Amar Riso: neorealismo e teatro

SABATO 1 APRILE ANDRÀ IN SCENA LA «PRIMA» DI AMAR RISO, LO SPETTACOLO MUSICALE CHE HO SCRITTO su richiesta di due amiche produttrici e sotto l’egida di Skenè Teatro Team. Si tratta di una riduzione teatrale in musica del film Riso amaro, per il quale ho scritto il libretto, comprensivo di dialoghi e testi delle canzoni (messe in musica da Francesco Cilione).

Tra le icone del neorealismo italiano degli anni Quaranta e Cinquanta, Riso amaro di Giuseppe De Santis viene distribuito nel circuito cinematografico il 21 settembre 1949. È il primo film neorealista a ottenere successo di pubblico nelle sale italiane, e diviene portabandiera della rinascita del nostro cinema all’estero. L’idea del film viene al regista nel 1947 quando, tornando da Parigi dove ha presentato una propria opera, si trova alla stazione ferroviaria di Torino in attesa della coincidenza per Roma. Sentendo dei canti, scopre le mondine che tornano a casa dal lavoro in risaia. Ne rimane affascinato al punto da cominciare a pensare a un film ambientato in quel mondo.

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La seconda capitale della Cina

DUE GIORNI A NÁNJĪNG, «LA CAPITALE DEL SUD»

A cinque anni dal primo viaggio, trovo al mio ritorno una Cina diversa; non so se sia dovuto al passare del tempo in questo paese dall’alto tasso di crescita economica, oppure al fatto che la prima volta ho viaggiato nel nord, dallo Hébĕi allo Shănxī, e questa volta al sud, dal Jiāngsū allo Yúnnán.

nanjing-2Voliamo direttamente da Milano Malpensa a Nánjīng, nella provincia di Jiāngsū, con scalo all’aeroporto di Bĕijīng. I nomi di queste due città, Pechino e Nanchino, si traducono in italiano come “Capitale del nord” (Bĕi Jīng) e “Capitale del sud” (Nán Jīng); quest’ultima è stata occasionalmente sede del governo cinese, dalla seconda metà del Trecento alla prima del Seicento e poi anche di recente: dopo la rivoluzione repubblicana del 1911 vi si è insediato il governo del primo presidente Sūn Zhōngshān (un tempo era abitudine traslitterare il suo nome in Sun Yat-sen), poi il governo nazionalista di Jiăng Jièshí (secondo la traslitterazione Wade-Giles, Chiang Kai-shek) fino all’invasione giapponese, e dal termine della guerra sino alla vittoria dei comunisti che riportano la capitale a Bĕijīng. E proprio alla seconda guerra mondiale, che in Cina è iniziata nel 1937 con l’attacco giapponese alle enclaves inglese e francese di Shànghăi, è legato l’episodio più terribile nella storia di Nánjīng, il cosiddetto stupro di Nanchino (il nome Nánjīng veniva un tempo italianizzato in Nanchino, per assonanza con Pechino). Determinato a invadere il moribondo gigante cinese, lacerato da una guerra civile tra nazionalisti e comunisti dopo la caduta dell’impero plurimillenario, il Giappone occupa la capitale repubblicana – che si trova a breve distanza da Shànghăi – abbandonata nel frattempo dal governo del Guómíndăng (il Partito nazionalista). Caduta la città, l’esercito giapponese si abbandona a indicibili, deliberate efferatezze: 20 mila donne stuprate, centinaia di migliaia di cittadini fucilati in massa e gettati in enormi fosse comuni. Nánjīng diventa un’immensa tomba. L’esplicito intento dello stato maggiore giapponese è fiaccare con il terrore la resistenza dell’esercito cinese, giudicato allo sbando: il risultato invece è il consolidamento della volontà di resistenza di un’intera nazione.

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Georges Perec, istruzioni per l’uso

LA PROGRAMMAZIONE DEL TESTO LETTERARIO.

Il testo di questo post recupera la parte di approfondimento della genesi letteraria di “La vita. Istruzioni per l’uso” di Georges Perec, stralciata dalla versione definitiva di Storie di Parigi, attualmente in stampa presso l’editore Odoya

Georges Perec, foto di Anne de Brunhoff

Ancora più affascinante, anche dal punto di vista letterario, della complessità dell’opera è la “macchina per ispirare racconti” (definizione dell’autore stesso) che Perec mette in piedi per decidere cosa deve contenere ogni singolo frammento del puzzle narrativo: un sistema complesso e razionale maturato nelle riflessioni teoriche dell’OuLiPo. Quando Italo Calvino (lui stesso oulipista) nelle sue “Lezioni americane” parla della genesi dell’iper-romanzo (non a caso oggi si definisce iper-testo un testo interattivo) non aveva ancora a disposizione il cahier de charges manoscritto da Perec come premessa strutturale all’opera: significa “capitolato d’oneri”, ma charges si può anche tradurre come “spese condominiali.” È sulla base di questi appunti dettagliati pubblicato solo nel 1993 dal Centre National de la recherche scientifique che oggi si può ricostruire la genesi e la struttura di “La vita istruzioni per l’uso”.

