Un incontro a Pisa sulla climate fiction

Lo scorso 18 marzo ho partecipato alla libreria Tralerighe di Pisa a un incontro del ciclo “Passione aliena”, parlando insieme a Giuliana Misserville di Climate fiction.

quello che segue è il podcast della nostra bella discussione.

ricordo che sullo stesso argomento ho tenuto un panel a Stranimondi 2022, il cui testo integrale è stato in seguito pubblicato su Solarpunk Italia, con esau

Autunni caldi – parte prima

Autunni caldi – parte seconda

Sognavamo metropoli d’acciaio

Il presente post è il testo dell’intervento che ho tenuto in pubblico al MuFant, Museo dalla fantascienza e del fantastico di Torino, il 13 novembre 2022, in occasione della Biennale Tecnologia Torino, il cui programma era dedicato alla Città.


La Città Futura nella letteratura di fantascienza: non solo macchine volanti

Nel suo secolo abbondante di vita, la fantascienza non ha raccontato solo extraterrestri, astronavi, robot e viaggi nel tempo; fino dai suoi albori come genere letterario, al centro del suo immaginario c’è stata anche la Città.

La città è il centro propulsore della seconda rivoluzione industriale, il luogo dove la tecnica si dispiega con tutta la forza, dove la scienza trova laboratori, cervelli, centri di ricerca, dove sorgono fabbriche e si concentra la manodopera, dove il denaro si forma e si moltiplica. La città sembrava, alle generazioni di inizio Novecento, una porta su un magnifico futuro di progresso.

Ancora più che nel passato, oggi la città diventa una vetrina dell’intelligenza umana, il volto della civiltà, ed è facile intuire che la sua importanza crescerà ancora nei prossimi anni.

La città del futuro ha affascinato non solo scrittori e scrittrici, ovviamente; anche l’illustrazione di fantascienza si è nutrita dei medesimi sogni, anzi parola e immagine si sono alimentate l’una con l’altra:

“Le città del futuro hanno affascinato gli illustratori di fantascienza almeno quanto hanno affascinato gli scrittori e molte illustrazioni hanno dipinto vaste e complesse strutture che gli artisti si sono raffigurate con gli occhi della mente. Strade scorrevoli, marciapiedi sopraelevati, marciapiedi mobili, taxi aerei, apparecchiature per lo spostamento aereo individuale, corsie per il traffico automatizzato per macchine controllate da computer, enormi edifici di vetro e grandiose cupole che racchiudono intere metropoli… La lista è infinita e la varietà senza fine.”

(Frederik Pohl, “Introduzione a una sociologia aliena”, in Enciclopedia della fantascienza, vol,. 5, editoriale Del Drago 1980)

Questo intervento vuole presentare, per sommi i capi ma spero anche, in maniera approfondita, la varietà dei modi in cui la Città è stata protagonista della letteratura di fantascienza, tenendo anche presente l’immaginario degli artisti visuali, in omaggio a quel “circolo virtuoso” di ispirazione che attinge a un sense of wonder rintracciabile nell’illustrazione di fantascienza, come nella narrativa.

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Un nuovo sito web: l’Enciclopedia del Postmoderno

Inauguro oggi, giorno del mio 61° compleanno, una nuova iniziativa letteraria: metterò progressivamente online una grande quantità di materiale accumulato da qualche tempo, centinaia di schede con trama di opere e autori/autrici legati alla letteratura postmoderna, da tutto il mondo.

Il materiale, che confluirà nel nuovo sito Enciclopedia del Postmoderno, non ha ambizione di completezza; l’elenco di autori, autrici e titoli verrà continuamente aggiornato; ogni settimana, di regola, metterò online un nuovo, sintetico profilo di scrittore o scrittrice, e un suo libro.

Il materiale si rivolge a chi non considera la lettura solo un modo per passare il tempo, o un divertimento. La letteratura è conoscenza del mondo, e di noi stessi. La letteratura è bellezza, creatività, scoperta.  La parola scritta dà forma al pensiero, anzi senza il linguaggio il pensiero non esiste. Leggere è pensare — e la letteratura postmoderna è una sfida, perché invece di rilassarsi e godere il racconto, chi legge viene chiamato in causa come creatore attivo di significati.

