Apophis: si sveglia il dio del caos

Tra le (molte) idee fuorvianti intorno al genere fantascienza, la più ingenua e dannosa è l’opinione che il valore di un’opera sia direttamente collegato alla sua capacità predittiva: al fatto, cioè, che l’autore o l’autrice siano stati in grado di prevedere, magari con anni o decenni di anticipo, cambiamenti sociali o innovazioni tecniche che si stanno verificando nei giorni in cui viviamo. Senza parlare di quelle convinzioni superficiali, e purtroppo piuttosto diffuse, per cui romanzi dolorosi e profondi come 1984 di George Orwell abbiano descritto tre quarti di secoli fa una situazione di controllo sociale che sarebbe in atto nei giorni nostri.

La verità è che la validità di un romanzo di science fiction, e l’abilità di chi l’ha scritto, non si giudica “a posteriori”, se cioè la sua inventiva tecnologica ha retto o meno al passare del tempo, ma nel momento in cui viene pubblicato. Pensare che la letteratura abbia una funzione predittiva è mortificante: il suo valore sta nelle qualità letterarie, nella capacità di descrivere cosa accadrebbe se si verificasse lo scenario immaginato.

In questo senso, è utile giudicare la capacità di proiettare sul futuro scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche che sono oggi in nuce, appena agli albori, e speculare su come cambieranno il nostro futuro, il futuro della civiltà.

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Horrakh all’infinito. La (de)coerenza della fs italiana

Avendo fatto nelle settimane scorse alcuni post su un social media, nei quali parlavo di fantascienza scritta da italiani, sono costretto a constatare un fatto singolare (ma, dopotutto, assolutamente in linea con la nostra psicologia di fan): se scrivo bene di un determinato libro, i commenti dicono che “le mie recensioni sono analitiche e puntuali”, “accendono la voglia di leggere”, “aiutano gli autori a migliorarsi”; quando invece in un altro post lamento che il panorama della sf italiana è “un po’ ingessato, asfittico”, vengo accusato (non necessariamente dagli stessi commentatori e commentatrici) di “commenti gratuiti e negativi” e di pensare che “i miei gusti siano universali”.

C’è una parte del fandom, non so quanto consistente, che ha la coda di paglia; i commentatori potrebbero anche essere autori esordienti, rimane il fatto che non abbiamo l’abitudine ad accogliere le critiche negative. Va da sé che molti recensori si regolano come il sottoscritto: se un testo non mi piace, non ne scrivo, per evitare di danneggiare un ambiente già di per se spento, svigorito.

Non per questo ho intenzione di astenermi dal disapprovare lo stato dell’arte.

Bene, allora qual è la soluzione? Cosa possiamo fare per migliorare il livello della fantascienza italiana — ammesso che qualcosa si possa fare?

La mia risposta è semplice: una Macchina del Tempo.

Una macchina del tempo per tornare agli anni Settanta e Ottanta, quando è successo qualcosa di irreparabile e abbiamo perduto, o lasciato andare, un autore come Livio Horrakh. Perché è questo il mio antidoto alla irrilevanza della sf italiana: dateci più Horrakh, riportiamo la fantascienza sull’altra diramazione dell’albero, quella che avrebbe potuto essere e non fu. Siamo noi per primi ad avere bisogno di un’ucronia. In quell’altro mondo, un romanzo come Memphis all’infinito di Livio Horrakh sarebbe uscito per Einaudi, e l’avrebbe letto anche chi non ha mai preso in mano un libro di fantascienza, e magari sarebbe finito nella cinquina del Premio Strega.

L’immagine è tratta dalla pagina autore sul sito Amazon
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Prigionieri dell’effimero


Nino Martino arriva alla prova del quarto romanzo, che si innesta sulla riflessione narrativa sull’intelligenza artificiale e i rapporti con l’umano che egli porta avanti con coerenza, complicata in questo caso dal tema del “primo contatto” con la vita extraterrestre.

Riprendendo atmosfere e anche personaggi dei precedenti romanzi, Martino li trasferisce in un’ambientazione nuova.

Il seme dell’umanità si è sparso tra le stelle, la terraformazione è una pratica usuale: nuovi pianeti vengono resi abitabili dall’umanità tramite tecniche che diffondono un’atmosfera e una biosfera compatibili con il nostro organismo. Uno di tali pianeti, terraformato poco più di dieci anni fa, è considerato dai propri abitanti un’utopia: su Sogno III si vive in armonia con l’ambiente, in una civiltà tecnologicamente avanzata che rifiuta di connettere la propria rete di intelligenze artificiali con quella degli altri mondi, per timore di un “contagio” con le IA di tipo “Irene” che hanno acquisito autocoscienza (nel precedente romanzo Irene) e adesso compongono una cultura che collabora con l’umanità, ma formalmente separata.

