Di mio nonno paterno Francesco Ricciardiello non ho molti ricordi. Morì nel 1970, quando io avevo nove anni. Ci furono poche occasioni di stare insieme, dal momento che vivevamo a mezza Italia di distanza: lui a Mugnano di Napoli, dove mio padre è nato, io a Vercelli, dove mio padre fu trasferito quando era in polizia: a Vercelli papà si sposò, qui nascemmo mio fratello, mia sorella e io.
Fino a metà anni Settanta, ogni estate scendevamo tutti per le vacanze a Mugnano. Nonno Francesco, che tutti chiamavano con il diminutivo napoletano, Ciccio, aveva già 74 anni quando nacqui io. Ormai non lavorava più; viveva circondato dai figli (ne generò dodici, sei maschi e sei femmine) e dai figli dei figli. Per le vacanze, eravamo ospitati in una stanza della vecchia casa famigliare, ormai circondata da quelle costruite per ciascuno dei figli, tra i quali nonno Francesco aveva diviso la terra in parti uguali, maschi e femmine indifferentemente. Lui viveva nell’unica altra stanza della medesima casa, e dormiva in quella che un tempo era la cucina. Negli anni Trenta e Quaranta, in quelle due stanze vivevano in quattordici.
A parte memorie generiche di lui molto anziano che girava in cortile a piccoli passi, appoggiandosi al bastone, svanito, con i suoi baffetti alla Charlie Chaplin, ho pocchissimi ricordi diretti.
Un’estate arrivammo in auto dopo il lungo, stremante viaggio sull’Autostrada del sole. Incontrammo nonno al cancello del cortile di casa sua, che era sempre aperto. Mio padre tirò giù il finestrino per salutarlo, ma nonno Francesco non lo riconobbe e gli chiese chi fosse. Doveva essere l’estate del 1970, quindi poco prima che morisse, o l’anno prima.
Mio fratello ricorda che un giorno giocavamo insieme ai cugini vicino alla porta di casa sua: avevamo piazzato i soldatini di plastica sotto una fontanella e aperto l’acqua per vedere quale sarebbe annegato per ultimo; lui uscì a sgridarci perche stavamo sprecando l’acqua.
Forse la stessa estate, mentre giocavo in cortile con i cuginetti, lui si aggirava con il bastone, perso nel suo mondo mentale. Si fermò proprio davanti a me e mi chiese con poche parole tremanti di allacciargli i sandali, che si erano aperti sul piede. Questa è l’unica volta, che mi ricordi, in cui si rivolse a me direttamente. Per il resto, viveva in un’incoscienza un po’ rancorosa, in preda all’arteriosclerosi, e noi nipoti non capivamo cosa dicesse.
Il poco che sapevo di lui veniva da mio padre Benito, ottavo di dodici figli, nato quando i genitori avevano rispettivamente 41 e 38 anni: lui, Francesco Ricciardiello, nato il 19 ottobre 1887 a Calvizzano, paese che confina con Mugnano, e Santa Giaccio, nata il 1 novembre 1890, credo a Marano di Napoli. Mio padre fu battezzato Benito perché i nomi famigliari disponibili erano terminati. Il nonno chiese all’ufficiale di stato civile di mettergli il nome il presidente del consiglio, che non ricordava; il funzionario chiese la licenza di aggiungere un secondo e un terzo nome; per questo, mio padre si chiamava all’anagrafe Benito Giulio Cesare Ricciardiello.
Ciò che so del nonno proviene dunque da mio padre, che se ne era andato da Napoli nel 1951, al termine del servizio militare e poco dopo la morte di sua madre. Ci raccontava che suo padre aveva fatto la Grande Guerra, era stato in Carso e poi in Francia.
Papà raccontava a noi due figli maschi due fatti soprattutto, che aveva sentito più di frequente, o forse quelli che più l’avevano colpito:
Primo ricordo. In Carso, durante un attacco alla baionetta, il fucile era caduto di mano a nonno Francesco, slittando via sull’erba, forse sulla neve. Fermatosi a recuperarlo, aveva perduto di vista i commilitoni che erano già più avanti, verso le posizioni austriache. Si era quindi fermato a aspettare che tornassero, in disordine e malconci dopo il fallito attacco, quindi si era accodato per tornare in trincea.
Secondo ricordo. La guerra per lui era finita una settimana più tardi che per gli altri, perché era stato inviato in Francia con il contingente italiano; qui aveva combattuto in una formazione “garibaldina”, che portava il fazzoletto rosso al collo, agli ordini di Peppino Garibaldi, nipote di Giuseppe; durante la battaglia nel bosco di Bligny, in fiamme, del suo battaglione sarebbero scampati solo in due, lui e un altro.
L’idea di fare ricerche sulla vita di mio nonno, a partire da queste scarse informazioni tramandate oralmente di padre in figlio, mi è venuta tardi: per la precisione, il giorno in cui si celebrò il centenario della traslazione del milite ignoto al Vittoriano di Roma, nel 2021. Già conoscevo la storia del milite ignoto, me l’aveva raccontata un testimone oculare, colonnello in pensione dell’esercito italiano con cui condivisi per un paio di settimane la stanza all’ospedale dermatologico di Torino. Da bambino, il colonnello era stato condotto dal padre a vedere il passaggio del treno che trasportava la salma del milite ignoto, tradotta solennemente dal Nordest fino a Roma a rappresentare tutti i caduti nella guerra.
Mi misi in testa di verificare se i fatti tramandati da mio padre, un po’ reali e un po’ fantastici, trovassero conferma in documenti ufficiali.
Cominciai qualche ricerca a distanza, grazie alle immense possibilità offerte da internet, trovando subito riscontri incredibilmente aderenti agli scarni dati che ricordavo.
Per esempio, un nipote di Giuseppe Garibaldi, figlio di suo figlio Ricciotti Garibaldi, combatté in effetti nell’esercito francese durante la Prima guerra mondiale: nella Legione Straniera, poi come comandante di brigata in un corpo di spedizione italiano inviato per arginare l’offensiva tedesca del 1918.
Quella che noi italiani chiamiamo “battaglia di Bligny” è in realtà un episodio della colossale seconda battaglia della Marna, per i tedeschi Friedensturm, combattuta nel 1918 a nordest di Parigi. A questo scontro partecipò in effetti il II Corpo d’armata italiano, investito dall’offensiva tedesca a sudest di Reims, in un bosco che si trova presso l’abitato di Bligny.
Ciò che era stato tramandato per un secolo da mio nonno a mio padre, e poi da mio padre a me e mio fratello, trova riscontro.