Metafisica torinese: «La donna della domenica» di Fruttero & Lucentini

torino-02Chiunque si proponga di scrivere un giallo ambientato a Torino, non può evitare di inciampare in Fruttero & Lucentini. Nel 1972 il loro La donna della domenica contribuisce a sdoganare la letteratura di genere, in un’Italia viziata dal pregiudizio verso la narrativa di consumo. Oggi diamo per scontato che gli autori italiani di giallo e di noir compaiano sugli stessi scaffali dei loro colleghi statunitensi o francesi, che diventino best-sellers, contesi fra cataloghi di diversi editori, e considerati dalla critica senza pregiudizio di genere: ma nel ’72 non c’era ancora stato lo straordinario successo internazionale di Umberto Eco e Il nome della rosa, non c’era stato Camilleri né l’onda d’urto dei giallisti svedesi scatenata dallo tsunami di Uomini che odiano le donne.

In quegli anni erano in pochi a credere che il mystery, il noir e la fantascienza fossero generi per gli autori italiani; non ci credevano gli editori, non ci credeva la critica e tanto meno il pubblico: solo qualche fan capiva che non può esistere qualcosa come una “specificità nazionale” nel genere letterario, e che è piuttosto questione culturale e di gusto estetico.

Nel 1961 Carlo Fruttero e Franco Lucentini avevano già fatto molto per sdoganare la fantascienza con la compilazione per Einaudi dell’antologia Il secondo libro della fantascienza, con racconti di Clarke, Sheckley, Bradbury, Heinlein e altri — ma era appunto la science-fiction americana, e se il marchio Einaudi conferiva la patente di dignità al genere, al tempo stesso ne negava l’italianità.

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Le porte di Babilonia

«BABILONIA», da Erodoto, Storie, I, 180-181

Porta di Ishtar (Babilonia): Pergamonmuseum, Berlino, dicembre 2016

Porta di Ishtar (Babilonia): Pergamonmuseum, Berlino, dicembre 2016

Da una parte e dall’altra il muro si spinge con le sue braccia fino al fiume; di là, poi, una curva, e, lungo le due rive del fiume, si alza un muraglione di mattoni cotti. Quanto alla città, che è piena di case a tre e quattro piani, è divisa in strade diritte, tanto le parallele, quanto le perpendicolari che portano al fiume.
In corrispondenza di ciascuna strada, si aprivano delle piccole porte nel muraglione che costeggiava il fiume: tante di numero quante erano le vie fra le case. Anche queste porte erano di bronzo e portavano direttamente al fiume.
Ciascuna delle due parti della città aveva, nel suo centro, una grande costruzione: l’una il palazzo reale con un muro di cinta grande e forte, l’altra il santuario delle bronzee porte di Zeus Belo (che esisteva ancora ai miei tempi), di forma quadrangolare, ogni lato lungo due stadi.
Nel centro del sacro edificio è costruita una torre massiccia lunga uno stadio e larga altrettanto. Sopra questa torre ve ne è sovrapposta un’altra, e un’altra  ancora sopra la seconda e così via fino a otto torri. Nell’ultima torre c’è un gran tempio, nell’interno del quale vi è un gran letto, adorno di bei drappi, e, accanto, è apprestata una tavola d’oro.
Nessuna statua è eretta in quel luogo; nessun essere umano passa colà la notte, soltanto un’unica donna del paese, quella che il dio ha scelto fra tutte, a quanto affermano i Caldei, che sono i sacerdoti di questo dio.

Foto © Mariella Ferrari, 2016

Come hanno potuto fare un film da «Lolita»?

AUTODISTRUZIONE DI UN INTELLETTUALE EUROPEO IN AMERICA

sue-lyon-bert-stern-2La serata dei racconti di musica del prossimo 23 gennaio, dedicata a Sergeij Vasil’evič Rachmaninov — con lettura di passi da Lolita (1955) di Vladimir Vladimirovič Nabokov — mi ha offerto l’occasione di rivedere lo straordinario film che Stanley Kubrick girò nel 1962 su sceneggiatura dell’autore stesso, peraltro pesantemente rimaneggiata dal regista. E la rilettura del romanzo per selezionare pagine scelte da condividere in pubblico, mi ha condotto a un naturale confronto tra l’opera e la sua riduzione cinematografica. L’incipit di Lolita (scritto in lingua inglese quando Nabokov è ormai cittadino statunitense) è giustamente famoso:

Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.

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Casa de la Trova, Cuba

UN’ISTITUZIONE DELLA MUSICA POPOLARE CUBANA.

malecon-la-habanaLa Trova è una ballata popolare romantica nata a Santiago de Cuba e diventata molto politicizzata negli anni Sessanta, quando i trovadores nell’Ottocento si spostavano verso l’interno dell’isola portando con sé la chitarra. Dopo la rivoluzione, tra anni ’60 e ’70, si sviluppa il movimento Nueva Trova, versione locale della Nueva Canción politicizzata dell’America Latina. Oggi la Casa de la Trova è un’istituzione in tutte le città cubane, la sede dove musicisti famosi e dilettanti intrattengono un pubblico di solito composto da altri appassionati.

Nel maggio 2003 visito con un viaggio di Avventure nel Mondo la Casa de la Trova all’Avana — un cortile sbilenco, una stanzetta con sedie e poltrone, un leggio. Gli avventori ci dicono che la serata musicale inizia verso le 20 e continua fino a che c’è qualcuno che si esibisce. Ci ripromettiamo di tornare dopo cena, e così facciamo, fiancheggiati dai soliti benintenzionati che ovunque a Cuba si relazionano con gli stranieri per ottenere mance, capi di vestiario e altro. Sono chiamati jineteros, cavallerizzi, anche se è più conosciuto il femminile jineteras, in riferimento alle ragazze che hanno occasionali rapporti sessuali con i turisti, senza essere professioniste del sesso. È  praticamente impossibile camminare per strada senza essere abbordati da venditori di sigari, intermediari di ristoranti privati, sensali di jineteras, tassisti, cacciatori di T-shirt, venditori di monete con l’effigie del Che etc. Stasera i jineteros ci mostrano l’alto e moderno ospedale Fratelli Ameijeiras, vanto dell’isola, dove vennero a curarsi Diego Maradona e Alain Delon.

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