Trombamici da cuccetta d’astronave

Sesso e amore nella science fiction

Finché la fantascienza venne considerata come una semplice estensione del mercato fumettistico per bambini, ovviamente essa si mantenne scrupolosamente lontana deal sesso, sia che si trattasse di riferimento espliciti, impliciti o in qualsiasi altro modo. […]
Gli scrittori di fantascienza […] hanno sempre dimostrato una specie di blocco psicologico verso le donne. Essi tendono a sublimarle, trasformandole in mostri o angeli. La cosa si nota chiaramente in un classico di Ray Bradbury, Cronache marziane (1951). Come si possono scordare le sue fragili ragazze marziane, fatte di seta, gioielli e luce di luna?

Keith Roberts, La fantascienza e la “Barriera del Sesso”, Enciclopedia della Fantascienza vol. V

1 — Niente sesso, siamo nerd

La science fiction è nata come letteratura per nerd. Hugo Gernsback, il fondatore delle prime riviste pulp, era un appassionato di elettrotecnica; è con questo spirito che pubblicò il suo romanzo Ralph 124C 41+ (1911), che oggi consideriamo giustamente illeggibile. Dello stesso spirito informò le pubblicazioni che dirigeva, e incoraggiò gli autori che attirava a sé: un “movimento non solo rozzo, ma investito dalla disapprovazione di quanti non ne facessero parte”.[1]

Questa letteratura si rivolgeva a un pubblico di fanatici della meccanica, e dunque della tecnologia più che della scienza: adolescenti di sesso maschile che la puritana morale americana teneva lontani dalle donne. Nella prima fantascienza, l’argomento standard in tema di sesso era quel “racconto di fate (ad esempio la space opera con il triangolo eroe-principessa-mostro in costume da astronauti” che Darko Suvin considera “un suicidio creativo”[2]: un finto romanticismo che manteneva rigorosamente separati i due sessi, e relegava le donne a una sfera di occupazioni tradizionali, all’irrazionale, ai sentimenti più che all’azione.

Per contrasto, questa letteratura da elettrotecnici non escludeva che le copertine di Amazing Stories (un po’ meno quelle dell’altra rivista gernsbackiana, Science Wonder Stories) riproponessero un’immagine stereotipata e fortemente sessualizzata della donna, di esplicito erotismo — formula che contaminerà anche le riviste concorrenti nate sull’onda di quel successo. Dunque, richiami sessuali in copertina, con damsels in distress o in mise imbarazzanti inadatte all’esplorazione spaziale, mentre i testi all’interno mantengono il riserbo più assoluto sul sesso: una forma di frustrazione bastone+carota che probabilmente attizza i lettori del tempo.

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Io e Lei (9)

Franco Ricciardiello e la Scrittura

Questa parte del racconto sul mio rapporto con la scrittura parla della collaborazione con la casa editrice Odoya e delle mie prime partecipazioni a Stranimondi

continua dall’ottava parte


Continuava intanto l’infaticabile lavoro d’antologista di Gian Filippo Pizzo, sempre alla ricerca di nuovi argomenti e di altre case editrici. Per ogni nuova iniziativa mi contattava, e mi sono sempre fatto punto d’onore di corrispondere alle sue richieste. Partecipai così a un’antologia di gialli di fantascienza, a un’altra su science fiction e arte, e a una terza di fantascienza e guerra, con racconti scritti appositamente.

Nel frattempo Pizzo fece da catalizzatore per un’altra impresa letteraria che mi avrebbe occupato per la seconda metà del decennio. Durante una chiacchierata con me, lui e Walter Catalano avevano saputo che qualche anno prima avevo scritto un lungo testo non di fiction, intitolato Storie di Parigi, una inusuale guida letteraria alla capitale francese, ancora inedito. Pizzo lo raccontò a Marco Desimoni, proprietario di Odoya Edizioni, per il quale avevano pubblicato sia lui che Catalano, così ricevetti un sollecito a inviargli il manoscritto. Con mia sorpresa, Desimoni accettò subito e mi sottopose un contratto d’edizione; non solo, mi propose anche di pubblicare il successivo Storie di Venezia che stavo scrivendo con lo stesso concetto.

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Sognavamo metropoli d’acciaio

Il presente post è il testo dell’intervento che ho tenuto in pubblico al MuFant, Museo dalla fantascienza e del fantastico di Torino, il 13 novembre 2022, in occasione della Biennale Tecnologia Torino, il cui programma era dedicato alla Città.