Il postmoderno induce a interrogarsi su alcune questioni: cos’è la letteratura? perché si legge? e soprattutto, perché si scrive? E perché alcuni scrittori non si accontentano di scrivere ciò che il pubblico si aspetta, ma si sforzano di seguire strade nuove e, fino a un certo punto, sperimentali?

Ti invito a fare un giro nel sito. Per la prima settimana, metterò online la pagina Che cos’è il postmoderno?, un post, Il postmodernismo in letteratura, l’elenco degli autori/autrici e dei titoli che affronterò, l’indice cronologico delle opere e una breve bibliografia critica.

Buona lettura

Franco Ricciardiello

Vai all’ Enciclopedia del Postmoderno

Valerio

Non avrei voglia di scrivere questo. Ancora troppo forte è l’amarezza. Sento però di dovertelo.

È strano che nel pensare a te, sia prima che dopo quel 18 aprile, mi tornino alla mente soprattutto ricordi di noi due in Francia: noi autori italiani di Urania, Masali e il sottoscritto, ci arrivammo grazie allo straordinario successo oltralpe del tuo Eymerich. Ci siamo conosciuti però in Italia, a Torino, in occasione di un ritrovo di appassionati. È soprattutto a te, oltre che a Lippi, che devo la mia vittoria al premio Urania: fosti tu a importi su quanti nella giuria, come Curtoni, ritenevano che Ai margini del caos fosse fuori standard rispetto alla collana da edicola, e che meritasse altro tipo di collocazione editoriale. Ma riuscisti a convincerli che rimandarlo a altra destinazione equivaleva a non pubblicarlo. Mi restituisti, e l’ho ancora, la copia dattiloscritta che leggesti tu, con la tua calligrafia che dice Intelligente, ben scritto, avvincente, e il voto: 9.

Perché tutti questi ricordi francesi? Il tuo seguitissimo incontro con i fan a Nancy, la sala piena di giovani, e tu che spiegavi in un francese dall’accento spigoloso, ma dal vocabolario estremamente preciso, il fascino del tuo inquisitore, che definisti un véritable fasciste. Le camminate notturne per le vie di Nantes, la città di Jules Verne, insieme a Masali, Lippi, Nicolazzini. Il congresso al parco multimediale Futuroscope a Poitiers, quando durante una pausa dei lavori uscimmo per andare a vedere sullo schermo IMAX del parco l’edizione in francese di eXistenZ di Cronenberg. Quella volta che sulla Rive Gauche a Parigi mi presentasti Cesare Battisti, che al tempo era conosciuto come scrittore di polar perché nessuno ricordava la sua condanna all’ergastolo, e poi a ora di cena tu e Masali ci seminaste perché il vostro editore Doug Headline non voleva offrirla anche a Nicolazzini; allora noi due andammo a cena insieme a Giuseppe Lippi, che nei vicoli del Quartier Latin si fece catturare dal canto di sirena di una donna bellissima all’ingresso di un ristorantino egiziano, solo che all’interno a servirci c’erano solo camerieri baffuti e sudati che correvano tra i tavoli con enormi vassoi di cous cous.

Ricordavi ogni cosa, eri attento a ogni particolare. Aiutavi chiunque, anche l’ultimo, sconosciuto esordiente. Alla premiazione di un concorso a Torino dove non ti presentasti, mi consegnarono una targa da farti avere, ma non l’hai mai voluta: eri per il materialismo storico, però ti interessavano più le persone e le idee che i riconoscimenti formali.

Ecco. Non avrei avuto voglia di scrivere questo. Oggi ho visto una foto scattata al tuo funerale: la cassa di legno posata in terra, il cuscino di fiori freschi, le bandiere rosse sotto la pioggia. Non avrei mai voluto scrivere questo.

Nouvelle Vague al Covo della Ladra

Uscito a fine febbraio, il mio romanzo Torino Nouvelle Vague comincia a collezionare recensioni favorevoli.

Ieri sera, 22 marzo, ho avuto l’opportunità di presentarlo alla libreria Covo della Ladra di Milano, specializzata in giallo, noi e fantasy, di Mariana Marenghi. Ho avuto il piacere di parlare del libro con Marina Visentin, esperta di cinema e scrittrice di fiction. Ne è uscita una delle più belle presentazioni librarie cui mi sia capitato di partecipare.

