo gente camminare per le calli e danzare nel rettangolo illuminato di piazza San Marco, non molto distante da dove eravamo. Proiettori di luce dorata tagliavano il cielo, rivelati dall’evaporazione notturna.
Ricordai l’incubo del giorno precedente, i fiumi di gente senza volto in movimento, e la fredda mano dell’angoscia mi afferrò il cuore. Forse l’inquietudine che mi portavo appresso era ancora dovuta a quell’episodio.

Ci ritrovammo in strada, dove un gruppo di ragazzi dalle facce dipinte vivacemente stava danzando alla musica che da Campo San Polo filtrava di soppiatto sin là. Ci accostammo a un muro per osservare quella compagnia silenziosa dai volti troppo seri perché stessero divertendosi. Avvertii il muro umido contro la testa, e sfiorandolo sentii che portava un manifesto incollato di fresco.

Venezia era sporca di carta e neve calpestata, intrisa di nebbia e sonno, oscurata dal silenzio e dalla notte. Torrenti di maschere fluivano là dove sino a poche ore prima erano stati fiumi. Battemmo tutti i caffè sulla strada del ritorno, cercando di toglierci quel sapore amaro dal palato; per la prima volta lontani dalla folla, avendo tempo a disposizione e con il preciso proposito di profittare al meglio delle poche ore rimaste, parlammo a lungo di noi stessi.
3 – FINE. foto di Franco Ricciardiello