L’Eden di Franci Conforti

Credo che questa sia la recensione più ardua che mi sia toccato scrivere da quando ho cominciato a pubblicare qua e là i miei pensieri a proposito dei libri che leggo. Eden, vincitore del premio Odissea 2020 ex æquo con Irene di Nino Martino, è un romanzo che mi ha spiazzato, al punto che ancora non ho deciso se collocarlo tra le opere più originali della fantascienza italiana di inizio millennio, oppure considerarlo un’imbarazzante sequela di errori di scrittura.

Vabbè, sto scherzando.

Mettiamola così. Adesso mi assumo la responsabilità di recensire il romanzo di Franci Conforti come se io fossi in grado di scriverlo meglio. ATTENZIONE! Ho scritto come se, non perché sarei in grado.

Partiamo dall’inizio, cioè dalla trama. Delos Digital lo pubblicizza con uno slogan accattivante:

C’è un pianeta nel quale Dio parla costantemente con gli uomini. Almeno, ad alcuni uomini. Un pianeta dove non esiste la malattia né la morte: ci si può ferire, anche gravemente, ma Dio passa la sua mano e guarisce.

L’alterità, l’originalità del romanzo, anche rispetto alla fantascienza media, proviene soprattutto da qui, nonché da un’altra caratteristica: l’assoluta, inflessibile, impietosa reticenza letteraria, un understatement che non concede il minimo infodump. Conforti costruisce un mondo alieno, disumano per certi versi, in cui poco o nulla è immediatamente comprensibile, e solo attraverso la ripetizione di titoli, nomi e definizioni il lettore può cominciare a capire — e a scanso di equivoci, preciso che questa è una caratteristica positiva. È esattamente come se il romanzo fosse rivolto a un pubblico che vive su Eden e per questo non ha bisogno di spiegazioni: un effetto estremamente difficile da ottenere, che costringe l’autrice a tenersi in equilibrio su una lama, con il rischio di cadere in un incomprensibile esoterismo. Conforti supera senz’altro la prova, malgrado alcune forche caudine, tanto che il lettore raggiunge alcune epifanie veramente con il contagocce.

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L’infinita leggerezza dei quanti

Martedì 30 marzo uscirà la seconda pubblicazione della nuova collana solarpunk Atlantis di Delos Digital, dedicata alla narrativa utopica, ottimista, speculativa.

Si tratta del romanzo breve L’infinita leggerezza dei quanti di Stefano Carducci e Alessandro Fambrini, autori di diversi racconti apparsi su riviste e antologie a partire dagli anni Novanta. Insieme hanno anche pubblicato con Delos Digital La breve estate della follia, romanzo atipico di indagine ambientato in un’Italia distopica.

L’infinita leggerezza dei quanti invece si situa idealmente all’estremo opposto della narrativa futuribile, perché pur prendendo le mosse da un’orribile America dominata da un blocco militare-industriale, racconta un viaggio di andata e ritorno verso una magnifica utopia solare.

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L’INFINITA LEGGEREZZA DEI QUANTI

Alzi la mano chi pensa che il nostro sia il migliore dei mondi possibili. Di certo non lo pensa Joseph Lovato, costretto dalla paranoica Giunta militare al governo a diventare soggetto di un esperimento dall’esito incerto: per provare l’utilità pratica delle ipotesi sulle particelle elementari, verrà “trasferito” istantaneamente come un oggetto quantistico tra due punti distanti. Qualcosa non funziona secondo le previsioni, Lovato si ritrova in una realtà parallela, agli antipodi rispetto al presente distopico da cui proviene. La società cui appartengono Mary, Peter e gli altri scienziati che entrano in contatto con lui, è una specie di anarchia democratica, decentrata in America settentrionale, decisamente orientata alla scienza, con un impatto antropico sostenibile per l’ambiente. Nella migliore tradizione della fantascienza sociologica, Carducci e Fambrini raccontano una società utopica che ha vinto contro il nemico peggiore: la natura umana. Tuttavia, l’utopia è circondata avversari agguerriti che preparano un’invasione, e Lovato sarà chiamato a contribuire, con la sua preparazione scientifica, a debellare la minaccia.

Distribuzione delle risorse, energia a buon mercato, civiltà post-industriale in questo romanzo breve della più famosa coppia d’autori del fantastico italiano.
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La prossima uscita di Atlantis, ad aprile, vedrà un racconto lungo di Romina Braggion.

Réportage dal Vietnam sovietico

William T. Vollmann in Afghanistan

Nel 1982, all’età di 23 anni, il futuro scrittore William Vollmann lascia gli Usa e si imbarca su un aereo diretto il Pakistan, con l’intenzione di raggiungere l’Afghanistan. Il suo scopo è aiutare in qualche modo la resistenza contro l’invasore sovietico: le sue intenzioni nebulose vanno dalla possibilità di prendere parte in prima persona ai combattimenti, fino al più realistico réportage di guerra. Per precauzione porta con sé una quantità di pellicole fotografiche che nella sua immaginazione diventeranno un Afghanistan Picture Show, una mostra figurativa sulla realtà del paese centroasiatico da portare magari in tour per raccogliere fondi da inviare ai profughi — o ai combattenti.

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Le catastrofi non devono finire in distopia

Cory Doctorow, da Wired

traduzione di Franco Ricciardiello

Il mio nuovo romanzo, Walkaway[1], parla di un mondo in cui i super ricchi creano forme di vita immortali così efficaci nell’automazione del lavoro che tutti noi diventiamo risorse in eccesso. La battaglia che ne segue – sulla possibilità che l’umanità possa infine dividersi per sempre tra un’élite trans-umana e un brulicare di profughi in balia del clima – innesca massacri e persecuzioni. È un romanzo utopico.

La differenza tra utopia e distopia non è nella misura di quanto le cose vadano bene. È in cosa succede quando tutto va a rotoli. Qui, nel mondo disastroso e reale, stiamo per scoprire in quale delle due viviamo.

Dai tempi di Thomas More, i progetti utopici si sono concentrati sulla descrizione dello stato perfetto e sulla mappatura del percorso per raggiungerlo. Ma questa non è ideologia, è un sogno ad occhi aperti. La società più perfetta esisterà in un universo imperfetto, in cui la seconda legge della termodinamica implica che tutto ha bisogno di costante riparazione, accomodamento e aggiustamento. Anche se la tua utopia ha abitudini rigide, è a rischio di venire distrutta da pericoli meno cogenti: asteroidi di passaggio, stati confinanti meno virtuosi, agenti patogeni mutanti. Se la tua utopia funziona bene in teoria, ma degenera in un’orgia di violenza cannibalistica la prima volta che si spengono le luci, non è in realtà un’utopia.

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