Di Leonardo, encausto e Anghiari

Esce oggi per Delos Digital, nella collana History Crime, il mio racconto giallo che vinse nel 2004 la XXXI edizione del premio Gran giallo “città di Cattolica” (ex æquo con Matteo 19, 14. Lasciate che i bambini vengano a me, di Lorenzo Gioielli, premiato in quanto opera teatrale). Il mio racconto fu pubblicato l’anno successivo in appendice al n. 2870 de Il Giallo Mondadori.

Ecco l’estratto dal verbale della giuria:

La Giuria composta da: Mario Guaraldi, Luciana Leoni, Igor Longo, Carlo Lucarelli, Valerio Massimo Manfredi, Marinella Manicardi, David Riondino, riunitasi il giorno 8 novembre 2004 a Cattolica in Piazza Repubblica 12, dopo aver attentamente vagliato i 216 racconti pervenuti, ha deciso di assegnare all’unanimità il premio per il miglior racconto giallo di ambientazione italiana a BATTAGLIA D’ANGHIARI di Franco Ricciardiello, con la seguente motivazione: “Per la plasticità letteraria e l’incalzante partitura diacronica che trasferisce un odio antico nella progettazione di un efferato delitto configurabile solo dalla mente del genio leonardesco nell’attimo della sua rievocazione creativa”. La Giuria, favorevolmente colpita dalla qualità delle opere partecipanti assegna un premio ex-aequo al racconto MATTEO 19,14 LASCIATE CHE I BAMBINI VENGANO A ME di Lorenzo Gioielli.

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Un’avventura editoriale in Grecia

Tra maggio 2002 e ottobre 2003, sull’onda del successo di Ai margini del caos, che oltre a essersi rivelato uno degli Urania più venduti del decennio, era stato anche tradotto in Francia e pubblicato da Flammarion, ottenni tramite l’agenzia letteraria PNLA un contratto per la traduzione di cinque miei racconti in lingua greca. Queata è la copertina del primo, che contiene accanto al mio nome il titolo del racconto, Η Μικέλα και η βόμβα Νετρονίου.

Il primo a apparire, in due puntate sui numero 97 e 98 della rivista (maggio 2002) fu Η Μικέλα και η βόμβα Νετρονίου, traduzione di Michela e la bomba al neutrone. Il racconto, il numero dieci nella mia bibliografia, vincitore del Premio Italia 1988 per il miglior racconto su pubblicazione professionale, era uscito l’anno precedente sulla fanzine barese THX1138 (numero 5/6), dopo un’accurata e attenta revisione di Vittorio Catani. Cito da Wikipedia:

Durante un viaggio a Venezia, un uomo affonda il coltello nel cuore della moglie davanti a numerosi testimoni. La donna non muore, anzi si rende conto che lui ha scoperto la terribile verità che per anni gli ha nascosto. I due si erano conosciuti qualche anno prima al Carnevale di Venezia, e da quel momento l’uomo aveva iniziato a fare sogni incomprensibili che sembravano messaggi dell’inconscio. In questo modo si è accorto di essere l’unico sopravvissuto a una guerra catastrofica che ha cancellato dal pianeta la vita biologica; tutti gli altri, a partire da sua moglie, sono androidi.

Il titolo è tratto da un poema di Evgenij Evtušenko, Mamma e la bomba al neutrone, alcuni versi del quale sono citati nel testo.

Il secondo racconto, su “9” n. 109 (31 luglio 2002) fu Μια κλεμμένη πάνινη κουκλα, traduzione di Una bambola di stoffa rubata, che per qualche ragione che mi sfugge (forse in reazione alla sua brevità, forse al fatto che si tratta della pria ucronia di mia conoscenza a occuparsi del problema immigrazione) è tra i miei racconti più ripubblicati in assoluto. È la cronaca del tentativo di raggiungere via mare i paesi industrializzati sulla sponda sud del Mediterraneo, dove ci sono ricchezza, lavoro e democrazia, da parte di un emigrante che abbandona la famiglia in un’Italia povera e arretrata.

La prima pubblicazione risale al 14 agosto 1991 sul quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno, dove ero stato invitato da Vittorio Catani che aveva avuto l’incarico dal giornale di pubblicare una selezione di racconti di fantascienza da proporre come lettura nel periodo estivo.

