Quando il mondo era in guerra continuavamo a ballare

Ho scritto e editato in autopubblicazione un libro sulla vita e la musica di Lana Del Rey.

In un certo senso, sono il primo a sorprendermene, dal momento che fino all’anno scorso mai avrei pensato di scrivere un libro sulla vita e l’arte di una musicista.

A ogni modo, l’arte è sempre stata al centro della mia scrittura, anche della fiction, e tra le arti la musica ha un posto centrale, anche più delle arti figurative. In questo stesso blog, inoltre, ho scritto più volte di Lana Del Rey: ad esempio quando ho spiegato come sono arrivato a lei partendo da un ascolto quasi esclusivo di musica classica, oppure in un pezzo che raffronta la musica dal vivo con la registrazione in studio, e persino in un post intitolato “Lana Del Rey considerata come un personaggio di J.G. Ballard”.

In questo libro mi sono tenuto lontano dalla facile agiografia destinata ai fan, per concentrarmi sull’analisi delle musiche e dei testi delle canzoni, sul percorso artistico e le scelte che l’hanno determinato, sulla biografia di Elizabeth Grant (questo è il vero nome della cantante) prima del successo di pubblico, e sull’apparato critico di diverse ricerche universitarie che indagano le caratteristiche di un fenomeno musicale in crescita inarrestabile.

Franco Ricciardiello
Quando il mondo era in guerra continuavamo a ballare

la vita e l’arte di Lana Del Rey
250 pagine, ISBN 979-8871865743

CONTIENE UN’ANALISI DI TESTO E MUSICA DI TUTTE LE CANZONI, TONALITÀ E STRUTTURA ARMONICA, NOTIZIE SULLA VITA DI LANA DEL REY DALL’ADOLESCENZA A LAKE PLACID AI PICCOLI LOCALI DA MUSICA DI NEW YORK, DALL’INGHILTERRA ALLA CALIFORNIA, OLTRE A COMMENTI CRITICI, RECENSIONI, STUDI UNIVERSITARI E 41 FOTOGRAFIE A COLORI.

€ 15,00 cartaceo disponibile su Amazon

I giardini di marzo

Parla, ricordo. Certi momenti rimangono con noi per tutta la vita.

Era la tarda primavera del 1972, stavo per concludere la quinta elementare: dopo l’estate e le consuete vacanze al paese di mio padre, mi sarei trasferito nella scuola di fronte, gemella a quella dove avevo frequentato le primarie, che in quegli anni ospitava la scuola media inferiore. Avevo la consapevolezza che si chiudeva un ciclo della mia vita, e non sapevo come sarebbe stato il successivo. In classe ero distratto, spesso mentalmente assente. Una volta la maestra mi aveva scritto una nota sul diario perché mi ero messo a sbadigliare. Non andavo male, ma neppure ero tra quelli nelle grazie della maestra, più che altro bambine figlie della buona borghesia della capitale di provincia.

Poteva essere il mese di maggio; uscii di classe come ogni giorno dopo cinque ore di lezione, grato per il lungo pomeriggio di giochi che mi aspettava insieme a mio fratello, il quale frequentava la stessa scuola ma due classi più indietro. Quel mattino lui non era ancora uscito. Come di consueto, la maestra ci accompagnò fino al portone, incolonnati per due e tenendoci l’un l’altro per mano, il grembiule nero a giacchetta per i maschi e bianco a blusa per le femmine. Io uscii tra i primi perché era uno dei meno alti, contrariamente a quello che mi sarebbe accaduto dopo la pubertà. Fuori c’era un semicerchio di genitori che agitavano le mani per farsi riconoscere; non i miei, perché ogni giorno si ripeteva lo stesso rituale. Mio padre, che era vigile urbano, si faceva assegnare di servizio all’uscita della scuola, a fine turno, ed era in mezzo alla strada di fronte al portone, con la divisa nera, per interrompere il traffico e lasciar transitare figli e genitori verso il vasto parcheggio di fronte, sotto la statua dei caduti nella grande guerra.

