Parla, ricordo. Certi momenti rimangono con noi per tutta la vita.
Era la tarda primavera del 1972, stavo per concludere la quinta elementare: dopo l’estate e le consuete vacanze al paese di mio padre, mi sarei trasferito nella scuola di fronte, gemella a quella dove avevo frequentato le primarie, che in quegli anni ospitava la scuola media inferiore. Avevo la consapevolezza che si chiudeva un ciclo della mia vita, e non sapevo come sarebbe stato il successivo. In classe ero distratto, spesso mentalmente assente. Una volta la maestra mi aveva scritto una nota sul diario perché mi ero messo a sbadigliare. Non andavo male, ma neppure ero tra quelli nelle grazie della maestra, più che altro bambine figlie della buona borghesia della capitale di provincia.
Poteva essere il mese di maggio; uscii di classe come ogni giorno dopo cinque ore di lezione, grato per il lungo pomeriggio di giochi che mi aspettava insieme a mio fratello, il quale frequentava la stessa scuola ma due classi più indietro. Quel mattino lui non era ancora uscito. Come di consueto, la maestra ci accompagnò fino al portone, incolonnati per due e tenendoci l’un l’altro per mano, il grembiule nero a giacchetta per i maschi e bianco a blusa per le femmine. Io uscii tra i primi perché era uno dei meno alti, contrariamente a quello che mi sarebbe accaduto dopo la pubertà. Fuori c’era un semicerchio di genitori che agitavano le mani per farsi riconoscere; non i miei, perché ogni giorno si ripeteva lo stesso rituale. Mio padre, che era vigile urbano, si faceva assegnare di servizio all’uscita della scuola, a fine turno, ed era in mezzo alla strada di fronte al portone, con la divisa nera, per interrompere il traffico e lasciar transitare figli e genitori verso il vasto parcheggio di fronte, sotto la statua dei caduti nella grande guerra.
Mio fratello e io sapevamo che fare: attraversavamo sulle strisce, sotto le braccia di papà perpendicolari all’asfalto per fermare il traffico, e cercavamo la sua Opel parcheggiata; non ricordo se quella primavera fossero gli ultimi tempi della Kadett 1000 blu o avesse già la Ascona 1200 azzurra. L’auto era aperta; chi arrivava primo aspettava l’altro, finché il portone di scuola si chiudeva e mio padre poteva raggiungerci e portarci a casa. Per pranzo probabilmente ci aspettava mia nonna materna, perché mamma doveva tenere aperto in continuazione il grande chiosco di giornali che gestiva.
Quel giorno di maggio, mentre attraversavo il parcheggio cercando con gli occhi l’azzurro metallizzato, sentii nitidamente la musica che proveniva da un’autoradio. Era una canzone che avrei forse ascoltato ancora in seguito, perché era uscita a fine aprile e passava in radio e in televisione. Quel giorno per la prima volta ascoltai nitidamente i versi.
Il carretto passava e quell’uomo gridava “Gelati!”
Al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti
io pensavo a mia madre e rivedevo i suoi vestiti
il più bello era nero con i fiori non ancora appassiti
All’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri
io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli
poi sconfitto tornavo a giocar con la mente e i suoi tarli
e alla sera al telefono tu mi chiedevi “Perché non parli?”
Il motivo struggente, chitarra e archi, mi aggredì all’improvviso, quasi a tradimento. Ci vuole poco per cambiare l’umore di un bambino di undici anni. Improvvisamente mi lasciai prendere dalla melancholia di non so cosa. Ogni tanto pensavo a come sarebbe stato il mondo dopo la morte dei miei genitori, o dopo la mia morte, un niente vuoto e buio. Provai nostalgia per cose che non avevo mai provato e non avrei mai vissuto, quei ragazzi che vendevano i libri all’uscita di scuola mi rimandavano alle elementari che stavano per finire: ciò che per cinque anni era stato il mio mondo non sarebbe stato più, e a quell’età ci vuole anche meno per impensierire un bambino.
Quattro anni dopo, in seconda superiore, cominciai a appassionarmi alla musica e quasi subito mi imbattei in Lucio Battisti. Un ex compagno di scuola, che faceva parte della mia compagnia, mi prestò un 45 giri di sua sorella, così appena messo sul piatto del giradischi, con la pelle d’oca e brividi alla schiena ascoltai di nuovo quella canzone che prima di quel momento neppure sapevo come si intitolasse.
I giardini di marzo si vestono di nuovi colori
e le giovani donne in quei mesi vivono nuovi amori
Camminavi al mio fianco e ad un tratto dicesti “Tu muori”
“Se mi aiuti, son certa che io ne verrò fuori”
Ma non una parola chiarì i miei pensieri
Continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri
Da quel giorno del 1976, “I giardini di marzo” è la mia canzone preferita, in un certo senso la canzone della mia vita.
