Un sogno di Hitler

La quinta uscita della nuova collana Ucronica di Delos Digital, curata da Giampietro Stocco, è un racconto del premio Urania 2019 Davide del Popolo Riolo: si tratta di “Il sogno di ferro”, traduzione del titolo originale di un romanzo di Norman Spinrad, The Iron Dream (1972) che Longanesi pubblicò in Italia come Il signore della svastica.

Il genere letterario ucronia è caratterizzato, come sappiamo, dalla premessa narrativa che la Storia abbia seguito un corso alternativo a quello che conosciamo. La più famosa ucronia della fantascienza è pure di ambientazione nazista: L’uomo nell’alto castello di Philip K. Dick, a lungo conosciuto in Italia con il titolo La svastica sul sole imposto alla prima pubblicazione, nel 1965, nella collana Science Fiction Book Club della casa editrice La Tribuna: il vecchio vizio molto italiano di caratterizzare il prodotto “fantascienza” fino dal titolo, che ha partorito autentici orrori trasformando citazioni letterarie anche colte in materiale di serie B ad uso e consumo del “ghetto”. E ancora oggi stiamo a discutere di cosa sia fantascienza e cosa no.

Tra l’altro, La svastica sul sole come titolo si è affermato al punto che l’editore Fanucci, dopo avere ripubblicato il romanzo nel 2001 come L’uomo nell’alto castello (riprendendo una traduzione pocket di Maurizio Nati di quattro anni prima), è tornata al titolo precedente nel 2005 in occasione della ristampa in tascabile.

Per tornare a Spinrad e al suo romanzo leggermente ambiguo, al punto che furono in molti a interpretarlo come indulgente verso il nazismo, specifichiamo che racconta una storia alternativa in cui Adolf Hitler, dopo li fallito putsch di Monaco, emigrò negli USA e divenne scrittore di fantascienza. Il signore della svastica è appunto, nella finzione letteraria di Spinrad, un romanzo scritto da Hitler, secondo me più vicino al fantasy che alla science fiction, in cui si racconta la presa del potere in un pianeta Terra post-catastrofe, da parte di uno spregiudicato arrivista la cui ascesa politica è una metafora della diffusione del nazismo.

Il sogno di ferro di Hitler-scrittore diventa, agli occhi di chi legge, metafora della reale conquista della Germania, e ci si domanda come sia stato possibile che una personalità disturbata come quella del caporale tedesco abbia potuto convincere un popolo a far proprio il suo atroce sogno.

Davide Del Popolo Riolo compie un’operazione accattivante, che rovescia anche l’ambiguità di Spinrad (dovuta anche, occorre dirlo, al rigore del punto di vista): riagganciandosi alla medesima premessa, ambienta il suo racconto nello stesso universo di Il signore della svastica. Hitler vive a New York, dove è conosciuto come illustratore di copertine (non dimentichiamo che Adolf Hitler aveva una formazione artistica, e in gioventù fu effettivamente pittore di strada a Vienna), un po’ meno come scrittore. La particolarità del racconto è che poco più di un episodio nella vita americana di Hitler è raccontato in una doppia cornice. La voce narrante è quella di Anna Van Pels, giornalista immigrata, la quale racconta un incontro cruciale tra il suo capo e Hitler.

Non svelo nulla, dato che è scritto anche nella Nota dell’autore in fondo al volume: Van Pels è il cognome da sposata di Anna Frank. Peccato che Del Popolo Riolo non abbia deciso di spingere il limiti del sarcasmo sino all’ironia: se si fosse chiamata Anna Van Pelt avremmo potuto fantasticare sul fatto che possa essere la madre di Linus.

Il terzo personaggio reale è il giornalista Fritz Gerlich, accanito detrattore del nazismo assassinato a Dachau nel 1934: qui è il direttore di un giornale che ottiene da Hermann Goering, il quale ormai ha abbandonato il nazionalsocialismo, un appuntamento con Hitler, durante il quale verrà a galla la natura profondamente criminale del mancato Führer.

Sono esattamente opere come queste che ci aspettiamo dalla collana di Giampietro Stocco.