Mio fratello e io sapevamo che fare: attraversavamo sulle strisce, sotto le braccia di papà perpendicolari all’asfalto per fermare il traffico, e cercavamo la sua Opel parcheggiata; non ricordo se quella primavera fossero gli ultimi tempi della Kadett 1000 blu o avesse già la Ascona 1200 azzurra. L’auto era aperta; chi arrivava primo aspettava l’altro, finché il portone di scuola si chiudeva e mio padre poteva raggiungerci e portarci a casa. Per pranzo probabilmente ci aspettava mia nonna materna, perché mamma doveva tenere aperto in continuazione il grande chiosco di giornali che gestiva.

Quel giorno di maggio, mentre attraversavo il parcheggio cercando con gli occhi l’azzurro metallizzato, sentii nitidamente la musica che proveniva da un’autoradio. Era una canzone che avrei forse ascoltato ancora in seguito, perché era uscita a fine aprile e passava in radio e in televisione. Quel giorno per la prima volta ascoltai nitidamente i versi.

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Assecondare le proprie ossessioni

È importante assecondare le proprie ossessioni; alcune mi seguono fino all’adolescenza, altre sono sopravvenute negli anni, alcune sono scomparse e altre ancora sono qui. Molte di queste sono entrate nei miei testi.

Negli anni passati ho recuperato e rivisitato ossessioni cinematografiche che mi perseguitano da quarant’anni: Zardoz di John Boorman, L’uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg, Solaris di Andrej Tarkovskij; adesso sono nella fase di rivisitazione musicale, nel concreto alcuni dischi che hanno caratterizzato la mia giovinezza. Dopo Un biglietto del tram degli Stormy Six, di cui ho scritto qualche settimana fa, ho acquistato su eBay un vinile originale del 1978, mai più ristampato. Si tratta di Danze e ballate dell’area celtica italiana del gruppo torinese La Lionetta, per molti anni una delle più famose formazioni del folk-revival italiano, certamente il meno ortodosso ed il più orientato ad una riproposizione creativa e svincolata dagli schemi del repertorio popolare nord-italiano.

La Lionetta negli anni Settanta
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Un biglietto del tram

Estate 1981, primi giorni di luglio: arrivo a Treviso con una tradotta, un treno militare partito da Pesaro e transitato da Fano, dove era il centro addestramento reclute del mio reparto. Il treno proseguirà per Vittorio Veneto e il nordest, io invece arrivo al Quartier generale della divisione di fanteria meccanizzata “Folgore”. Mansione: scritturale, il che vuol dire che ogni mattina dopo l’appello nel piazzale della caserma salgo su un autobus militare che mi porta al comando di divisione, Villa Margherita, qualche chilometro più su sulla strada per Vittorio Veneto. Sono stato assegnato all’ufficio OA, Organizzazione e addestramento, in particolare all’addestramento, dove insieme a altri tre ragazzi di leva batto a macchina ordini, rapporti e quanto serve al maggiore e ai tenenti colonnelli dell’ufficio.

Abbiamo uno stanzino con quattro macchine da scrivere in linea, i computer ancora non sono entrati nell’uso quotidiano. A parte le incombenze di dattilografia, siamo relativamente liberi; possiamo leggere, chiacchierare, ascoltare musica.

Tra le musicassette che più ascoltiamo ce n’è una, portata da un commilitone di Arco di Trento, che è anche il mio compagno di branda; nei mesi fino alla primavera successiva, fino al suo congedo, la ascolterò centinaia di volte. Si tratta di “Un biglietto del tram” degli Stormy Six, un gruppo di Milano che con questo disco ha inciso “il più bell’esempio di musica politica mai prodotta in Italia.”[1]

Pochi sono i giorni che passano senza ascoltare questa musicassetta, conosco i pezzi a memoria; questa è la copertina:

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Il più orribile delitto

A quattro anni dall’assegnazione del premio Nobel per la letteratura, e ben otto anni dopo l’album precedente, in piena pandemia da Covid-19 Bob Dylan pubblica un album bellissimo, Rough and Rowdy Ways, il numero 39 della sua sessantennale carriera: il brano di punta, Murder Most Foul, è una lunga ballata crepuscolare, la canzone più lunga che il cantautore abbia mai inciso (16’56”). Ad ascoltare il testo, tutt’altro che facile da interpretare, sembra che Dylan abbia deciso di raccontare in musica una sua interpretazione della storia degli Usa nell’ultimo mezzo secolo.