I protagonisti sono due giovani agenti della sicurezza, fratello e sorella, anzi gemelli, figli di due personaggi di precedenti romanzi; vengono inviati su  Sogno III per indagare sula morte di Abayomi, una scienziata terrestre chiamata a lavorare sul pianeta e ritrovata morta. C’è il sospetto che sia stata assassinata, anche se gli abitanti di Sogno III hanno difficoltà a crederlo, perché sul loro pianeta non esiste il crimine.

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Per le ceneri dei padri

Si allunga la lista di autori italiani che hanno vinto due volte il premio Urania, in anni successivi: Francesco Grasso (1991, 2000), Donato Altomare (2001, 2008), Lanfranco Fabriani (2002, 2005), Alberto Costantini (2003, 2006), Francesco Verso (2008, 2014 ex æquo), Piero Schiavo Campo (2012, 2016). A questi sei si aggiunge quest’anno Davide Del Popolo Riolo, che già aveva vinto quattro anni fa, nel 2019, con Il pugno dell’uomo.

Il bando di alcune edizioni del premio, precisamente dal 2008 al 2012, conteneva il divieto di partecipazione ai vincitori delle precedenti edizioni. Questa regola però non ha funzionato, a differenza dell’analoga regola del premio Tedeschi per romanzi gialli: come ha spiegato il curatore di Urania, Franco Forte, in occasione della consegna del premio alla manifestazione Stranimondi, il 15 ottobre scorso, la norma ha provocato effetti indesiderati.

La realtà sconfortante, ma non così inattesa (almeno per il sottoscritto) è che con l’esclusione per regolamento di un serie di autrici e autori già vincitori, la rosa dei testi meritevoli si riduce a nulla. Purtroppo, la platea del fandom italiano non è mai stata in grado di “coltivare” un vivaio di scrittori sufficiente da “estrarne” uno ogni anno, il/la laureatǝ del concorso appunto, da elevare a una carriera professionale (o semi-professionale, dai!, siamo realisti).

Mentre nel giallo troviamo un pubblico vasto e eterogeneo, numerose collane editoriali di diverse case editrici, anche specializzate, un periodico da edicola (il Giallo Mondadori) con una distribuzione abbastanza capillare, e soprattutto aspiranti autori e autrici con un ampio bagaglio di letture, un livello culturale e un’abitudine alla scrittura affinata dalla prova di una vasta serie di concorsi letterari più o meno selettivi, più o meno prestigiosi — tutto questo alla fantascienza difetta. Il sottobosco è composto da autori che nella migliore delle ipotesi hanno letto tanta fantascienza, per lo più classica (anni 40-50-60), per lo più Urania della gestione Fruttero & Lucentini comprati sulle bancarelle dell’usato (come se per vincere il premio Urania fosse sufficiente leggere numeri di autori dimenticati di cinquanta, sessanta anni fa), e nella peggiore ipotesi sono patiti di film d’effetti speciali, serie tv e videogiochi, convinti che per scrivere un’opera di fantascienza basti avere un’idea più o meno originale e futuribile (magari solo uno scenario distopico, voilà!) perché disprezzano ogni livello di editing in quanto violazione della propria creatività ispirata.

Il problema della fantascienza italiana è questo: abbiamo fatto troppo poco per tirare su nuove generazioni di autori e autrici, e il risultato è che la competizione di un premio letterario importante come l’Urania viene meno. Mi auguro che con il nuovo incarico a Franco Forte di editor per tutta la fantascienza Mondadori, e non soltanto per Urania e addentellati, questa distorsione venga meno, grazie a una visione organica e complessiva, e magari grazie al consolidamento degli autori laureati in altre collane e pubblicazioni. Nel frattempo, però, questa è la realtà.

“Outrider” di Thomas Du Crest (Parigi), da ArtStation

Nella presente situazione, non esattamente ideale, Davide Del Popolo Riolo è tra gli autori più interessanti. Saluto con favore questo suo secondo Urania, sebbene alcune considerazioni che mi riservo per la fine rimetteranno in parte in discussione il mio ottimismo.

Davide DPR ha una cultura vasta, che va oltre la fantascienza; come ha dimostrato in prove precedenti, ha un’approfondita conoscenza del mondo classico greco-romano, che sfrutta simpaticamente anche in questo romanzo. Per esempio, il titolo è derivato da un verso di Thomas Babington Macaulay, per la precisione dall’Horatius, nei Lays of ancient Rome:

To every man upon this earth
Death cometh soon or late.
And how can man die better
Than facing fearful odds,
For the ashes of his fathers,
And the temples of his gods?

La società violenta e feroce che DPR crea per il suo pianeta Abisso è debitrice, almeno nella terminologia, della Grecia classica: gli affiliati delle grandi cosche mafiose che si contendono il dominio sull’economia della città di Corcyras si chiamano opliti, e indossano armature super-tecnologiche; i boss delle famiglie si chiamano wanax, in assonanza con l’anax omerico, il “re dei re”, e naturalmente in riferimento all’analogo wanax miceneo. Per il resto, le analogie sono più con Il padrino e le sue logiche di spartizione del mercato illegale e guerra fra clan.

