«Non sono riuscito a cambiare niente»

di FRANCO RICCIARDIELLO

«Ho parlato con disperata energia del diritto che la rivoluzione ha sulle nostre vite. Allora non disprezzavo ancora, come adesso, le parole.»

V.B.ŠKlovskij, La rivoluzione e il fronte

Ho da tempo maturato la convinzione che i libri siano, nella grande maggioranza dei casi, più interessanti di chi li ha scritti. Mi ostino a frequentare presentazioni librarie, che mi confermano la grande disparità tra l’umanità dell’autore e  il carattere del libro, come se gli scrittori infondessero la parte migliore di sé nella letteratura, permettendosi poi una vita ordinaria. Beninteso, non che questo sia negativo: se è la fiction la vera vita di uno scrittore, e la sua biografia un dato trascurabile, allora Vive la différence!

Questo effetto è ancora più evidente per gli autori del passato, dei secoli in cui la letteratura non era un’industria culturale ma una delle occupazioni delle classi alte, degli intellettuali e dei chierici.  Prendiamo un esempio invece più vicino a noi. Prendiamo Viktor Šklovskij, il critico russo che è tra i padri del formalismo, la cui Teoria della prosa (О теории прозы, 1925) è un testo fondamentale nella teoria della letteratura, soprattutto per il concetto di straniamento (остранение). Se cerchiamo una sua foto nella rete, lo scopriamo calvo e elegante, con vestito nero e papillon, e siamo autorizzati a immaginarlo in cattedra, in aule polverose, mentre brufolosi studenti universitari sostengono un esame cercando di ignorare la sua espressione disgustata per le castronerie che è costretto a ascoltare.

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Carnevale, Venezia (3)

(continua)

Pensavo all’esercito senza volto che formicolava sulle quattrocento isole di Venezia, alla marea incolore di lineamenti artificiali che aveva invaso il mondo: perché in quel momento, nel vicolo buio con Michela chiusa fra le mie braccia, credetti che tutta la città fosse stata invasa dalla gente senza volto.

Nascondendo il tremito delle labbra la baciai, poi raccolsi tutto il mio coraggio e con pochi passi silenziosi tornammo alla via; una banda di pomodori di gommapiuma quasi ci travolse, seguiti da un orso con il piccolo in spalla. Mi asciugai gli occhi con il palmo della mano.

— Posso aiutarti? — mi sussurrò Michela in un orecchio.

— Grazie, è passato — risposi.

Così finiva la domenica di carnevale.

 

Lunedì di carnevale. Mi svegliai e per un attimo non riuscii a orizzontarmi; poi ricordai che mi trovavo nella camera di pensione insieme a Michela, dove avevo deciso di trasferirmi sino al ritorno a Torino. Mi passai una mano fra i capelli, poi guardai Michela sotto le coperte, accanto a me; le posai una mano sull’anca e si voltò, apparentemente già sveglia.

Uscimmo nell’aria addolcita dal sole di marzo; Michela indossava i soli vestiti con cui l’avessi mai vista: la mantella e la bautta nera. Preferimmo non prendere il vaporetto e passeggiare per le calli guardando le vetrine dei negozi. Non avendo appetito camminammo per ore, progettando la nostra ultima notte a Venezia: a tutti i costi volle che andassimo a un ballo in maschera in una casa privata, per il quale possedeva due inviti.

Gironzolammo intorno al tavolo degli aperitivi; tutti sembravano volersi divertire a ogni costo, ma io rimasi discretamente in disparte, di cattivo umore per qualcosa che non riuscivo a definire: forse un brutto sogno, perché mi ero già svegliato con quella sensazione al mattino.

Dopo un po’ Michela mi guidò su per alcuni gradini di uno scalone, poi un lungo corridoio decorato ad affreschi, con vetrate da un lato e porte bianche sull’altro.

Vedevo gente camminare per le calli e danzare nel rettangolo illuminato di piazza San Marco, non molto distante da dove eravamo. Proiettori di luce dorata tagliavano il cielo, rivelati dall’evaporazione notturna.

Ricordai l’incubo del giorno precedente, i fiumi di gente senza volto in movimento, e la fredda mano dell’angoscia mi afferrò il cuore. Forse l’inquietudine che mi portavo appresso era ancora dovuta a quell’episodio.

Ci ritrovammo in strada, dove un gruppo di ragazzi dalle facce dipinte vivacemente stava danzando alla musica che da Campo San Polo filtrava di soppiatto sin là. Ci accostammo a un muro per osservare quella compagnia silenziosa dai volti troppo seri perché stessero divertendosi. Avvertii il muro umido contro la testa, e sfiorandolo sentii che portava un manifesto incollato di fresco.

Venezia era sporca di carta e neve calpestata, intrisa di nebbia e sonno, oscurata dal silenzio e dalla notte. Torrenti di maschere fluivano là dove sino a poche ore prima erano stati fiumi. Battemmo tutti i caffè sulla strada del ritorno, cercando di toglierci quel sapore amaro dal palato; per la prima volta lontani dalla folla, avendo tempo a disposizione e con il preciso proposito di profittare al meglio delle poche ore rimaste, parlammo a lungo di noi stessi.

3 – FINE. foto di Franco Ricciardiello

Venezia, carnevale (2)

(continua)

Danzando mi feci più vicino, favorito dalla sua mantella risvoltata su una spalla; sull’altro braccio, la falda mi sfiorava invece i ginocchi a ogni passo. Sentivo i suoi fianchi snelli sotto le mie mani, e persino la stoffa del suo vestito aveva la morbidezza della pelle sotto i miei polpastrelli.

Non so quanto restammo ad ascoltare i musicisti sempre più stanchi; infine aiutai la mia dama dalle guance imporporate a scendere dal palco e ci dirigemmo a un caffè. La sarabanda all’esterno del locale proseguì per ore mentre al bancone di marmo del bar io potevo finalmente ammirare il viso di Michela per intero, la bautta abbandonata sul collo con il nastro allentato.

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Venezia, carnevale

Foto di Franco Ricciardiello, carnevale di Venezia 2020. I brani di testo sono tratti dal mio “Michela e la bomba al neutrone”, vincitore del Premio Italia 1988 come miglior racconto su pubblicazione non professionale

Era la vigilia della domenica di carnevale; lo stesso giorno di cinque anni prima Michela ed io ci eravamo conosciuti a Venezia. Malgrado gli anni passati, Michela dimostrava l’età di allora; e la mantella che amava indossare, che per lei era forse l’emblema stesso del carnevale, faceva sembrare questa sera ancora più simile all’altra.

C’erano già moltissime maschere, un vero fiume umano che entrava e usciva dai caffè, sciamava nelle calli, calpestava i ponti, formicolava nelle piazze. Mi lasciai trasportare dai torrenti di gente in festa su e giù per il sestiere di San Marco a osservare i ragazzi che facevano musica, i mimi imbellettati agli angoli delle chiese, i venditori di maschere di porcellana e cartapesta, i bambini infagottati, i fotografi dilettanti, cercando di indovinare i lineamenti delle ragazze dietro il trucco.

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