Venezia, carnevale

Foto di Franco Ricciardiello, carnevale di Venezia 2020. I brani di testo sono tratti dal mio “Michela e la bomba al neutrone”, vincitore del Premio Italia 1988 come miglior racconto su pubblicazione non professionale

Era la vigilia della domenica di carnevale; lo stesso giorno di cinque anni prima Michela ed io ci eravamo conosciuti a Venezia. Malgrado gli anni passati, Michela dimostrava l’età di allora; e la mantella che amava indossare, che per lei era forse l’emblema stesso del carnevale, faceva sembrare questa sera ancora più simile all’altra.

C’erano già moltissime maschere, un vero fiume umano che entrava e usciva dai caffè, sciamava nelle calli, calpestava i ponti, formicolava nelle piazze. Mi lasciai trasportare dai torrenti di gente in festa su e giù per il sestiere di San Marco a osservare i ragazzi che facevano musica, i mimi imbellettati agli angoli delle chiese, i venditori di maschere di porcellana e cartapesta, i bambini infagottati, i fotografi dilettanti, cercando di indovinare i lineamenti delle ragazze dietro il trucco.

Nei dintorni dell’Accademia capitai in un campo con tanto di palco per le danze; c’erano centinaia di persone, tutte mascherate, e luci di lampioni e insegne di caffè. Un gruppo di musicisti con strumenti acustici suonava motivi del Rinascimento, seducenti ballate di un altro tempo che nessuno spettatore sembrava in grado di danzare, sebbene ognuno provasse a modo suo per sentirsi protagonista.

Ancora di più, la città mi parve una pietra di paragone con il resto del mondo che continua a cambiare. Muterà mai la sostanza di Venezia? E se sì, cosa accadrà allora del mondo? Sarà ancora lo stesso?

In prima fila tra gli spettatori che non danzavano, osservavo il fermento sul palco, la promiscuità di spazio e tempo delle maschere. Guardavo le ragazze che ridevano e si parlavano all’orecchio: ce n’era una con mantella scura e scarpe con il tacco, capelli castani e una bautta sugli occhi, che danzava come se qualcuno la stesse giudicando per un esame. Fra coloro che riuscivo a vedere, era quella che più di ogni altro della musica sapeva cogliere lo spirito: esibizione, piacere, comunicazione.

Desiderai danzare con lei, benché fosse una cosa che non avevo mai fatto; osservavo le sue mani guantate che disegnavano parabole tridimensionali nella sera tutto intorno al suo corpo, i capelli ondulati che seguivano ogni movimento del capo, le falde del mantello che a ogni passo svelavano e ricoprivano il vestito blu.

La persi di vista a causa di un turbine di danzatori, rimasi in seconda fila. Stavo per volgermi e tornare verso piazza San Marco quando la ragazza mascherata mi si parò dinanzi, posandomi le mani sul braccio.

— Vuoi ballare? — mi disse.

Era lei, la ragazza che avevo ammirato fino a poco prima; scordai persino che non sapevo danzare. Prima che potessi rispondere, la folla si richiuse innalzando intorno a noi una barriera di suoni che solo la musica poteva perforare.

Sentivo appena le sue mani sulle spalle, attraverso il tessuto del mantello. Sotto la bautta che le copriva la parte superiore del viso vedevo le labbra nitide, il mento, gli orecchini a cerchio grossi come una moneta. Parlavamo danzando; ero preoccupato di pestarle i piedi, di sbagliare i passi o le parole. Su di me aveva il vantaggio di vedere il viso, perché portavo solo una feluca piumata in capo.

 1- continua

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