La registrazione dell’evento è disponibile su youtube:
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Ricordi di cent’anni fa

Di mio nonno paterno Francesco Ricciardiello non ho molti ricordi. Morì nel 1970, quando io avevo nove anni. Ci furono poche occasioni di stare insieme, dal momento che vivevamo a mezza Italia di distanza: lui a Mugnano di Napoli, dove mio padre è nato, io a Vercelli, dove mio padre fu trasferito quando era in polizia: a Vercelli papà si sposò, qui nascemmo mio fratello, mia sorella e io.

Nonno Francesco con le mie cugine Liana e Santina, primi anni Sessanta

Fino a metà anni Settanta, ogni estate scendevamo tutti per le vacanze a Mugnano. Nonno Francesco, che tutti chiamavano con il diminutivo napoletano, Ciccio, aveva già 74 anni quando nacqui io. Ormai non lavorava più; viveva circondato dai figli (ne generò dodici, sei maschi e sei femmine) e dai figli dei figli. Per le vacanze, eravamo ospitati in una stanza della vecchia casa famigliare, ormai circondata da quelle costruite per ciascuno dei figli, tra i quali nonno Francesco aveva diviso la terra in parti uguali, maschi e femmine indifferentemente. Lui viveva nell’unica altra stanza della medesima casa, e dormiva in quella che un tempo era la cucina. Negli anni Trenta e Quaranta, in quelle due stanze vivevano in quattordici.

A parte memorie generiche di lui molto anziano che girava in cortile a piccoli passi, appoggiandosi al bastone, svanito, con i suoi baffetti alla Charlie Chaplin, ho pocchissimi ricordi diretti.

Un’estate arrivammo in auto dopo il lungo, stremante viaggio sull’Autostrada del sole. Incontrammo nonno al cancello del cortile di casa sua, che era sempre aperto. Mio padre tirò giù il finestrino per salutarlo, ma nonno Francesco non lo riconobbe e gli chiese chi fosse. Doveva essere l’estate del 1970, quindi poco prima che morisse, o l’anno prima.

Mio fratello ricorda che un giorno giocavamo insieme ai cugini vicino alla porta di casa sua: avevamo piazzato i soldatini di plastica sotto una fontanella e aperto l’acqua per vedere quale sarebbe annegato per ultimo; lui uscì a sgridarci perche stavamo sprecando l’acqua.

Forse la stessa estate, mentre giocavo in cortile con i cuginetti, lui si aggirava con il bastone, perso nel suo mondo mentale. Si fermò proprio davanti a me e mi chiese con poche parole tremanti di allacciargli i sandali, che si erano aperti sul piede. Questa è l’unica volta, che mi ricordi, in cui si rivolse a me direttamente. Per il resto, viveva in un’incoscienza un po’ rancorosa, in preda all’arteriosclerosi, e noi nipoti non capivamo cosa dicesse.

Il poco che sapevo di lui veniva da mio padre Benito, ottavo di dodici figli, nato quando i genitori avevano rispettivamente 41 e 38 anni: lui, Francesco Ricciardiello, nato il 19 ottobre 1887 a Calvizzano, paese che confina con Mugnano, e Santa Giaccio, nata il 1 novembre 1890, credo a Marano di Napoli. Mio padre fu battezzato Benito perché i nomi famigliari disponibili erano terminati. Il nonno chiese all’ufficiale di stato civile di mettergli il nome il presidente del consiglio, che non ricordava; il funzionario chiese la licenza di aggiungere un secondo e un terzo nome; per questo, mio padre si chiamava all’anagrafe Benito Giulio Cesare Ricciardiello.

Ciò che so del nonno proviene dunque da mio padre, che se ne era andato da Napoli nel 1951, al termine del servizio militare e poco dopo la morte di sua madre. Ci raccontava che suo padre aveva fatto la Grande Guerra, era stato in Carso e poi in Francia.

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Gian Filippo Pizzo

Quando ci hai salutato tutti su Facebook con quell’addio straziante, comunicandoci che tornavi in ospedale e predicendo che non ne saresti uscito vivo, proprio come accadde a Giuseppi Lippi, ho sentito subito che era vero. Concludevi con un “vi voglio bene a tutti”, piantando un primo cuneo di dolore nelle mie costole.

Ero in una camera d’albergo di Lisbona quando ho saputo che eri morto ventiquattr’ore prima, l’ultimo giorno dell’anno. Ti ho pensato quasi ogni giorno, durante il tuo ricovero. Non so se tu sia rimasto lucido fino in fondo, ne non riesco a immaginare cosa possa essere stato, e quale infinito terrore ti abbia guidato lungo quell’ultima discesa, il terrore di chi sa che dall’altra parte non c’è nulla, c’è anzi il Nulla.