La Città Futura nella letteratura di fantascienza: non solo macchine volanti

Nel suo secolo abbondante di vita, la fantascienza non ha raccontato solo extraterrestri, astronavi, robot e viaggi nel tempo; fino dai suoi albori come genere letterario, al centro del suo immaginario c’è stata anche la Città.

La città è il centro propulsore della seconda rivoluzione industriale, il luogo dove la tecnica si dispiega con tutta la forza, dove la scienza trova laboratori, cervelli, centri di ricerca, dove sorgono fabbriche e si concentra la manodopera, dove il denaro si forma e si moltiplica. La città sembrava, alle generazioni di inizio Novecento, una porta su un magnifico futuro di progresso.

Ancora più che nel passato, oggi la città diventa una vetrina dell’intelligenza umana, il volto della civiltà, ed è facile intuire che la sua importanza crescerà ancora nei prossimi anni.

La città del futuro ha affascinato non solo scrittori e scrittrici, ovviamente; anche l’illustrazione di fantascienza si è nutrita dei medesimi sogni, anzi parola e immagine si sono alimentate l’una con l’altra:

“Le città del futuro hanno affascinato gli illustratori di fantascienza almeno quanto hanno affascinato gli scrittori e molte illustrazioni hanno dipinto vaste e complesse strutture che gli artisti si sono raffigurate con gli occhi della mente. Strade scorrevoli, marciapiedi sopraelevati, marciapiedi mobili, taxi aerei, apparecchiature per lo spostamento aereo individuale, corsie per il traffico automatizzato per macchine controllate da computer, enormi edifici di vetro e grandiose cupole che racchiudono intere metropoli… La lista è infinita e la varietà senza fine.”

(Frederik Pohl, “Introduzione a una sociologia aliena”, in Enciclopedia della fantascienza, vol,. 5, editoriale Del Drago 1980)

Questo intervento vuole presentare, per sommi i capi ma spero anche, in maniera approfondita, la varietà dei modi in cui la Città è stata protagonista della letteratura di fantascienza, tenendo anche presente l’immaginario degli artisti visuali, in omaggio a quel “circolo virtuoso” di ispirazione che attinge a un sense of wonder rintracciabile nell’illustrazione di fantascienza, come nella narrativa.

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La banda del Club Cuori Solitari del sergente Ballard

Esce oggi, 22 gennaio, l’eBook del mio racconto lungo “La banda del Club Cuori Solitari del sergente Ballard”, nella collana Ucronica di Delos Digital, diretta da Giampietro Stocco. Ho scritto, per l’occasione, un’ucronia musicale.

Dicembre 1980. La notizia dell’assassinio a New York del più famoso tra i Beatles sgomenta lo scrittore britannico James G. Ballard, impegnato nella stesura definitiva del suo Hello America. Affranto per questa morte insensata, decide di raccontare in un testo autobiografico la sua amicizia con l’ultimo elemento arrivato a comporre i Fab Four: l’ex scrittore Michael Moorcock, che nel ’62 abbandona la fantascienza per diventare batterista della band di Liverpool. Travolto dai ricordi e dai rimpianti, Ballard riassume un quarto di secolo di storia: gli anni in cui tutto sembrava dovesse cambiare, la nuova musica, il Sessantotto, l’LSD, la creatività, il protagonismo dei giovani, l’India, la minigonna, la fantascienza sociologica, la via per lo spazio interiore. Un’amicizia nata in una convention di fantascienza, forgiata dalle cose della vita — donne e sesso, affetti e tradimenti: la grande avventura che avrebbe potuto essere la musica giovane se Michael Moorcock fosse arrivato prima di Ringo Starr negli studi di Abbey Road.