Il terzo racconto è Το Λευκό Ρόδο του Βοναπάρτη, apparso il 20 novembre 2002 sul n. 125 della rivista. È la traduzione di La rosa bianca di Bonaparte, forse l’unico steampunk che io abbia masi scritto; come ho detto in un precedente post, questo mio racconto è stato tradotto in tre lingue: è un’ucronia in cui il generale Bonaparte invade l’Italia nell’aprile 1796 con l’esercito fornitogli dal Direttorio, portando con sé carri armati a vapore e proiettori luce che funzionano con la pila di Volta.

Gli ultimi due sabati di febbraio 2003 appare in due puntate sui numeri 137 e 138 di “9” il racconto Αιώνιο καλοκαιρι ςτα φιορδ; si tratta della traduzione di una delle mie prime pubblicazioni in assoluto, L’eterna estate sul fiordo, il numero 4 della mia bibliografia personale. Stavolta cito me stesso:

Ricordo bene come nacque il mio primo racconto maturo (ora, rileggendolo, mi viene da ridere a questa definizione): avevo in mente una vaga trama, due o tre accenni tratti dai marginalia di un libro di Yeats, e una certa voglia di scrivere. A quel tempo avevo letto quasi tutti i romanzi di George Orwell, e la notte prima di iniziare la stesura del manoscritto mi ritrovai a pensare “E se inserissi Orwell nel mio racconto?” Non riuscii a prendere sonno che a notte inoltrata.

Franco Ricciardiello, Io e lei, da Intercom n. 105/106, Terni 1989

La serie di cinque racconti si chiude nell’ottobre 2003, sui n. 170 e 171 di “9”, con Ο κηπος, traduzione di Il giardino dei fiori in comune, racconto scritto appena due settimane dopo L’eterna estate sul fiordo. Lo inviai alla fanzine TTM (The Time Machine) di Padova; fu subito accettato dal curatore Franco Stocco, ma mai pubblicato perché la rivista chiuse senza pubblicare l’ultimo numero programmato. Apparve poi nel 1988 sul numero di prova dlella nuova fanzine Follow my Dream, che Roberto Sturm curò per qualche anno a Ancona. Fu tradotto e pubblicato in Grecia malgrado raccontasse di un futuro in cui l’Unione Sovietica era ancora impegnata nella corsa allo spazio, e una missione esplorativa scopriva su un pianeta extraterrestre una città abbandonata da una razza aliena.

La rosa blanca de Bonaparte

Nel dicembre 2004 la rivista argentina Axxón, in attività dal 1989 fino a oggi, pubblicava il mio racconto La rosa bianca di Bonaparte, tradotto in spagnolo (ma in Argentina si dice castellano) dallo scrittore catalano Fran Ontanaya.

Si tratta di un racconto atipico nella mia bibliografia, forse l’unico di genere stampunk che io abbia mai scritto; la prima pubblicazione risale a novembre 1995, quando apparve sul n. 2 anno III della rivista Shining di Franco Forte e Franco Clun; era giunto quinto classificato al Premio Alien 1994, dopo Antonio Piras, Giandomenico Antonioli, Giafranco De Turris e Nicola Fantini. I racconti partecipanti erano stati 135.

Quattro anni dopo, il racconto fu ripubblicato sul n. 39 di Delos . Il caso volle che divenisse il mio racconto più pubblicato all’estero, forse per la relativa brevità, forse perché lo steampunk era piuttosto in auge: è del novembre 2002 la pubblicazione con il titolo Το Λευκό Ρόδο του Βοναπάρτη su 9, supplemento settimanale del quotidiano greco Ελευθεροτυπία , e del 2003 ancora l’edizione francese, La rose blanche de Bonaparte, su Passés Recomposés – anthologie uchronique della casa editrice Nestiveqnen.

Questo è il testo spagnolo: la versione in italiano si trova gratis online su Fantascienza.com

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Assalto al Sole, l’antologia made in Italy sul Solarpunk

È uscita per Delos Digital, curata da Franco Ricciardiello, la prima antologia dedicata al nuovo filone della science fiction internazionale.

di CARMINE TREANNI

tratto da SPECIALE ASSALTO AL SOLE: IL SOLARPUNK ITALIANO su Delos n. 220

Chi scrive segnalò nell’editoriale del numero 153 di Delos Science Fiction (Aprile 2013) la presa di posizione dello scrittore Neal Stephenson, che nel 2013 si lamentava dei suoi colleghi perché non erano più in grado di essere d’ispirazione per gli scienziati, contribuendo così, con la loro immaginazione, a creare un futuro più ottimistico. Quella posizione dell’autore di Snow Crash, espressa in un lungo articolo pubblicato sul sito del World Policy Institute, ha dato vita anche ad un progetto, denominato Hieroglyph Project, con cui Stephenson voleva convincere i suoi colleghi a scrivere fantascienza ottimistica e realistica. A sette anni di distanza, uno dei frutti più interessanti di quel pensiero è il Solarpunk, un nuovo filone della science fiction che è nata nel segno proprio dell’ottimismo.

