Un modello per gli Stati fascisti del futuro

L’ultimo romanzo scritto da James G. Ballard, Regno a venire (Kingdom Come, 2006) completa una trilogia di opere sulla rivolta della classe media contro la società moderna. Fin dal primo dei tre, la risposta dell’individuo della middle class contro una incomprensibile complessità sembra essere la follia, ma è soltanto con quest’ultimo libro che Ballard ci indica esplicitamente il nome di questa psicopatia:

Il consumismo è proprio quello che ci vuole. Ha creato un modello per gli stati fascisti del futuro. Il consumismo genera un bisogno che può essere soddisfatto solo dal fascismo, un tipo di follia che è l’unica strada da perseguire. […] Il fascismo consumista ha comunque una sua ideologia bella e pronta, e quindi nessuno deve mettersi a dettare  un nuovo Mein Kampf. Il male e la psicopatologia si sono trasformati in stili di vita. È una prospettiva inquietante, ma il fascismo consumista è forse l’unico modo per tenere insieme una società. (p. 180)

Già nei precedenti romanzi l’autore ha accennato a un legame pericoloso tra devianza della classe media e una forma corrente di fascismo, ma è solo con quest’ultimo, dato alle stampe tre anni prima della morte, che stabilisce una esplicita connessione con il consumismo. Prendere questa affermazione alla lettera, come se Regno a venire fosse un trattato di scienze politiche e non un’opera di fiction, porterebbe fuori strada. Per esempio, è risaputo che il fascismo come movimento storico (compreso dunque il nazismo, che di solito in Italia — a differenza dei paesi anglosassoni o slavi — si tende a considerare separatamente) fu anti-consumista. La verità è che questa interpretazione politica avrebbe senso se J.G.Ballard fosse uno scrittore realista, altrimenti risulta fuorviante. Per capire il passaggio dal consumismo al fascismo in Regno a venire è necessario partire da un’interpretazione psicologica, per concludere che si tratta di un’analogia di natura estetica.

Anche nei due romanzi che precedono la definizione di fascismo è più volte richiamata per definire un violento comportamento psicopatico di manager aziendali stressati (Super-Cannes) o di executive schiacciati dai debiti e marginalizzati in una società tecnologicamente avanzata (Millennium People), ma la definizione sembra piuttosto un tentativo di stigmatizzare un comportamento violento e razzista: fascismo dunque secondo un significato corrente, non politico. È solo in Kingdom Come che la relazione società dei consumi / fascismo diventa esplicita e reiterata.

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Guido Michelone intervista Franco Ricciardiello

Testo dell’intervista apparsa sul quotidiano online Infovercelli 24 nel mese di settembre 2017

Dopo tanta fiction, ecco Storie di Parigi. Come mai?

Guido Michelone

I miei romanzi e racconti sono pieni di puntuali riferimenti geografici; mi piace che chi legge abbia la possibilità di immaginare dove si muovono i personaggi, e la precisione del dettaglio topografico è l’altra faccia dell’accuratezza storica. La mia scrittura è sempre stata caratterizzato da luoghi e tempi lontani. Se poi la domanda è “come mai Parigi?” allora la risposta non può che essere: perché qui è nato il mondo moderno. Il nostro immaginario è oggi colonizzato dall’America, ma solo perché l’industria dei sogni si è trasferita dall’altra parte dell’oceano subito prima dell’ultima guerra mondiale: ma tendiamo a dimenticare che l’Italia è nata da una costola della Francia.

Ci parli brevemente di questo nuovo libro?

Invece di scrivere una storia ambientata a Parigi, ho scelto di fare una raccolta di storie di altri autori: certo, quando racconto la vita di un musicista, l’ambientazione di un romanzo o la trama di un film, intervengo nella narrazione con il mio stile e le mie parole, tentando di mettere in luce la vasta rete di collegamenti tra cinema, musica e letteratura che fa parte delle mitologie di una grande città.

In definitiva cos’è per te alla fine Parigi?

Parigi è una città immensa e bellissima, in grado di regalare emozioni profonde, un organismo vivente che cerca di modificare il mondo a propria immagine e somiglianza, ma soprattutto è l’immagine mentale che me ne sono fatto vedendola nei film, leggendola nei libri, ascoltandola nelle canzoni.

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Nepal, che ci faccio qui?

Ottobre 2004. Da sette giorni siamo tornati, e da sette giorni piove. Chiuso in casa, cerco di uscire gradualmente da una saudade come sempre direttamente proporzionale all’intensità del viaggio e aggravata dal fatto di aver conosciuto un gruppo splendido. La notte sogno colori, confusione, animali. Ho già visto gli amici qui a casa, mi hanno pregato di avvertirli quando tornerò davvero dal Nepal.

Il primo impatto il 10 ottobre, dopo il lungo volo via Qatar con il gruppo di Avventure nel Mondo, è stato di buon auspicio: la vitalità caotica di una metropoli dell’Asia, i colori violenti, gli occhi verdi di una ragazza dal finestrino dell’automezzo. Invece il primo segnale della sindrome del turista mi colpisce come uno schiaffo il mattino dopo a Budhanilkantha, dove una statua di Vishnu giace sdraiata sulle spire di un serpente al centro di un laghetto, vestita di tessuto giallo amaro come se fosse viva; secondo gli hindu fu ritrovata scavata nella roccia quando le acque si ritirarono dalla valle. I re del Nepal non possono contemplarne il volto, pena la morte. Un continua processione di devoti scende i gradini fino alla superficie dell’acqua, porta fiori e riso, si tocca le labbra e sfiora i piedi di Dio. Pellegrini e mendicanti sono sparsi nel cortile intorno, il profumo di incenso si mischia a quello delle offerte bruciate sulle fiamme libere. Entriamo scalzi nel tempio della musica, dove strumenti acustici accompagnano un Hare Krishna senza fine. Qualcuno del gruppo porta dipinta in fronte la tika, un terzo occhio arancione; quello di Luisa è più elaborato, un nucleo di riso dipinto di argento e bordo rosso.

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