Sono consapevole del fatto che negli ultimi quindici anni si sono scritti centinaia, forse migliaia di libri sui Beatles: biografie, instant book, agiografie, qualificate analisi musicali, pamphlet religiosi, persino studi universitari — i più umoristici, a mio parere. Questo mio superfluo testo va quindi a aggiungersi in cima a una catasta già troppo alta di carta stampata, ma almeno ha un pregio: privo di pretese d’esaustività o obiettività, impossibili dopo Einstein e Heisenberg, è semplicemente un racconto della mia amicizia con il più famoso dei Beatles, Michael Moorcock, il migliore tra i miei non certo numerosi amici.

firmato: J. G. Ballard

per acquistare il libro su Delos Store

Lana Del Rey considerata come un personaggio di J.G. Ballard

Copertina della prima edizione originale (particolare)

«Nessuno viene più a Vermilion Sands, e immagino che pochi ne abbiano sentito parlare. Ma dieci anni or sono, quando Fay e io andammo ad abitare al numero 99 di Stellavista, poco prima che il nostro matrimonio naufragasse, la colonia veniva ancora ricordata come ex luogo di villeggiatura di stelle del cinema, ereditiere criminali ed eccentrici cosmopoliti in quegli anni favolosi prima della Vacanza. Certo, le astruse ville e i palazzi finti erano in gran parte vuoti, gli immensi giardini invasi dalle erbacce e prosciugate da tempo le piscine su due livelli, e quel luogo stava degenerando come un luna park abbandonato, ma dalla bizzarra stravaganza che ancora vi aleggiava era facile capire che i giganti se ne erano andati da poco.»

James G. Ballard, I segreti di Vermilion Sands (Vermilions Sands, 1971)

Vermilion Sands è una immaginaria località di riviera che si trova da qualche parte “tra l’Arizona e la spiaggia di Ipanema”, come scrive James G. Ballard stesso nella prefazione all’edizione in volume 1971, “ma in questi ultimi anni mi sono compiaciuto di vederla spuntare un po’ dovunque, e soprattutto in qualche settore della città lineare, lunga cinquemila chilometri, che si stende da Gibilterra alla spiaggia di Glyfada lungo le coste settentrionali del Mediterraneo.” Vermilion Sands è la località balneare ideale di un’umanità futura che Ballard immagina sdraiata al sole, una società del tempo libero perché affrancata dalla schiavitù del lavoro imposta della modernità. Il narratore / punto di vista è un uomo, di solito attirato a Vermilion Sands dal milieu artistico; la protagonista invece è sempre una donna, una figura femminile dalla psicologia inaccessibile (riflesso narrativo della peculiare misoginia dell’autore, che ama le donne come se fossero esseri alieni). Le donne di Vermilion Sands sono personalità al limite del borderline, divise tra originalità artistica e schizofrenia. Ciascun plot è costruito intorno alla perturbazione che la venuta di questa donna, in genere famosa e ammirata, genera nello statu quo del PdV, fino a una soluzione raggiunta durante un climax drammatico che provoca l’allontanamento del perturbante, cioè la figura femminile.

Questa pagina in versione inglese

Ho scelto di illustrare le brevi citazioni che seguono con foto della cantautrice e poetessa Lana Del Rey,al secolo Elizabeth Grant[1], che con il suo allure a cavallo tra anni Cinquanta e postmoderno è forse la più adatta a impersonare le donne aliene di Ballard.

JANE CIRACYLIDES

da Prima Belladonna, (Prima Belladonna, 1956)

Conobbi Jane Ciracylides durante la Vacanza, la crisi mondiale di noia, apatia e canicola estiva che tanto felicemente ci coinvolse tutti per dieci indimenticabili anni, e immagino che ciò possa avere avuto molto a che fare con quanto accadde fra noi. Non credo proprio che oggi riuscirei a rendermi altrettanto ridicolo, ma può anche darsi che sia stata tutta colpa di Jane.
Qualunque altra cosa ne dicessero, nessuno poteva negare che si trattasse di una splendida ragazza, sebbene il suo bagaglio genetico fosse un tantino promiscuo.

Volgendo lo sguardo vidi entrare la donna dalla pelle dorata.
«Buongiorno» dissi. «Devono trovarla di loro gusto.»
Rise amabilmente. «Salve. Facevano i capricci?»
Sotto la nera veste da spiaggia l’epidermide le sfavillava di un oro più morbido e tenue, e ad avvincermi erano i suoi occhi. Li vedevo appena sotto il cappello a larghe tese. Zampe d’insetto tremolavano delicatamente attorno a due punti di luce violetta.
Si avvicinò a una schiera di eterogenee felci e rimase lì a guardarle. Le felci si protesero verso di lei e gorgheggiarono appassionatamente in chiave di soprano con limpide voci flautate.
«Non sono deliziose?» fece la donna carezzando delicatamente le fronde. «Hanno tanto bisogno di affetto.»
Aveva una voce dal registro basso, un sussurrante scorrere di sabbia fresca con una cadenza che lo rendeva musicale.
«Sono appena giunta a Vermilion Sands» disse «e il mio appartamento mi sembra terribilmente silenzioso. Forse se avessi un fiore, ne basterebbe uno, non mi sentirei tanto sola.»
Non riuscivo a distogliere gli occhi da lei.