Come si intuisce dall’immagine che fa da copertina al singolo (e come ultima pagina nella busta del doppio vinile), il racconto prende le mosse dal grande evento traumatico della storia americana del dopoguerra: l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy il 22 novembre del 1963, il giorno in cui l’America perde la propria innocenza, e anche l’atto di nascita dell’epoca postmoderna:

[…] quello fu il giorno che simbolicamente segnò la fine di una certo tipo d’ottimismo e ingenuità nella nostra coscienza collettiva, la fine di certe verità e garanzie che avevano contribuito a formare la nozione di ciò che dovrebbe essere la letteratura.

Larry McCaffery, Postmodern fiction. Bio-bibliographical guide (1986)

Già il titolo della ballata, con il suo sapore shakespeariano, è lì a indicare l’inizio di un’era di follia e paranoia:

«Murder most foul, as in the best it is. But this most foul, strange and unnatural»

William Shakespeare, “Amleto”, atto I scena V

Il testo è quasi recitato, con un atteggiamento da “fine dicitore”, su un arrangiamento minimale, pressoché improvvisato, quasi doloroso: percussioni, violino e soprattutto pianoforte, suonato da Fiona Apple in una sessione-fiume di sette ore consecutive. Il testo è la migliore dimostrazione che il Comitato per il Nobel non si è sbagliato nell’attribuire il premio a un cantautore.

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Lana Del Rey considerata come un personaggio di J.G. Ballard

Copertina della prima edizione originale (particolare)

«Nessuno viene più a Vermilion Sands, e immagino che pochi ne abbiano sentito parlare. Ma dieci anni or sono, quando Fay e io andammo ad abitare al numero 99 di Stellavista, poco prima che il nostro matrimonio naufragasse, la colonia veniva ancora ricordata come ex luogo di villeggiatura di stelle del cinema, ereditiere criminali ed eccentrici cosmopoliti in quegli anni favolosi prima della Vacanza. Certo, le astruse ville e i palazzi finti erano in gran parte vuoti, gli immensi giardini invasi dalle erbacce e prosciugate da tempo le piscine su due livelli, e quel luogo stava degenerando come un luna park abbandonato, ma dalla bizzarra stravaganza che ancora vi aleggiava era facile capire che i giganti se ne erano andati da poco.»

James G. Ballard, I segreti di Vermilion Sands (Vermilions Sands, 1971)

Vermilion Sands è una immaginaria località di riviera che si trova da qualche parte “tra l’Arizona e la spiaggia di Ipanema”, come scrive James G. Ballard stesso nella prefazione all’edizione in volume 1971, “ma in questi ultimi anni mi sono compiaciuto di vederla spuntare un po’ dovunque, e soprattutto in qualche settore della città lineare, lunga cinquemila chilometri, che si stende da Gibilterra alla spiaggia di Glyfada lungo le coste settentrionali del Mediterraneo.” Vermilion Sands è la località balneare ideale di un’umanità futura che Ballard immagina sdraiata al sole, una società del tempo libero perché affrancata dalla schiavitù del lavoro imposta della modernità. Il narratore / punto di vista è un uomo, di solito attirato a Vermilion Sands dal milieu artistico; la protagonista invece è sempre una donna, una figura femminile dalla psicologia inaccessibile (riflesso narrativo della peculiare misoginia dell’autore, che ama le donne come se fossero esseri alieni). Le donne di Vermilion Sands sono personalità al limite del borderline, divise tra originalità artistica e schizofrenia. Ciascun plot è costruito intorno alla perturbazione che la venuta di questa donna, in genere famosa e ammirata, genera nello statu quo del PdV, fino a una soluzione raggiunta durante un climax drammatico che provoca l’allontanamento del perturbante, cioè la figura femminile.

