Ti ho sognato due settimane prima. Anche se da mesi quasi non ti alzavi dal letto, eri sceso nel cortile della casa dove hai abitato da quando io avevo due anni e fino all’ultimo giorno. Nel sogno, un arcobaleno altissimo e impalpabile si perdeva nella rifrazione del cielo bianco, in alto sopra le nostre teste; ma sorgeva proprio dell’asfalto del cortile grigio, tra i box auto e le automobili parcheggiate, dove io sono cresciuto giocando con mio fratello. Eri felice come un bambino, indossavi la camicia dalle maniche corte e il gilet grigio chiaro. Ti eri alzato da letto per vedere l’arcobaleno da vicino, in piedi fra le sciabole di luce colorata muovevi le braccia fingendo di acchiappare i nastri di luce.
Al risveglio ricordai che purtroppo già da giorni eri ricoverato in ospedale. Ancora sotto l’emozione del sogno, mi ripromisi di raccontartelo; ma forse ti avrebbe inquietato, era gennaio e in famiglia facevamo di tutto per non ammettere che erano i tuoi ultimi giorni. D’altronde, è sempre stato talmente difficile per me comunicare con te: ancora non ero maggiorenne e i nostri mondi già erano inconciliabili. Deve essere scritto da qualche parte, in un Libro o in un’elica di DNA, che per crescere bisogna disconoscere le proprie radici; e io lo feci presto. Per anni non riuscii a avere con te uno scambio normale, tanto eravamo differenti. E poi eri così caparbio, così sicuro che il tuo fosse il modo giusto di vivere, che non poteva non esserci conflitto con il tuo primogenito.
Eppure, questa ostinazione alla fine è riuscita a commuovermi.