E nel segno proprio del Solarpunk è nata l’antologia Assalto al Sole. La prima antologia solarpunk di autori italiani a cura di Franco Ricciardiello, ed edita dalla Delos Digital.

Dalla quarta di copertina, traiamo le caratteristiche principali del Solarpunk:

Se esistesse una mappa cartesiana della fantascienza, il movimento solarpunk si troverebbe probabilmente all’estremo opposto del distopico. È un tentativo di rispondere alla domanda “che aspetto ha una civiltà sostenibile e come possiamo arrivarci?” Il solarpunk può essere utopico, ottimista o interessato alla lotta per un mondo migliore, mai distopico. Il nostro mondo arrostisce a fuoco lento, abbiamo bisogno di soluzioni, non solo di avvertimenti. Il solarpunk è allo stesso tempo una visione del futuro, una provocazione ponderata, un modo di vivere e una serie di proposte realizzabili per arrivarci; è una visione di futuro che incarna il meglio di ciò che l’umanità può raggiungere: un mondo post-scarsità, post-gerarchia, post-capitalismo in cui l’umanità vede se stessa come parte della natura e l’energia pulita sostituisce i combustibili fossili.

Ricciardiello ha chiamato undici tra i migliori autori italiani di fantascienza per proporre loro di confrontarsi con questo filone e, come vedremo, gli undici scrittori che hanno accettato la sfida lo hanno fatto in modo non banale.

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Assalto al sole: la prima antologia del solarpunk italiano

Il 22 settembre uscirà per la casa editrice Delos Books, in versione cartacea e digitale, un volume curato dal sottoscritto, Assalto al sole, la prima antologia solarpunk di autori e autrici italiani: dieci racconti di fantascienza che guardano al futuro con ottimismo. Storie di Davide Del Popolo Riolo, Stefano Carducci e Alessandro Fambrini, Serena M. Barbacetto, Romina Braggion, Silvia Treves, Nino Martino, Lukha B. Kremo, Franci Conforti, Giulia Abbate, Franco Ricciardiello. Il volume sarà presentato in anteprima il 20 settembre alla Loving the Alien Fest di Torino.

Il solarpunk è un modo per immaginare un futuro migliore, basato su tecnologie sostenibili e stili di vita cooperativi (piuttosto che competitivi). È punk perché la narrativa tradizionale ci vede diretti verso il disastro, la distopia; i solarpunk si rifiutano di accettare che sia l’unico futuro possibile.

Sarena Ulibarri[1]

Negli ultimi anni abbiamo assistito all’esplosione della narrativa distopica, che nata da una costola nobile della science fiction — Orwell, Zamjatin, Huxley — si è nel tempo trasformata in un genere a sé, con la propria estetica e il proprio pubblico. Da speculazione e monito contro le distorsioni della nostra civiltà, con il passaggio di testimone generazionale e la sua “istituzionalizzazione”, la distopia (o anti-utopia) è divenuta un genere autoreferenziale e consolatorio, che spesso si esaurisce nella semplice forma editoriale dell’avventura young adult.

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Rizomi del Sole Nascente

“Scordato di pranzare” di Skyfire, Taiwan

Grafica di copertina molto elegante per quello che è probabilmente il progetto più compatto tra le numerose antologie di fantascienza, e non, che Gian Filippo Pizzo organizza da dieci anni a questa parte, e che permettono a molti autori, dai più conosciuti ai perfetti esordienti, di raggiungere un pubblico tramite la vetrina di pubblicazioni anche non specializzate. Questa è la prima volta che Pizzo collabora con Kipple Officina Libraria.

Come ognuna di questa raccolte, anche la presente ha un argomento di fondo: “La fantascienza dall’Italia all’oriente”, un trait d’union che si ispira all’interesse tutto nuovo dei mercati occidentali per romanzi e racconti che arrivano dall’Asia, sulla scia dello straordinario successo della trilogia del “Passato della Terra” di Liú Cíxīn — un interesse che in Italia si è già sostanziato nelle iniziative della casa editrice Future Fiction di Francesco Verso.