Questa pagina in versione inglese

Ho scelto di illustrare le brevi citazioni che seguono con foto della cantautrice e poetessa Lana Del Rey,al secolo Elizabeth Grant[1], che con il suo allure a cavallo tra anni Cinquanta e postmoderno è forse la più adatta a impersonare le donne aliene di Ballard.

JANE CIRACYLIDES

da Prima Belladonna, (Prima Belladonna, 1956)

Conobbi Jane Ciracylides durante la Vacanza, la crisi mondiale di noia, apatia e canicola estiva che tanto felicemente ci coinvolse tutti per dieci indimenticabili anni, e immagino che ciò possa avere avuto molto a che fare con quanto accadde fra noi. Non credo proprio che oggi riuscirei a rendermi altrettanto ridicolo, ma può anche darsi che sia stata tutta colpa di Jane.
Qualunque altra cosa ne dicessero, nessuno poteva negare che si trattasse di una splendida ragazza, sebbene il suo bagaglio genetico fosse un tantino promiscuo.

Volgendo lo sguardo vidi entrare la donna dalla pelle dorata.
«Buongiorno» dissi. «Devono trovarla di loro gusto.»
Rise amabilmente. «Salve. Facevano i capricci?»
Sotto la nera veste da spiaggia l’epidermide le sfavillava di un oro più morbido e tenue, e ad avvincermi erano i suoi occhi. Li vedevo appena sotto il cappello a larghe tese. Zampe d’insetto tremolavano delicatamente attorno a due punti di luce violetta.
Si avvicinò a una schiera di eterogenee felci e rimase lì a guardarle. Le felci si protesero verso di lei e gorgheggiarono appassionatamente in chiave di soprano con limpide voci flautate.
«Non sono deliziose?» fece la donna carezzando delicatamente le fronde. «Hanno tanto bisogno di affetto.»
Aveva una voce dal registro basso, un sussurrante scorrere di sabbia fresca con una cadenza che lo rendeva musicale.
«Sono appena giunta a Vermilion Sands» disse «e il mio appartamento mi sembra terribilmente silenzioso. Forse se avessi un fiore, ne basterebbe uno, non mi sentirei tanto sola.»
Non riuscivo a distogliere gli occhi da lei.

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Lana Del Rey considered as a J.G. Ballard character

«No one ever comes to Vermilion Sands now, and I suppose there are few people who have ever heard of it. But ten years ago, when Fay and I first went to live at 99 Stellavista, just before our marriage broke up, the colony was still remembered as the one-time playground of movie stars, delinquent heiresses and eccentric cosmopolites in those fabulous years before the Recess. Admittedly most of the abstract villas and fake palazzos were empty, their huge gardens overgrown, two-level swimming pools long drained, and the whole place was degenerating like an abandoned amusement park, but there was enough bizarre extravagance in the air to make one realize that the giants had only just departed.»

J.G. Ballard, Vermilion Sands (1971)

Vermilion Sands is an imaginary seaside resort located “somewhere between Arizona and Ipanema Beach”, as Ballard himself writes in the preface to the 1971 edition, “but in recent years I have been delighted to see it popping up elsewhere – above all, in sections of the 3,000-mile-long linear city that stretches from Gibraltar to Glyfada Beach along the northern shores of the Mediterranean”. Vermilion Sands is the ideal seaside resort of a future humanity that Ballard imagine lying in the sun, a society of free time because freed from the slavery of work imposed by modernity. The narrator / point-of-view is always a man, usually attracted to Vermilion Sands by the artistic milieu; the protagonist instead is always a woman, a female figure with inaccessible psychology (because of the author’s peculiar misogyny, who loves women as if they were alien beings). Vermilion Sands women are borderline personalities, torn between artistic originality and schizophrenia. Each plot is built around the perturbation that the arrival of this famous and admired woman generates in the status quo of the PoW, until a solution is reached during a dramatic climax that causes the removal of the uncanny, i.e. the female figure.
I have chosen to illustrate the following short quotes from Vermilions Sands with photos of the singer-songwriter and poet Lana Del Rey who with her allure between the 1950s and postmodernism is perhaps the most suitable for impersonating Ballard’s alien women.

