(continua)
Danzando mi feci più vicino, favorito dalla sua mantella risvoltata su una spalla; sull’altro braccio, la falda mi sfiorava invece i ginocchi a ogni passo. Sentivo i suoi fianchi snelli sotto le mie mani, e persino la stoffa del suo vestito aveva la morbidezza della pelle sotto i miei polpastrelli.
Non so quanto restammo ad ascoltare i musicisti sempre più stanchi; infine aiutai la mia dama dalle guance imporporate a scendere dal palco e ci dirigemmo a un caffè. La sarabanda all’esterno del locale proseguì per ore mentre al bancone di marmo del bar io potevo finalmente ammirare il viso di Michela per intero, la bautta abbandonata sul collo con il nastro allentato.
La musica terminò, la gente continuò a navigare fra le calli e sui ponti, cabotando sotto i balconi e da un caffè all’altro per differire l’ora del ritorno, in una continua schermaglia di retroguardia contro la notte. Ci ritrovammo anche noi fra la gente, rifiutando di separarci; seguimmo gruppi di dragoni e fantesche fino alla via nuova. Ci ritirammo a passo lento verso la stazione, soffermandoci quasi a ogni campiello, sedendoci sull’orlo dei pozzi murati, chiacchierando sugli scalini delle chiese, osservando con venerazione il riflesso delle luci sui canali.
L’alba ci rinvenne sul ponte delle Guglie, seduti con i ginocchi fra le mani, a parlare ancora di noi e degli altri. Tornammo allora in silenzio, per rispetto verso Venezia e la mattina di marzo, alla stazione di Santa Lucia, Michela aggrappata alla mia spalla, leggera e mesta come la sera di cinque anni dopo in cui le avrei affondato il coltello nel cuore.
Vedendo che ero in maschera e che anche io mi ero procurato una bautta da aggiungere alla feluca, indossò la mantella e fu pronta per uscire. La notte calò in fretta, mentre davanti l’entrata della Fenice assistevamo alla recita improvvisata di alcuni mimi. Ci infilammo in un ristorante a caso, lo stesso in cui cinque anni dopo avrei impugnato con mano malferma un coltello da frutta.
Seguimmo un plotone di paperi bianchi e gialli sino al ponte di Rialto, dove riuscimmo a liberarci dalla corrente per affacciarci sul Canal Grande, largo e immoto sotto la luna. Ero affascinato da quell’avventura che sentivo veramente essenziale nella mia vita, e anche senza parlare pensavo fosse sottinteso che da quel momento in poi non ci saremmo lasciati.
Camminavamo senza meta; all’improvviso tornai in me guardandomi intorno per capire dove fossimo. Non c’erano più musica né voci, solo i passi della folla intorno a noi; sentivo la mano tranquilla di Michela nella mia e un freddo strisciante che cercava di insinuarsi nel collo. Michela camminava pensando ad altro, lo sguardo assorto perduto sulle finestre delle case, per quanto potevo vedere sotto la bautta.
Percepii qualcosa di insolito; osservai la folla: tutti, adulti e bambini, uomini e donne, erano vestiti ordinariamente ma portavano una maschera in viso, di cartone o cartapesta, plastica o carta. Non c’erano molte persone, ma tutti coloro che incrociavamo sembravano adottare il medesimo stile: cappotto e maschera, giacca e maschera, montgomery e maschera. Non c’erano più ussari, fate, egiziani in calzamaglia, galli cedroni, Napoleone, Cleopatra, Leonardo da Vinci: solo operai, impiegati, commercianti, donne anziane con le stesse, anonime, asettiche maschere.
foto di Franco Ricciardiello- 2 – CONTINUA
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