La parola rizomi nel titolo si riferisce a Capitalismo e schizofrenia di Gilles Deleuze e Félix Guattari, un modello semantico che prende come metafora il rizoma del mondo vegetale, struttura arborescente presentata come alternativa alla linearità. Il linguaggio è un fenomeno vivente, che possiede una serie di significati diversi, di collegamenti e interpretazioni; all’opposto della struttura gerarchica, lineare o ad albero, la scrittura rizomatica stabilisce connessioni in ogni direzione.

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Carnevale, Venezia (3)

(continua)

Pensavo all’esercito senza volto che formicolava sulle quattrocento isole di Venezia, alla marea incolore di lineamenti artificiali che aveva invaso il mondo: perché in quel momento, nel vicolo buio con Michela chiusa fra le mie braccia, credetti che tutta la città fosse stata invasa dalla gente senza volto.

Nascondendo il tremito delle labbra la baciai, poi raccolsi tutto il mio coraggio e con pochi passi silenziosi tornammo alla via; una banda di pomodori di gommapiuma quasi ci travolse, seguiti da un orso con il piccolo in spalla. Mi asciugai gli occhi con il palmo della mano.

— Posso aiutarti? — mi sussurrò Michela in un orecchio.

— Grazie, è passato — risposi.

Così finiva la domenica di carnevale.

 

Lunedì di carnevale. Mi svegliai e per un attimo non riuscii a orizzontarmi; poi ricordai che mi trovavo nella camera di pensione insieme a Michela, dove avevo deciso di trasferirmi sino al ritorno a Torino. Mi passai una mano fra i capelli, poi guardai Michela sotto le coperte, accanto a me; le posai una mano sull’anca e si voltò, apparentemente già sveglia.

Uscimmo nell’aria addolcita dal sole di marzo; Michela indossava i soli vestiti con cui l’avessi mai vista: la mantella e la bautta nera. Preferimmo non prendere il vaporetto e passeggiare per le calli guardando le vetrine dei negozi. Non avendo appetito camminammo per ore, progettando la nostra ultima notte a Venezia: a tutti i costi volle che andassimo a un ballo in maschera in una casa privata, per il quale possedeva due inviti.

Gironzolammo intorno al tavolo degli aperitivi; tutti sembravano volersi divertire a ogni costo, ma io rimasi discretamente in disparte, di cattivo umore per qualcosa che non riuscivo a definire: forse un brutto sogno, perché mi ero già svegliato con quella sensazione al mattino.

Dopo un po’ Michela mi guidò su per alcuni gradini di uno scalone, poi un lungo corridoio decorato ad affreschi, con vetrate da un lato e porte bianche sull’altro.

Vedevo gente camminare per le calli e danzare nel rettangolo illuminato di piazza San Marco, non molto distante da dove eravamo. Proiettori di luce dorata tagliavano il cielo, rivelati dall’evaporazione notturna.

Ricordai l’incubo del giorno precedente, i fiumi di gente senza volto in movimento, e la fredda mano dell’angoscia mi afferrò il cuore. Forse l’inquietudine che mi portavo appresso era ancora dovuta a quell’episodio.

Ci ritrovammo in strada, dove un gruppo di ragazzi dalle facce dipinte vivacemente stava danzando alla musica che da Campo San Polo filtrava di soppiatto sin là. Ci accostammo a un muro per osservare quella compagnia silenziosa dai volti troppo seri perché stessero divertendosi. Avvertii il muro umido contro la testa, e sfiorandolo sentii che portava un manifesto incollato di fresco.

Venezia era sporca di carta e neve calpestata, intrisa di nebbia e sonno, oscurata dal silenzio e dalla notte. Torrenti di maschere fluivano là dove sino a poche ore prima erano stati fiumi. Battemmo tutti i caffè sulla strada del ritorno, cercando di toglierci quel sapore amaro dal palato; per la prima volta lontani dalla folla, avendo tempo a disposizione e con il preciso proposito di profittare al meglio delle poche ore rimaste, parlammo a lungo di noi stessi.

3 – FINE. foto di Franco Ricciardiello

Venezia, carnevale (2)

(continua)

Danzando mi feci più vicino, favorito dalla sua mantella risvoltata su una spalla; sull’altro braccio, la falda mi sfiorava invece i ginocchi a ogni passo. Sentivo i suoi fianchi snelli sotto le mie mani, e persino la stoffa del suo vestito aveva la morbidezza della pelle sotto i miei polpastrelli.

Non so quanto restammo ad ascoltare i musicisti sempre più stanchi; infine aiutai la mia dama dalle guance imporporate a scendere dal palco e ci dirigemmo a un caffè. La sarabanda all’esterno del locale proseguì per ore mentre al bancone di marmo del bar io potevo finalmente ammirare il viso di Michela per intero, la bautta abbandonata sul collo con il nastro allentato.

