La seconda capitale della Cina

DUE GIORNI A NÁNJĪNG, «LA CAPITALE DEL SUD»

A cinque anni dal primo viaggio, trovo al mio ritorno una Cina diversa; non so se sia dovuto al passare del tempo in questo paese dall’alto tasso di crescita economica, oppure al fatto che la prima volta ho viaggiato nel nord, dallo Hébĕi allo Shănxī, e questa volta al sud, dal Jiāngsū allo Yúnnán.

nanjing-2Voliamo direttamente da Milano Malpensa a Nánjīng, nella provincia di Jiāngsū, con scalo all’aeroporto di Bĕijīng. I nomi di queste due città, Pechino e Nanchino, si traducono in italiano come “Capitale del nord” (Bĕi Jīng) e “Capitale del sud” (Nán Jīng); quest’ultima è stata occasionalmente sede del governo cinese, dalla seconda metà del Trecento alla prima del Seicento e poi anche di recente: dopo la rivoluzione repubblicana del 1911 vi si è insediato il governo del primo presidente Sūn Zhōngshān (un tempo era abitudine traslitterare il suo nome in Sun Yat-sen), poi il governo nazionalista di Jiăng Jièshí (secondo la traslitterazione Wade-Giles, Chiang Kai-shek) fino all’invasione giapponese, e dal termine della guerra sino alla vittoria dei comunisti che riportano la capitale a Bĕijīng. E proprio alla seconda guerra mondiale, che in Cina è iniziata nel 1937 con l’attacco giapponese alle enclaves inglese e francese di Shànghăi, è legato l’episodio più terribile nella storia di Nánjīng, il cosiddetto stupro di Nanchino (il nome Nánjīng veniva un tempo italianizzato in Nanchino, per assonanza con Pechino). Determinato a invadere il moribondo gigante cinese, lacerato da una guerra civile tra nazionalisti e comunisti dopo la caduta dell’impero plurimillenario, il Giappone occupa la capitale repubblicana – che si trova a breve distanza da Shànghăi – abbandonata nel frattempo dal governo del Guómíndăng (il Partito nazionalista). Caduta la città, l’esercito giapponese si abbandona a indicibili, deliberate efferatezze: 20 mila donne stuprate, centinaia di migliaia di cittadini fucilati in massa e gettati in enormi fosse comuni. Nánjīng diventa un’immensa tomba. L’esplicito intento dello stato maggiore giapponese è fiaccare con il terrore la resistenza dell’esercito cinese, giudicato allo sbando: il risultato invece è il consolidamento della volontà di resistenza di un’intera nazione.

Oggi Nánjīng è una grande città di 3,4 milioni di abitanti, con una pianta a griglia piuttosto regolare: lunghi viali longitudinali fiancheggiati da vecchi alberi si intersecano a angolo retto con ampie strade perpendicolari. A nord, l’area urbana è delimitata dal lago Xuánwŭ e dal vastissimo parco del monte Zĭjīn, enorme polmone verde sul quale sorgono antichi templi, tombe Míng, laghetti, cimiteri militari e il mausoleo di Sūn, chiamato in cinese “tomba di Zhōngshān ” – per inciso, Zhōngshān  in cinese significa “montagna centrale”. Sperimento la mia pronuncia inglese sul tassista, che stranamente capisce Zhōngshāng líng senza neppure mostrargli gli ideogrammi scritti. Al nostro arrivo, il vasto parco è pieno di comitive di turisti cinesi, malgrado il mausoleo sia chiuso (oggi è lunedì). A gruppi si fanno fotografare all’ingresso sontuoso, poco adatto allo spartano presidente morto nel 1925: un portone di marmo con inserti in piastrelle blu, che richiamano il sole bianco su sfondo blu, bandiera del Guómíndăng, il partito nazionalista fondato da Zhōngshān dopo lo scioglimento della Lega Rivoluzionaria.