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Lana Del Rey considered as a J.G. Ballard character

«No one ever comes to Vermilion Sands now, and I suppose there are few people who have ever heard of it. But ten years ago, when Fay and I first went to live at 99 Stellavista, just before our marriage broke up, the colony was still remembered as the one-time playground of movie stars, delinquent heiresses and eccentric cosmopolites in those fabulous years before the Recess. Admittedly most of the abstract villas and fake palazzos were empty, their huge gardens overgrown, two-level swimming pools long drained, and the whole place was degenerating like an abandoned amusement park, but there was enough bizarre extravagance in the air to make one realize that the giants had only just departed.»

J.G. Ballard, Vermilion Sands (1971)

Vermilion Sands is an imaginary seaside resort located “somewhere between Arizona and Ipanema Beach”, as Ballard himself writes in the preface to the 1971 edition, “but in recent years I have been delighted to see it popping up elsewhere – above all, in sections of the 3,000-mile-long linear city that stretches from Gibraltar to Glyfada Beach along the northern shores of the Mediterranean”. Vermilion Sands is the ideal seaside resort of a future humanity that Ballard imagine lying in the sun, a society of free time because freed from the slavery of work imposed by modernity. The narrator / point-of-view is always a man, usually attracted to Vermilion Sands by the artistic milieu; the protagonist instead is always a woman, a female figure with inaccessible psychology (because of the author’s peculiar misogyny, who loves women as if they were alien beings). Vermilion Sands women are borderline personalities, torn between artistic originality and schizophrenia. Each plot is built around the perturbation that the arrival of this famous and admired woman generates in the status quo of the PoW, until a solution is reached during a dramatic climax that causes the removal of the uncanny, i.e. the female figure.
I have chosen to illustrate the following short quotes from Vermilions Sands with photos of the singer-songwriter and poet Lana Del Rey who with her allure between the 1950s and postmodernism is perhaps the most suitable for impersonating Ballard’s alien women.

Lana Del Rey is the stage name of Elizabeth Grant. For one of those singular coincidences that make life worth living, a character named Elizabeth Grant appears in “The Kindness of Women” (1991) by J.G. Ballard: «Women dominated my years at Cambridge […], but none more than Dr Elizabeth Grant. During my first term at the university I saw her every day, and I knew her more intimately than any other woman in my life. But I never embraced her. ” Only at the end of the chapter is the little “mystery” revealed: Dr Elizabeth Grant donated post mortem her body to the medical faculty so that the students, including J.G. Ballard, could practice anatomy.

LEONORA CHANEL

from The could-sculptors of Coral D

All summer the cloud-sculptors would come from Vermilion Sands and sail their painted gliders above the coral towers that rose like white pagodas beside the highway to Lagoon West. The tallest of the towers was Coral D, and here the rising air above the sand-reefs was topped by swan-like clumps of fair-weather cumulus. Lifted on the shoulders of the air above the crown of Coral D, we would carve seahorses and unicorns, the portraits of presidents and film stars, lizards and exotic birds. As the crowd watched from their cars, a cool rain would fall on to the dusty roofs, weeping from the sculptured clouds as they sailed across the desert floor towards the sun.
 Of all the cloud-sculptures we were to carve, the strangest were the portraits of Leonora Chanel. As I look back to that afternoon last summer when she first came in her white limousine to watch the cloud-sculptors of Coral D, I know we barely realized how seriously this beautiful but insane woman regarded the sculptures floating above her in that calm sky. Later her portraits, carved in the whirlwind, were to weep their storm-rain upon the corpses of their sculptors.

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Michelangelo e la Luna

Perché le arti hanno un ruolo così marginale nella fantascienza?

di FRANCO RICCIARDIELLO

Il presente post riporta il testo del mio intervento a Stranimondi 2019

“La maschera oscurata” di Lente Scura (Italia)

Da qualche tempo ho cominciato a interrogarmi sul rapporto tra la fantascienza e le arti, e sul perché in pochi si siano posti la stessa questione in passato, considerata la scarsità di interventi critici sull’argomento. Immagino che molti rimarranno stupiti, e sarebbero pronti a rispondere che c’è invece moltissimo materiale a disposizione, anche solo a digitare le due semplici parole in un motore di ricerca: Arte e Fantascienza, ed ecco pagine intere di link.