L’idea di fondo è interessante. La protagonista Olympias, figlia prediletta di un wanax, viene allontanata dal pianeta su volontà del padre, che la invia nell’idilliaca Casa-tra-le-stelle, un idilliaco ambiente artificiale in movimento nello spazio. Nella Casa-tra-le-stelle DPR materializza il suo concetto di Utopia, una grande comunità esente da conflitti, una vita in armonia governata da solidi principi morali, con l’ausilio di una tecnologia molto avanzata, rapporti interpersonali di correttezza, sessualità disinibita etc.

Dopo anni di permanenza in questa utopia, Olympias (che ha cambiato nome in Sospiro di Giada) è completamente permeata dei suoi ideali. Per questa ragione, quando viene precipitosamente richiamata sul pianeta d’origine, Abisso, dopo la morte violenta del padre, sbatte la faccia contro una realtà incredibilmente violenta, spietata, senza regole morali, in cui omicidio, sacrificio, tradimento sono all’ordine del giorno. Abisso è diametralmente all’opposto della Casa-tra-le-stelle.

Questo è l’interessante, e originale, conflitto interiore della protagonista, e anche il conflitto narrativo sotteso al romanzo: come reagisce un individuo di moralità superiore inserito in un ambiente ostile, di guerra tutti-contro-tutti? Può mantenersi incorrotto, in coerenza ai propri principi? Oppure riesce a cambiare l’ambiente in cui si inserisce? O ancora, è costretto a abbandonare ciò in cui crede e commettere atti che considera riprovevoli?

DPR ha l’intelligenza narrativa di prevedere un secondo protagonista “di controllo” per evitare di appiattire la storia su un unico punto-di-vista: certo, Per le ceneri dei padri è un romanzo di formazione, ma bene ha fatto l’autore a inserirne un secondo e mantenere un significato non univoco, come già ha fatto in opere precedenti — o meglio, un significato ambivalente. È forse questo il pregio narrativo più evidente di questo romanzo: il suo senso non univoco, con preconfezionato, ma lasciato alla scelta di chi legge. Alla fine, con chi si identifica chi legge? Con le scelte di Olympias o con quelle di Vento Gioioso, l’amante che lei ha abbandonato nella Casa-tra-le-stelle quando è stata costretta a tornare al pianeta natale?

David Del Popolo Riolo ha un’ottima cultura generale, capacità di controllo della scrittura e conoscenza degli stereotipi della fantascienza, senza per questo correre il pericolo di rimanervi intrappolato.

Il problema cui accennavo all’inizio è però un altro. La mia sensazione personale è che DPR si sia adattato a “abbassare” il livello di complessità della sua scrittura fino a un prodotto YA (nella prima metà del presente romanzo) o poco superiore (nella seconda metà). Niente di male, intendiamoci, a scrivere letteratura per ragazzǝ —non però è una sensazione che ho soltanto da questa ultima prova di DPR, ma anche da diversi premi Urania precedenti, in gestioni editoriali anteriori a quella di Forte.

Ora, il mio dilemma è il seguente: si tratta di un effetto della modalità di selezione dei testi a concorso, o è proprio connaturato al tipo di fantascienza che produciamo in Italia? È dovuto al gusto prevalente dei lettori, cioè per una letteratura d’evasione, non impegnata (tra l’altro questo non è il caso di DPR, che comunque ha impostato un forte dilemma morale)? E in che modo è correlato con la scarsa permeabilità tra fantascienza italiana e letteratura mainstream, a parte il caso eclatante di Valerio Evangelisti — cioè: esiste una relazione tra questo fatto e il disinteresse degli addetti ai lavori per la fantascienza, che non si verifica in altre letterature nazionali?

E perché ciò non è vero anche nel giallo, per esempio? Davvero abbiamo perduto l’occasione di elevare la science fiction al livello del poliziesco, del thriller, di altre letterature di genere che si sono emancipate dalla trappola del disimpegno? Nessun autore considera più con sufficienza lo strumento della letteratura gialla.

Chiedo venia per le troppe domande senza risposta, però la mia riflessione è questa: dal momento che la sf ha molti più strumenti d’indagine del reale rispetto alle altre letterature di genere, è proprio la sua fama di letteratura per ragazzi, o per adulti mai cresciuti nel gusto, a mantenerla nel ghetto?

Credo che questo meriti una riflessione. Nel frattempo, ho deciso di nutrire aspettative per questa grande novità in casa Mondadori, una direzione univoca per tutta la fantascienza pubblicata dall’editore milanese.

Franco Ricciardiello
Davide Del Popolo Riolo