Se il mausoleo è chiuso, è invece aperto il vicino tempio Línggŭ, vasta aerea verde sovrastata da una pagoda ottagonale a 9 piani dai cui 60 metri di altezza si gode il panorama della collina, delle montagne intorno e il lontano orizzonte dei grattacieli di Nánjīng sfumati dalla prospettiva aerea. Qui ci sono meno turisti, e in luoghi come il Padiglione del Vento dei pini o il Tempio senza travi si riesce persino a immaginare il silenzio. Su tutta la collina sono ancora esposti cartelli della Festa della fioritura dei pruni che si è svolta a marzo; il pruno di Nánjīng ha fiori bianchi e rosa e dà un frutto di aspetto e gusto intermedio tra la prugna e l’albicocca.

Poco più a sud, ai piedi del monte Zĭjīn, ci sono le fosse comuni delle vittime dello stupro di Nanchino; il museo fotografico dedicato all’infame episodio terroristico è chiuso di lunedì. Al contrario di Bĕijīng, dove dopo la vittoria della rivoluzione le autorità hanno quasi completamente spianato le antiche mura, qui la poderosa cinta muraria Míng è ancora completamente intatta, e vi si può accedere da diversi punti. È possibile percorrere lunghi tratti restaurati, affacciati dall’altezza di diversi metri sulle vie trafficate e sulle montagne che circondano la città: si tratta dell’unica muraglia urbana conservata sostanzialmente intatta in tutta la Cina (le alte mura intorno al cuore rettangolare di Xī’ān sono solamente un residuo dell’imponente fortificazione dell’epoca Táng). Costruite tra il 1366 e il 1393, quando Nánjīng era capitale, con l’impiego di una forza lavoro di oltre un milione di operai, nell’epoca del massimo splendore raggiungono la lunghezza di 35 km: le più lunghe mura cittadine del mondo intero. Oggi ne sopravvivono oltre due terzi. La particolarità è che, a differenza di quasi tutte le altre città cinesi, non racchiudono uno spazio rettangolare. Forse proprio per la vastità del territorio urbano da includere, le mura seguono l’andamento del terreno lungo colline e avvallamenti, per ben cinque piani di altezza (12 metri in media).

Mariella e io riusciamo a salire dai gradini di pietra in corrispondenza della porta Zhōngshān e a percorrerle per qualche centinaio di metri. Nella parte interna, il camminamento si affaccia sul verde e ondulato parco Zhōngshān, mentre all’esterno la vista si perde sulle arterie di accesso alla metropoli, tra palazzi di vetro, svincoli stradali e vaste zone verdi.

La sera di lunedì riusciamo a raggiungere il parco del lago Xuánwŭ malgrado l’evidente follia di un taxista che fraintende e cerca di condurci a una lontana aerea residenziale. Il placido parco comprende le sponde di un laghetto; al centro, cinque isolotti artificiali collegati da ponti e sentieri che scavalcano canneti e specchi d’acqua, serpeggiano tra cespugli di azalee in piena fioritura, bonsai e ciliegi, in un percorso lungo quasi dieci km. È sera, il parco è fresco e affollato di cittadini in cerca di ombra; lungo una riva, una bella esposizione di ingrandimenti fotografici che mostrano famiglie cittadine nella quotidianità delle loro case. I grattacieli sembrano lontani, tutto intorno al lago, invaso da barche coperte che si possono affittare per una remata.

Al ritorno ci rechiamo a cenare in un ristorante vicino alla zona del tempio Fūzĭ; come spesso capita, il locale è situato al piano superiore di un edificio al quale si accede da una scalinata aperta sulla strada. Nessuno parla inglese e il menu non è di tipo fotografico; i camerieri chiamano in aiuto un cliente che siede con due occidentali, l’uomo ci aiuta a fare le ordinazioni: ravioli di carne al vapore e due diversi tipi di spaghetti, uno con manzo e l’altro con pollo.

Peccato che i due piatti che arrivano siano assolutamente identici.

Foto © Franco Ricciardiello

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