Io non mi riferisco però a quel vastissimo, sensazionale patrimonio di immagini che alimentano il nostro senso del meraviglioso, con il risultato che da una parte l’immaginario fantascientifico continua a lavorare nel nostro inconscio, e dall’altra parte chi la snobba per pregiudizio può continuare a ritenere che si tratti di un genere di “effetti speciali”. Tra l’altro, non pochi artisti italiani sono affermati a livello internazionale grazie alla qualità del loro lavoro, che nei paesi di lingua anglosassone non necessita naturalmente di traduzione.

No, mi riferisco proprio alla presenza di tematiche artistiche all’interno della letteratura di fantascienza, nella trama delle storie o nell’ambientazione.

Di cosa parla infatti la science-fiction? Di scienza, prima di tutto, e così deve essere: molto spesso l’ambientazione è futura — anzi tra le leve più potenti che spingono verso il genere c’è proprio la possibilità di creare un mondo lontano dal nostro presente. Logico quindi che l’immaginazione si concentri principalmente intorno alle tecnologie futuribili, per due ragioni:

  1. la SF ha una natura positivista, favorevole al progresso scientifico-tecnologico;
  2. la divergenza d’ambientazione rispetto al nostro presente, sia nel caso di “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, direbbe Leopardi, sia all’opposto nel caso di scenario distopico, si rivela un ottimo motore per la trama: è facile quindi che l’idea di una storia si sviluppi a partire da un novum scientifico-tecnologico le cui implicazioni la soddisfano completamente.

A questo punto, se cerco di tenere insieme queste riflessioni, ecco che le cose cominciano a stridere e a non combaciare, impedendomi di “costruire un universo che non cada in pezzi dopo due giorni”, come spiegava Philip K. Dick.

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Guida (non autorizzata) al postmoderno

di FRANCO RICCIARDIELLO

per Giulia Abbate

Non molti giorni fa, nel post di un mio intervento su Gotico americano di William Gaddis, Giulia Abbate mi ha invitato a compilare una lista di 10 libri basilari per farsi una prima cultura sul postmoderno. Io ho iniziato con le migliori intenzioni, constatando subito che l’elenco rischiava di diventare lungo, troppo lungo, ma soprattutto che avrei dovuto anteporre alcune premesse per evitare di essere frainteso. Per questa ragione, invece di un’arida lista in un post Facebook, ecco un catalogo ragionato, con quattro premesse ineludibili:

  • Quello che segue è un elenco-catalogo assolutamente soggettivo e non esaustivo, perché contiene solo titoli che ho letto personalmente, quindi una lista della spesa “per farsi una prima cultura”;
  • per la definizione dei caratteri determinanti nella postmodern fiction, rimando al semplice e utile elenco di Wikipedia in inglese, che elenca tra gli altri intertestualità, pastiche, tecnocultura, humour nero, frammentazione, paranoia, realtà aumentata, metanarrativa;
  • nella scelta delle mie letture e nella mia attività letteraria, per esempio il Laboratorio di lettura che gestisco con incontri mensili tra amici, tendo a escludere autori americani, per una serie di motivi che non è forse superfluo elencare: riproposizione da parte delle case editrici italiane senza filtro critico di (quasi) tutto ciò che si pubblica oltre oceano, mia determinazione a mantenere una proporzione quantitativa tra letteratura USA e letteratura del resto del mondo, facile accessibilità di letterature minori in traduzione italiana, al contrario per esempio della produzione cinematografica che per sproporzione di mezzi e capitali è sbilanciata verso Hollywood; per questa ragione, ritengo che risulti al di sopra di ogni sospetto il fatto che la quasi totalità degli autori nella terza parte di questo post, il Gotha del postmoderno, sono statunitensi. A un primo post dedicato cioè al postmoderno internazionale, diviso in due parti per ragioni di lunghezza, ne seguirà un altro concentrato sugli autori che io considero un gradino sopra gli altri, la vera fucina di idee del postmoderno;
  • mi sono reso conto soltanto al momento di ragionare su una lista, una top ten, che avrebbe incluso pochissime autrici, nessuna nel Gotha; e confesso che sono il primo a stupirmi, dal momento che non opero alcuna scelta a partire dal sesso dell’autore. Non sono in grado di offrire una risposta a questa domanda che mi pongo da solo, se non il fatto che una sorta di filtro sembra esistere a monte delle mie scelte: a mia parziale scusante, noto per esempio che su 43 autori citati da Wikipedia edizione italiana nella voce “Letteratura postmoderna”, solo quattro sono donne: le americane Giannina Braschi, A.M.Homes e Jennifer Egan, e l’inglese Jean Rhys. (Nell’edizione in lingua inglese di Wikipedia va un po’ meglio, 48 autrici su 188, ma qui le maglie del concetto di postmoderno sono piuttosto larghe, perché vi rientrano anche Dacia Maraini, Vladimir Nabokov, Dario Fo e Isabel Allende, giusto per fare qualche esempio). Senza volermi attirare fulmini, dirò per esempio che una delle autrici più citate a proposito di postmoderno è Virginia Woolf, che invece a me fa uno strano effetto: leggo una frase, un paragrafo, un capitolo, e non mi rimane in mente; è come se quello che scrive mi entrasse in un orecchio e mi uscisse dall’altro senza lasciare traccia. Ho dovuto riciclare a uno scambialibri l’omnibus che avevo acquistato, perché i momenti trascorsi a leggere Virginia Woolf erano uno buco nero nella mia vita….