Davide Del Popolo Riolo, IL SOGNO DI FERRO, collana Ucronica n. 5, Delos Digital 2021, eBook € 0,99

«Seguo la via dettata dalla Provvidenza, con la sicurezza di un sonnambulo»

Per fortuna l’editoria si occupa finalmente di smentire uno maggiori timori dei fans di William T. Vollmann: il fatto cioè che i (non) molti suoi testi tradotti e pubblicati in Italia finiscano nel dimenticatoio, nel mondo grigio del fuori-catalogo, nel circuito triste dei remainders. Invece devo constatare che trovare un suo libro sulle bancarelle dell’usato o dei book-crossing è veramente arduo, e, soprattutto, Minimum Fax sta recuperando parte del fuori-catalogo dell’editore Fanucci (I racconti dell’Arcobaleno, Storie della farfalla) e promette nuove traduzioni inedite (The Atlas, Poor People). Se a questo aggiungiamo che Mondadori ristampa negli Oscar Europe Central, allora comincio a illudermi che lo zoccolo duri dei fans italiani di Vollmann sia così vorace da condizionare le scelte editoriali.

Vollmanniani di tutto il mondo, uniamoci!

Ecco dunque il tascabile di 1072 pagine di Europe Central, pubblicato nove anni fa nella collana Strade Blu. È apprezzabile la modestia con cui Vollmann parla di “racconti” a proposito di questo mastodontico, indimenticabile romanzo:

“Questi racconti si fondano su fatti storici, ma con un rigore inferiore rispetto alla serie dei Seven Dreams, Il mio fine, in questo caso, era quello di scrivere una serie di parabole su alcuni famosi, famigerati o anonimi attori morali europei osservati nei momenti di importanti decisioni. I personaggi che compaiono in questo libro sono, in gran parte, realmente esistiti, Ho svolto ricerche sulle loro biografie con tutta la cura di cui sono capace, ma la mia resta pure sempre un’opera di narrativa.”

Non credetegli assolutamente quando parla di “rigore inferiore”: al contrario, le pagine esplodono in faccia al lettore con la violenza integrale della Storia, così minuziosamente documentata che c’è chi ha giustamente scritto di fiction al limite della saggistica. Europe Central racconta “l’incubo delle due grandi dittature totalitarie del XX secolo in guerra tra loro: l’Unione Sovietica e la Germania nazista.” Inizia poco prima dell’invasione della Polonia e termina intorno a metà anni Cinquanta, con qualche epilogo di poco avanti nel tempo.

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«Non c’è un monumento a Babij Jar»

Aykut Aydoğlu, Istanbul

Un giorno del 1961 Evgenij Evtušenko, già affermato poeta, accompagna a Kiev il coetaneo Anatolij Kuznecov, suo compagno di studi all’Istituto di Letteratura. Evtušenko è uno degli autori nuovi usciti allo scoperto grazie al disgelo degli anni di Chruščëv: su di lui come su altri scrittori si focalizzano le speranze di un allentamento della censura, la fine dello ždanovismo. Kuznecov porta l’amico nella località di Babij Jar, alla periferia nordovest della capitale ucraina, e gli racconta ciò che ha visto con i suoi occhi di bambino venti anni prima: il massacro di decine di migliaia di ebrei poco dopo la conquista della città da parte della Wehrmacht, a fine settembre 1941. Vecchi, donne e bambini, più di metà della popolazione israelita di Kiev, furono condotti al grande fossato naturale, fucilati in massa dall’SD e dai collaborazionisti ucraini, e i corpi bruciati. Evtušenko scrisse su Babij Jar una delle sue poesie più famose:

Non c’è un monumento
A Babij Jar
Il burrone ripido
È come una lapide
Ho paura
Oggi mi sento vecchio come
Il popolo ebreo
Ora mi sento ebreo

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La città che non vuole sfuggire al passato

Il 27 febbraio 2020 esce in libreria Storie di Berlino, Odoya edizioni: il quarto libro che ho dedicato a una città, alla sua letteratura, al suo cinema e alla sua musica.

Nei miei sogni notturni sono stato spesso a Berlino. Non nella Berlino reale, ma in una sua rappresentazione scenica: una città sconfinata, opprimente, con fuligginosi edifici monumentali, campanili e statue. Io vago nel traffico che scorre incessante, tutto è ignoto e al contempo familiare. Provo terrore e piacere, e so piuttosto bene dove sono diretto: sto cercando il quartiere al di là dei ponti, quella parte della città dove accadrà qualcosa. Scendo per un ripido pendio, un aeroplano minaccioso vola tra le case, finalmente arrivo al fiume. Dall’acqua che straripa sul marciapiede sollevano con un argano un cavallo morto, grande quanto una balena.