È dal 1972 che Perec vorrebbe scrivere un romanzo che fornisca una propria visione del mondo; gli viene l’idea di ambientare la vicenda in un immobile la cui struttura corrisponda a quella del biquadrato latino (elaborato nel 1960 da Bose, Parker e Shrikhande per confutare Eulero, il quale sostiene che non esiste un biquadrato d’ordine 10). Nelle sue intenzioni, la narrazione dovrà procedere secondo un metodo razionale, e qui interviene la seconda grande idea (che non è percepibile al lettore senza un’adeguata guida): ogni frammento narrativo sarà ambientato in un locale dell’edificio, ma la progressione lineare tra una stanza e l’altra sarà affidata a un problema logico-matematico ben conosciuto ai giocatori di scacchi: l’algoritmo del cavallo. Un quadrato di 10 caselle di lato coincide con una scacchiera: la narrazione si sposta tra un capitolo e il successivo seguendo la mossa a L del pezzo cavallo, un avanzamento di 3 caselle in linea retta e 1 casella a 90°, in modo da terminare dopo 98 mosse nella stanza in cui Barlebooth è appena morto; il vantaggio di usare la regola di mobilità del cavallo è evidente: permette di toccare tutte le caselle senza mai passare due volte da una stessa casella/stanza (e saltando una casella, la n. 66 per la precisione, perché altrimenti le mosse sarebbero 99 e i capitoli 100: ma questa per Perec è l’eccezione che serve a confermare la regola). Il capitolo I inizia quindi “per le scale” e i capitolo XCIX e ultimo è il quinto ambientato nell’appartamento di Bartlebooth.

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Elogio della Quilmes

Il viaggiatore europeo che arriva a Buenos Aires non può evitare di rimanere colpito dalle dimensioni della birra Quilmes — subito, già dal primo giorno, quando il cameriere della rosticceria di San Telmo la posa in tavola davanti a lasagne alle verdure e un piatto di empanadas. Non è una bottiglia da 66 centilitri come quelle commercializzate in Europa, bensì da un litro — e a colpo d’occhio sembra una bottiglia gigante.

empanadas-salta

È un pomeriggio di domenica a fine novembre, tarda primavera nell’emisfero australe. Ho acquistato da Pugliese, nel mercato coperto di San Telmo, un vinile di seconda mano di Carlos Gardel; la rosticceria ha i suoi tavoli sotto la medesima galleria, puoi ordinare le empanadas al bancone di vetro oppure scegliere dal menu, stampato in A4 e infilato in pagine di plastica un po’ sudice per le ditate dei clienti. La temperatura di Buenos Aires somiglia a quella delle città italiane a giugno, e una bottiglia da un litro di Quilmes Cristal in tavola dopo una passeggiata nel mercato turistico di San Telmo è un piacere difficile da descrivere con le parole. È da illusi credere di poter ordinare un piatto qualsiasi: pasta, empanadas e piatti di carne rimangono disponibili solo finché non si esaurisce la quantità prodotta dalla cucina del giorno. La bottiglia di Quilmes è così fredda che l’umidità condensa in meno di un secondo sul vetro bruno, e l’aria della primavera così calda che se aspetti la pietanza, sei costretto a berla tiepida — e nulla è più sgradevole di una lager tiepida. La Quilmes va bevuta gelata, appena uscita dal refrigeratore, ondate di sorsi amari che scendono nella gola, per affrontare con un altro spirito una giornata di viaggio.

Prima di rientrare in albergo per la notte ci fermiamo in un minimarket gestito da cinesi, vogliamo portare in camera un’altra Quilmes da un litro; per lo strano effetto del deposito sul vetro-a-rendere, dobbiamo lasciare una cauzione quasi equivalente al prezzo della bottiglia. In altre occasioni sarà una cauzione anche superiore, come per esempio sulle Ande, e con marche differenti di cerveza — la Salta per esempio, molto diffusa nelle province di nordovest, che malgrado sia prodotta da un marchio proprietario diverso e in altri stabilimenti, ha un gusto non diverso dalla Quilmes.

Pazienza: Salta Rubia (bionda) o Salta Negra (scura), l’importante è avere in tavola la straordinaria bottiglia da un litro, l’arcipelago di goccioline sul vetro, l’Argentina che condensa, il sorso gelato e spumeggiante sul boccone di choclo o di milanesa napoletana.

Argentina ¡te quiero! ¡Te quiero, Quilmes!

Foto © Mariella Ferrari