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Venezia, carnevale

Foto di Franco Ricciardiello, carnevale di Venezia 2020. I brani di testo sono tratti dal mio “Michela e la bomba al neutrone”, vincitore del Premio Italia 1988 come miglior racconto su pubblicazione non professionale

Era la vigilia della domenica di carnevale; lo stesso giorno di cinque anni prima Michela ed io ci eravamo conosciuti a Venezia. Malgrado gli anni passati, Michela dimostrava l’età di allora; e la mantella che amava indossare, che per lei era forse l’emblema stesso del carnevale, faceva sembrare questa sera ancora più simile all’altra.

C’erano già moltissime maschere, un vero fiume umano che entrava e usciva dai caffè, sciamava nelle calli, calpestava i ponti, formicolava nelle piazze. Mi lasciai trasportare dai torrenti di gente in festa su e giù per il sestiere di San Marco a osservare i ragazzi che facevano musica, i mimi imbellettati agli angoli delle chiese, i venditori di maschere di porcellana e cartapesta, i bambini infagottati, i fotografi dilettanti, cercando di indovinare i lineamenti delle ragazze dietro il trucco.

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Dodici domande su « Torino »

poste dal prof. Giuseppe Ponsetti e dalle allieve e allievi della V E del Primo liceo artistico statale di Torino durante l’incontro del 29 novembre 2019

D: Quali motivazioni  la hanno spinta a scrivere racconti e romanzi?

R (Franco Ricciardiello): Ho sempre avuto il gusto di scrivere, fino da quando frequentavo le elementari. A scuola ero un bambino distratto e non propriamente brillante, ma imparavo in fretta la grammatica e ricordavo il significato di tutte le parole, come mi sarebbe capitato in seguito per le lingue straniere. Sono sempre stato un grande lettore, fino da quanto avevo sei anni e mia madre, che vendeva giornali in un’edicola, mi portava a casa da leggere fumetti e libri per ragazzi. Alle scuole medie scoprii la fantascienza, mi appassionai incondizionatamente e provai a scrivere i primi racconti. Ero conquistato dal sense of wonder, il senso del meraviglioso, che nella fantascienza è più forte che in qualsiasi altro genere. Andavo alle superiori quando la ragazza di un mio caro amico, anche lui divoratore onnivoro di Urania e altre collane specializzate, gli domandò perché non provasse a proporre un suo racconto alle riviste di settore. Mi dissi “e perché io no? Se qualcuno può pensare questa cosa, significa che si può anche fare.” Cominciai a scrivere quindi racconti brevi, di fantascienza naturalmente perché al tempo non leggevo quasi nient’altro. A vent’anni, lo stesso mese in cui partii militare, pubblicai il primo racconto.

Come definirebbe, come “generi”  la sua produzione  letteraria? Ha senso parlare di generi?

Quelli che chiamiamo “generi letterari” sono una comoda invenzione dell’industria editoriale: etichette da appiccicare sugli scaffali delle librerie, come “giallo”, “noir”, “fantascienza”, “romance”, così il lettore sa cosa aspettarsi e può comprare, in teoria, a scatola chiusa. Non dimentichiamo però che questo è vero per ogni disciplina artistica, che si divide in movimenti, scuole, tendenze, periodi. In questo modo anche gli autori possono sapere in partenza quali caratteristiche piaceranno al loro pubblico potenziale. Come ogni attività umana, la ripetizione di certi elementi dopo un certo tempo satura il gusto del pubblico, di conseguenza adesso fa tendenza il crossover, cioè la commistione di più generi: cioè il giallo di fantascienza, il romance storico, e via dicendo. Il risvolto negativo è che all’interno di un genere si può sviluppare una quantità tale di stereotipi da costituire un linguaggio esoterico, uno stile che certi lettori faticano a comprendere; per fare un esempio, nessun libro di fantascienza spiega cos’è un cyborg, la velocità superluminare, le nanomacchine etc., e questo può frastornare un lettore volenteroso che si avvicina senza conoscere nulla delle sue convenzioni. A me da un lato il genere “fantascienza” fa comodo, perché lo conosco alla perfezione e so cosa si aspettano i miei lettori; d’altro canto, a volte mi sta stretto, e allora ho bisogno di scrivere qualcosa di diverso che non può essere raccontato con la macchina narrativa del poliziesco o della science-fiction.

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