Ora il tuo profilo social è chiuso. Approvo questa scelta di pudore.

Stranimondi 2016, foto di Mariasilvia Iovine
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Il Solarpunk a Wonderland, Rai4

Martedì 8 giugno la trasmissione tv Wonderland, andata in onda in seconda serata su Rai4, conteneva un’intervista al sottoscritto sul solarpunk. Il montaggio finale, molto suggestivo e elegante, come nella tradizione del programma, comprendeva soltanto un poco meno della metà delle domande e risposte dell’intervista, registrata negli studi Rai di Torino.

La puntata integrale è disponibile su Raiplay:

Quella che segue è invece la traccia dell’intervista, così come registrata sulle domande concordate; nelle risposte scritte, la parte in corsivo si riferisce a quello registrato ma non compreso nel montaggio finale

Il manifesto del solarpunk è una recente proposta letteraria che molti dei nostri spettatori non conoscono; puoi delinearne i caratteri fondamentali, ovvero le linee teoriche non solo nei riguardi della tecnologia, ma anche più ampiamente culturali e politiche?

Il solarpunk è un movimento, un genere letterario e un’estetica; immagina un futuro migliore delle fosche previsioni e costruisce strategie operative per renderlo possibile; si fa interprete di sentimenti e istanze che chiedono un progresso collettivo, sostenibile, inclusivo. Il solarpunk è un processo in corso, non un fenomeno chiuso; non un sottogenere della fantascienza, ma un dispositivo narrativo della filosofia: cosa vogliamo fare per migliorare le prospettive sul futuro, come e perché?

Il Sole è simbolo di vita, è energia alternativa ai combustibili fossili, è ciò che già c’è, e che per sopravvivere dobbiamo utilizzare in modo sostenibile e condiviso.

L’utopia è un riferimento chiaro: incompatibile con una economia basata sul consumo e sulla predazione, il solarpunk non predica un “ritorno alla natura”, ma persegue un progresso consapevole, nel quale scienza e tecnologia, usate in maniera trasparente e democratica, ci consentano di raggiungere finalmente l’equilibrio con il nostro pianeta.

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Provaci ancora, Ippolito

Quella che segue è la presentazione che ho scritto per il libro “Un Batman inadeguato“, poesie e racconti di Donato Scienza, uscito ad aprile per la casa editrice Il Punto Rosso

Il primo libro di Donato Scienza è intitolato “Ora, il mostro, vive in me ed ogni tanto se ne esce e va a pisciare”

Italiani popolo di santi, navigatori, influencer e poeti. Mi dicono che una certa influencer ha pubblicato un libro dopo aver confessato di non averne mai letto uno, che poi è come cucinare una torta a sette piani senza aver mai messo neppure una moka sul fuoco, o scrivere una sinfonia perché hai sentito fischiettare una canzonetta per strada, o ancora decidere di affrescare la Cappella Sistina perché ti piacciono le emoticons.

Il problema è che tutti noi usiamo le parole ogni giorno, da quando impariamo a parlare fino a quando chiudiamo per l’ultima volta gli occhi, e siamo convinti che scrivere significhi mettere lì sulla carta le parole così come ci vengono in mente.

Nulla di più falso. Provate a farlo e sarà come sbattere la faccia contro un muro. Prendiamo qualche verso apparentemente semplice; per esempio

Parlami dell’amore.
Parlami
e deludimi
se un poco mi ami!

Davvero siamo convinti che basti pensarle, così, e mettere le mani sulla tastiera del computer, per trasformare le parole in poesia? E cosa ci fa pensare che la poesia sia fatta di parole?

Le parole sono unicamente la punta dell’iceberg, la parte visibile, la poesia è sotto la superficie, nel profondo inconfessabile che l’autore e il lettore hanno in comune. I versi sono il dito sul grilletto, la poesia è il colpo che ti esplode nello stomaco. Ecco il grande fraintendimento: tutti usiamo le parole, ma quanti vivono e quanti si lasciano vivere? Leggiamo:

Sposami gli occhi
la mattina,
Nebbia e furore.

e cosa sentiamo sotto, nell’iceberg sommerso? Perché ci sono anche poeti che non hanno conoscenza della vita, ma non ce ne sono che non conoscano le parole, o se sì, significa che proprio poeti non sono.