La curiosità e il terrore mi spingono avanti, devo arrivare in tempo alle esecuzioni pubbliche. Incontro allora mia moglie morta, ci abbracciamo con tenerezza e cerchiamo una stanza d’albergo dove poter fare l’amore. Lei cammina al mio fianco con passi veloci e leggeri, io le tengo una mano sul fianco. La via è fortemente illuminata nonostante il sole ardente. Il cielo è nero e si muove stridendo. Ora so d’essere finalmente arrivato al quartiere proibito. Lì si trova il Teatro con la messinscena incomprensibile.

Ingmar Bergman, Lanterna Magica

Parigi e Berlino sono le città che più hanno sofferto di protagonismo nel secolo scorso in Europa; la politica, la scienza e l’arte hanno trovato terreno fertile nelle due capitali tradizionalmente nemiche, impegnate in tre devastanti confronti militari nell’arco di 75 anni: mentre il primo era però limitato a un confronto diretto, conclusosi con la nascita della Germania in quanto Stato (tra l’altro, dieci anni dopo la riunificazione italiana), i due successivi furono conflitti di portata mondiale. L’ultimo, anzi, è stato il più devastante e sanguinoso nella storia delle civiltà terrestri.

La responsabilità della Germania nella Seconda guerra mondiale fece sì che le conseguenze della rovinosa sconfitta e dell’occupazione straniera proseguissero per altri 35 anni, e Berlino era l’epicentro di una serie di azioni e reazioni trascinatesi per quasi un secolo. La città spopolata, mortalmente ferita e divisa in due, divenne il fulcro della guerra a bassa intensità tra Nato e Patto di Varsavia, la cosiddetta guerra fredda. Nel 1924 Berlino aveva 4.024.165 abitanti, nel 2018 soltanto 3.552,123; comunque mezzo milione in più rispetto agli anni del “cielo diviso”, efficace espressione di Christa Wolf, quando poco meno di due terzi vivevano nella cosiddetta Berlino Ovest e poco più di un terzo a Berlino Est.

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Icaria, un mondo migliore

Riprendo qui la mia recensione del romanzo di Uwe Timm già apparsa su Pulp Libri

“Utopia” di DOFRESH., Rennes (Francia)

Con questo romanzo di Uwe Timm continua la breve selezione di opere pubblicate da Sellerio sulla fine del nazismo, scritte da autori tedeschi, che parlano anche dell’opposizione interna al regime, o si interrogano su una mancanza di opposizione. A parte la riedizione di E adesso, pover’uomo? Di Hans Fallada, già tradotto nel 1950 per Mondadori, la “quadrilogia” alla quale mi riferisco inizia nel 2010 con Ognuno  muore solo (Jeder stirbt für sich allein, 1947), sempre di Fallada, che Primo Levi giudicò, dopo averlo letto nella prima traduzione Einaudi del 1950, «Il libro più importante che sia mai stato scritto sulla resistenza tedesca al nazismo». Il secondo libro cui mi riferisco, pubblicato nel 2017, è Berlino ultimo atto di Heinz Rein (Finale Berlin, 1946), anche questo apparso originariamente subito dopo la guerra, quando l’editoria tedesca pubblicava i primi testi critici verso il nazismo. Benché pressoché contemporanee, le due opere hanno una genesi molto diversa: il libro di Fallada, scritto di getto in nosocomio, durante le ultime settimane di vita dell’autore, racconta un tentativo di resistenza “privata” da parte di una coppia di mezz’età il cui figlio è morto in battaglia, nei primi giorni di guerra contro la Francia. Persa ogni fiducia in Hitler, i due scrivono e abbandonano di nascosto cartoline critiche contro il nazismo in luoghi pubblici dove possono essere facilmente ritrovare e “fatte circolare”.

Il lungo testo di Rein, scritto quando le rovine di Berlino sono ancora fumanti, riflette le teorizzazioni della Lega degli scrittori proletari rivoluzionari, il cui manifesto nel 1928 aveva propugnato una “letteratura dal basso”, quindi a portata delle masse: il monumentale romanzo è un testo scorrevole, popolare, che intreccia le vite di personaggi non particolarmente caratterizzati dal punto di vista psicologico, durante le ultime due settimane di vita del regime nazionalsocialista, quando l’Armata Rossa circonda e espugna Berlino. È un notevole documento che si lascia andare a considerazioni sulla natura del nazismo, e sulla fascinazione esercitata da un regime criminale su un intero popolo. Continua a leggere