Non voglio quindi fornire una definizione puntuale della postmodern fiction, che lascio agli esperti e alla descrizione implicita delle opere che cito; mi limito a costatare che di per sé, come dimostrato da Roberto Bolaño, un catalogo di autori e opere postmoderne rischia di diventare, di per sé, un’opera postmoderna.

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Un passaporto per l’Eternità

di ROMINA BRAGGION

“Permetteteci, signori, di augurarvi dolcissimi sogni!”

James Ballard, Passport to Eternity.

Manuale di scrittura di fantascienza, Passaporto per l’eternità, è un saggio realizzato da Giulia Abbate e Franco Ricciardiello edito da Odoya Edizioni.
Partiamo dal vestito e appuntiamo la prima stellina.
Apprezzo moltissimo la copertina di Mauro Cremonini : trovo davvero originale la grafica, il tratto quasi infantile e giocoso. Il piccolo asteroide tondeggiante e l’Astronautino, vagamente Tele-tubbies, sono in primo piano.
Il titolo è scandito a colori e font diversi sebbene molto leggibili.
Lo sfondo giallo crea un bell’accordo con il fiordaliso del dorso e della sovracoperta.
Ritroviamo Astronautino nel frontespizio: ci accoglie poggiato su un pianeta alieno a forma di libro.
Un altro astronauta scende in picchiata sull’indice dei box.
Siamo quasi confortati da questa freschezza e spontaneità. Senonché le virgolette bianche che delimitano l’asteroide e il pianeta minaccioso che sovrasta Astronautino, dovrebbero insospettirci.
Inconsapevoli proseguiamo, scoprendo un sommario ben strutturato, molto utile per la lettura veloce, un indice dei box e un indice delle schede libro.

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I segreti delle sabbie vermiglie

È un peccato che I segreti di Vermilion Sands  sia, insieme a La gentilezza delle donne, l’unica pubblicazione in volume di J.G. Ballard trascurata dalle case editrici che da qualche tempo hanno ripreso la sua opera in collane non di genere. In Italia è apparsa solo una bella edizione nel lontano 1976, cinque anni dopo l’originale inglese, con prefazione di Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco. Vermilion Sands è uno dei cicli di racconti più compatti nella storia della fantascienza — ma forse il problema editoriale è proprio questo: si tratta di storie che se da un lato rispettano i requisiti delle riviste di science-fiction degli anni Cinquanta e Sessanta (e di conseguenza appaiono decisamente spiazzanti per il lettore mainstream), dall’altro lato rispondono all’estetica dell’inner space contrapposto all’avventura nello spazio esterno, per cui possono scontentare il nuovo pubblico di genere, ora che l’estetica della new wave è tramontata.

Un vero peccato, perché i nove racconti di Vermilion Sands sono storie di grande bellezza, il tentativo di creare un mito letterario intorno a questa immaginaria città di un immaginario futuro, tutt’altro che distopico, nel quale le arti, da sempre figlie di un dio minore nella letteratura di fantascienza, hanno un’importanza fondamentale.

Magdalena Radziej (Varsavia) “Neon Lama”

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