Dove muore l’arcobaleno

Ti ho sognato due settimane prima. Anche se da mesi quasi non ti alzavi dal letto, eri sceso nel cortile della casa dove hai abitato da quando io avevo due anni e fino all’ultimo giorno. Nel sogno, un arcobaleno altissimo e impalpabile si perdeva nella rifrazione del cielo bianco, in alto sopra le nostre teste; ma sorgeva proprio dell’asfalto del cortile grigio, tra i box auto e le automobili parcheggiate, dove io sono cresciuto giocando con mio fratello. Eri felice come un bambino, indossavi la camicia dalle maniche corte e il gilet grigio chiaro. Ti eri alzato da letto per vedere l’arcobaleno da vicino, in piedi fra le sciabole di luce colorata muovevi le braccia fingendo di acchiappare i nastri di luce.

Al risveglio ricordai che purtroppo già da giorni eri ricoverato in ospedale. Ancora sotto l’emozione del sogno, mi ripromisi di raccontartelo; ma forse ti avrebbe inquietato, era gennaio e in famiglia facevamo di tutto per non ammettere che erano i tuoi ultimi giorni. D’altronde, è sempre stato talmente difficile per me comunicare con te: ancora non ero maggiorenne e i nostri mondi già erano inconciliabili. Deve essere scritto da qualche parte, in un Libro o in un’elica di DNA, che per crescere bisogna disconoscere le proprie radici; e io lo feci presto. Per anni non riuscii a avere con te uno scambio normale, tanto eravamo differenti. E poi eri così caparbio, così sicuro che il tuo fosse il modo giusto di vivere, che non poteva non esserci conflitto con il tuo primogenito.

Eppure, questa ostinazione alla fine è riuscita a commuovermi.

Prima notte dopo San Silvestro, era il mio turno di notte nella tua stanza d’ospedale. La neve cadeva ininterrottamente dal pomeriggio, leggera come un presagio, come in un finale di romanzo. Da oltre 72 ore rifiutavi di mettere qualsiasi cosa sullo stomaco. Quella notte pensai che non ce l’avresti fatta a vedere il mattino. Impossibile per me dormire, con il pensiero che potessero essere le nostre ultime ore insieme. L’unico pensiero fisso che distraeva la tua attenzione da un continuo, incoerente vaneggiare era la volontà di bere. Malgrado lo stato di debilitazione estrema, l’incapacità quasi totale di reggerti in piedi, la renitenza a masticare o inghiottire qualsiasi alimento, mi impressionò la tua ostinazione a bere quei pochi centilitri d’acqua che a intervalli regolari versavo nel bicchiere di carta. Raddrizzavi la schiena come potevi, e prendendomi il bicchiere di mano lo stringevi con le dita che non riuscivano più a dosare la forza né a controllare il tremito; avvicinavi le labbra e sorseggiavi un goccio per volta, sospeso tra respiro e ingestione, perché la malattia aveva cancellato la memoria di come si inghiotte, poi me lo restituivi vuoto. Era l’unica prescrizione medica che ancora riuscivi a osservare, e la inseguivi come se dall’acqua dipendesse la tua guarigione.

Ecco, in quei momenti sentivo la commozione premere dietro gli occhi. Mi sentivo per un’ultima volta fiero di te, come quando ero bambino e l’orizzonte del mio affetto non andava al di là del confine della famiglia. In un modo o nell’altro, quell’affetto negli anni non me lo hai mai fatto mancare.

Ti ho sognato ancora due settimane dopo. Indossavi il pigiama di cotone azzurro che adesso ho ereditato io, e sedevi in salotto insieme a due perfetti sconosciuti, ai quali promettevi di portare a termine in breve tempo uno dei tuoi consueti lavori di découpage con materiale recuperato in strada. Mi spaventai; pensavo “Ma non si ricorda di essere morto?” Prevedevo con timore la tua delusione quando avresti rammentato di non essere più in vita da giorni, già bruciato nel forno del crematorium. Non sapevo come dirtelo con discrezione. Finalmente congedasti gli ospiti, poi ti lasciasti andare esausto sul sofà di tessuto, e solo allora dal tuo sguardo compresi che avevo assistito all’ultimo sussulto di vitalità. Dopotutto, già una settimana prima del respiro terminale ti avevamo dato per morto: il sacerdote dell’ospedale ti aveva disegnato la croce in fronte con l’ultimo olio, poi improvvisamente ti eri ripreso senza ricordare nulla, e eri sopravvissuto ancora sette giorni e sette notti. Faticavi a credere di dover morire come tutti.

Nel sogno mi avvicinai a te. Sorridesti con lo sguardo lontano, forse cominciavi a renderti conto. Temevo la tua frustrazione, per prevenirla ti abbracciai: eri diventato così magro, ricordo che inspirai profondamente per annusare il tuo odore, così familiare. Tu continuasti a guardare lontano sopra la mia spalla, senza dire una parola e senza smettere di sorridere fino al termine del sogno.

Il sogno è finito, la tua vita pure. Quando penso a te sento ancora limpidamente la tua voce, e so che continuerò a sentirla per il resto dei miei giorni. Sei nell’aria, sei nel vento, sei nell’urna colore del rame. Sei in me. Grazie per avermi mostrato il punto dove nasce l’arcobaleno.

 

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