Lana Del Rey is the stage name of Elizabeth Grant. For one of those singular coincidences that make life worth living, a character named Elizabeth Grant appears in “The Kindness of Women” (1991) by J.G. Ballard: «Women dominated my years at Cambridge […], but none more than Dr Elizabeth Grant. During my first term at the university I saw her every day, and I knew her more intimately than any other woman in my life. But I never embraced her. ” Only at the end of the chapter is the little “mystery” revealed: Dr Elizabeth Grant donated post mortem her body to the medical faculty so that the students, including J.G. Ballard, could practice anatomy.

LEONORA CHANEL

from The could-sculptors of Coral D

All summer the cloud-sculptors would come from Vermilion Sands and sail their painted gliders above the coral towers that rose like white pagodas beside the highway to Lagoon West. The tallest of the towers was Coral D, and here the rising air above the sand-reefs was topped by swan-like clumps of fair-weather cumulus. Lifted on the shoulders of the air above the crown of Coral D, we would carve seahorses and unicorns, the portraits of presidents and film stars, lizards and exotic birds. As the crowd watched from their cars, a cool rain would fall on to the dusty roofs, weeping from the sculptured clouds as they sailed across the desert floor towards the sun.
 Of all the cloud-sculptures we were to carve, the strangest were the portraits of Leonora Chanel. As I look back to that afternoon last summer when she first came in her white limousine to watch the cloud-sculptors of Coral D, I know we barely realized how seriously this beautiful but insane woman regarded the sculptures floating above her in that calm sky. Later her portraits, carved in the whirlwind, were to weep their storm-rain upon the corpses of their sculptors.

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Il caso Lana Del Rey / 2

2 – continua

Metto il vinile sul piatto dell’impianto stereo, alzo il volume, siedo in poltrona. Ikea Poang. Quadrifonia. Lana del Rey. Questa stanza ha un suono particolare: le pareti sono interamente ricoperte di scaffali pieni di libri, dal pavimento al soffitto, che restituiscono un effetto sonoro caldo, intimo. Partono gli archi, prima il violoncello, poi due violini a distanza di quattro battute uno dall’altro: potrebbe sembrare un’ouverture di Respighi o di Villa-Lobos, e invece ecco la voce, nelle note più basse del pentagramma in chiave di sol: si-si-la-si-la-la. È Lana del Rey: mezzosoprano drammatico, canta volutamente senza emozione, una voce “anestetizzata” come ha scritto qualche critico[i]. Per la rivista britannica NME, Del Rey canta «like a perfect mannequin»[ii]

Feet don’t fail me now
Take me to your finish line
Oh my heart it breaks every step that I take
But I’m hoping that the gates, they’ll tell me that you’re mine

A ogni ascolto, Born to die è una nuova sorpresa: una parola sussurrata che non avevo mai inteso, un violino all’unisono che sottolinea il canto, una singola nota diversa nel secondo passaggio di un ritornello, e l’incanto si riproduce.

La ventisettenne Elizabeth Grant non è più una perfetta sconosciuta per il pubblico americano quando nel 2012 viene distribuito il suo primo disco con lo pseudonimo Lana Del Rey. L’anno precedente, due videoclip autoprodotti “artigianalmente” sono diventati virali: c’è quindi una certa aspettativa quando Grant firma il primo contratto discografico. Due anni prima, fresca di università (una laurea breve in Filosofia) ha già distribuito un album in versione digitale con uno pseudonimo leggermente diverso, Lana Del Ray (con la A invece della E), rimasto in vendita solo per pochi mesi su Amazon e I-tunes, prima di venire ritirato in vista di una distribuzione con una major.