E poi naturalmente ecco anche quelli che conoscono l’una e le altre, ed è una fortuna per tutti, tranne che per loro. Perché di solito per scrivere il bello e per scrivere il vero non basta aver vissuto: devi aver sofferto. E se hai sofferto e conosci le parole, il tuo dolore sarà ancora più profondo, tanto fondo quanto possono descriverlo tutte le parole che conosci, perché più ne conosci per un sentimento, amore o sofferenza, passione o scontento, più intenso sarà quel sentimento.

Questo inadeguato Batman è un uomo che ha vissuto. Scrive di cose comuni, amore, rimpianti, la nebbia, le gomme dure delle biciclette, e di altre meno ordinarie, l’Australia, Freud e Lacan, l’essere antifascista. Quando racconta l’amore sembra che parli di politica, quando scrive di anarchia sembra il testo di una canzone d’amore — ma è giusto così, perché c’è più significato nelle parole che nella vita, e c’è più sentimento nei segni che nel loro significato.

E dunque, per favore, provaci ancora, Ippolito.

Franco Ricciardiello

Donato Scienza
UN BATMAN INADEGUATO
Ed. Il Punto Rosso
€ 10,00

ISBN 9788883512605

Lo specchio di Lilith

Sono stato invitato da Marco Barnabino, co-autore di questo libro uscito lo scorso marzo per Mimesis, a scrivere una prefazione. Non è la prima volta cha mi trovo a scrivere qualcosa su un libro fotografico: in questo caso, il testo alterna immagini (peraltro, dall’ottima resa tipografica) a testi sul rapporto tra filosofia e fotografia, che forniscono un quadro per interpretare il significato delle immagini – ammesso che qualcosa di simile esista, a meno che non sia piuttosto lasciato alla libera inerpretazione del lettore, dello spettatore.

Marco Barnabino

Non so a quanti lettori farà lo stesso effetto che ha fatto a me, questo libro di Marco Barnabino e Matteo Agarla: l’impressione di osservare qualcuno che osserva gli osservatori, per usare la formula del sottotitolo di un romanzo di Dürrenmatt.

Non si tratta soltanto di un cortocircuito linguistico-filosofico. Ci sono io, il lettore — o l’osservatore se preferite — poi all’estremo opposto c’è il fotografo, l’occhio-fotocamera, che osserva, interpreta, scatta. E in mezzo tra questi due termini c’è qualcuno che osserva; chi è? Sono le modelle che raccontano la loro esperienza di “oggetto d’osservazione”, e a loro volta testimoniano il lavoro del fotografo — ottima idea, che molto raramente si trova nei libri di fotografia; sono le immagini stesse, che come in uno specchio, non solo quello di Lilith, permettono di capire qualcosa di chi quell’immagine ha fissato per sempre; infine, è persino questo stesso libro, che in quanto sintesi di un percorso filosofico-artistico si interpone tra il lettore e l’autore.

Le pagine che seguono spiegano molto meglio del sottoscritto cosa ci sia da aspettarsi da questo libro, e cosa c’è in mezzo tra la filosofia e la fotografia. Io mi limito a esercitare il mio privilegio di osservatore, nell’occhio del ciclone di una tempesta d’immagini, scatti fotografici e anche dipinti, e di parole che quelle immagini ambiscono a spiegare in maniera razionale. Gli autori raccontano la propria arte, le modelle riflettono su cosa significhi essere tramite perché l’arte si manifesti — e non è cosa di tutti i giorni che sia l’oggetto artistico a parlare, dal momento che l’arte è già di per sé una macchina per fornire interpretazioni, così almeno ci ricordava Umberto Eco.

E a questo punto, è d’obbligo citare Gaston Berger: Regarder un atome le change, regarder un homme le transforme, regarder l’avenir le bouleverse. Osservando un atomo lo cambi, osservando un uomo lo trasformi, osservando l’avvenire lo sconvolgi. E, aggiungo io, osservando il mondo attraverso il mirino di una fotocamera, lo trasformi in Arte.

Franco Ricciardiello

Marco Barnabino, Matteo Agarla

LO SPECCHIO DI LILITH

Mimesis editore, MARZO 2021

208 pagg. € 20,00 ISBN 9788857563534