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Musica registrata, musica live: il caso Lana Del Rey

Lana Del Rey sull’edizione turca di Vogue, 2015

Cercando in rete notizie su un’altra artista, il mese scorso ho praticamente sbattuto la faccia contro Lana Del Rey. Premetto che da quasi venti anni ho smesso di tenermi aggiornato sulla musica “leggera”, per concentrarmi sulla musica “classica”, anche contemporanea; di conseguenza ero completamente a digiuno sull’industria discografica (se ancora si può chiamare così) americana, né più né meno di quella europea. Detto questo, mi è bastato sentire l’attacco di una sua canzone per provare subito il desiderio di ascoltarne ancora; il risultato è che adesso possiedo l’intera opera di Lana Del Rey in digitale, più due long-playing in vinile. Per spiegare l’affetto che l’ascolto della sua musica ha avuto su di me, considerate che l’ultimo vinile acquistato in precedenza era Under the red sky di Bob Dylan, nel 1990.

Prima di parlare di Lana Del Rey devo però anteporre una premessa fondamentale, sulla differenza tra la musica e tutte le altre arti le cui opere sono industrialmente riproducibili.

Mi stupisco ogni volta, quando mi rendo conto che c’è chi è disposto a spendere cifre non indifferenti per un ascoltare musica dal vivo. Non mi riferisco alla musica colta occidentale, quella che comunemente chiamiamo “classica”, composta in anni in cui l’arte ancora non era entrata «nell’epoca della sua riproducibilità tecnica»[1], e che per questo vive nell’interpretazione — no, intendo la musica popolare contemporanea, la cui esecuzione in pubblico è una conseguenza del prodotto-musica, vinile, CD, mp3, videoclip etc.: in origine, principalmente come promozione del supporto, in seguito come iniziativa collaterale di importanza equivalente alla distribuzione del prodotto, e oggi come alternativa quasi obbligatoria alla rarefazione del mercato, dovuta ai canali alternativi per musica digitale (una significativa inversione rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta, dal momento che adesso il brano registrato è percepito come “solidificazione” di un motivo musicale immateriale). Specialmente nel caso di grandi nomi internazionali, questi concerti cono colossali eventi mediatici e hanno prezzi equivalenti al costo di diversi cd.

Frequento volentieri concerti di musica antica, che ci è stata tramandata in una forma scritta appositamente per una riproduzione il più possibile fedele alle intenzioni dell’autore; Per quanto riguarda invece la musica pop dal vivo, confesso uno scetticismo che cercherò di spiegare.

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Grainsbourg scandale

Nella prima metà degli anni Settanta, anni dopo l’uscita sul mercato italiano, passava nelle radio il singolo Je t’aime… moi non plus, forse per rivincita dopo anni di censura radiofonica; circolava questa leggenda metropolitana secondo cui Jane Birkin aveva davvero orgasmi multipli nel corso della registrazione, non ricordo più quanti. I miei compagni di scuola per questo amavano la canzone, e io per lo stesso motivo la snobbavo. Però ogni volta che l’ascoltavo in radio, rimanevo catturato dal motivo musicale. Poi Serge Gainsbourg praticamente scomparve dalla programmazione delle nostre radio, e ancora oggi viene ricordato da chi conosce il suo nome più che altro per quella canzone considerata, decisamente a torto, “pruriginosa”.

È quindi con una certa sorpresa che ho scoperto una decina di anni fa, nel corso di ricerche sul campo per un libro su Parigi, l’immensa popolarità di cui ancora gode in Francia, e soprattutto la sua vasta discografia, di una qualità e una varietà che difficilmente reggerebbero il paragone con qualsiasi altro artista pop contemporaneo. Adesso una parte considerevole delle sue incisioni, anche quelle di altri artisti francesi per i quali ha scritto canzoni, fanno parte della mia collezione domestica.

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