Viale della Rimembranza

«Che tipo di poeta vorrei essere? Non lo so. Ma ricordo che una volta lessi un’antologia di poeti cinesi le cui canzoni venivano originariamente cantate dalle donne che lavavano i loro panni lungo il fiume. Ecco, forse quello è un modello di poeta che vorrei poter imitare.»

Leonard Cohen

Ci sono giorni, ai confini estremi dei pomeriggi d’estate, durante i quali un messaggio di lancinante solitudine si trasmette dalla luce solare all’ombra sotto Viale della Rimembranza

quando Luglio si srotola come un presagio di terrore in direzione delle sere immobili,
quando il catrame si surriscalda e deforma ai piedi dei marciapiedi,
quando la percezione delle distanze sotto l’ombra grigia delle foglie si dilata per impedirti di riconoscere chi viene in direzione contraria.

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La suburbanizzazione dell’anima. Attualità di «Super-Cannes» di J.G.Ballard

L’ultimo fine settimana di settembre si svolgerà durante il Festival del Fantastico di Ferentillo (TR) un convegno dedicato a James Graham Ballard, al quale partecipa come relatore anche il sottoscritto, con un intervento dedicato all’ultima parte della produzione dello scrittore inglese.

Negli ultimi tre romanzi, Ballard è distante anni luce dalla science fiction della quale pure era stato un maestro, un innovatore, e in seguito un critico spietato. È noto che con una delle sue consuete affermazioni tranchant aveva proclamato senza mezzi termini, poco dopo avere abbandonato il genere in seguito al successo di L’impero del sole (1984), che la fantascienza è morta. Il concetto è stato ribadito anche in una bella intervista a Valerio Evangelisti per il rotocalco XL, in occasione dell’uscita in Italia dell’ultimo romanzo, Regno a venire (2006):

Evangelisti: Cosa pensi della fantascienza di oggi? Può essere sovversiva come in passato?
Ballard: La fantascienza è morta il giorno in cui Armstrong ha messo piede sulla Luna, nel 1969. Penso che allora si sia messa la parola fine.

In questa finale trilogia, l’interesse di Ballard si rivolge alla middle class, quella borghesia che con le rivoluzioni del ventesimo secolo ha plasmato il mondo a sua immagine e somiglianza, e contro il quale oggi inscena una rivolta postmoderna di riconoscibile segno reazionario.

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Parigi, una sera

Per celebrare l’anniversario del 14 luglio, pubblico per gentile concessione dell’Editore un breve passaggio da un capitolo centrale del mio romanzo di fantascienza «Termidoro», ambientato in parte nel futuro e in parte nel momento più cruciale della Grand Révolution.

Dall’abitazione dei Duplay agli Champs-Élysées è una breve passeggiata, purtroppo la medesima che porta al patibolo, ma a quest’ora della sera rue Saint-Honoré non conserva traccia della ferocia del mattino. Finalmente, l’ora dei giovani. Il lavoro è appena terminato o sta per terminare — gli operai delle industrie nazionalizzate continuano fino al tramonto. In place de la Révolution la ghigliottina è solo un palco di legno con una guardia armata, fiumi di cittadini passeggiano tutto intorno, lungo la cancellata dei giardini delle Tuileries e più oltre nella grande oasi verde degli Champs-Élysées.

Fa impressione vedere come tutti portino la coccarda tricolore sul cappello o all’altezza del cuore, uomini e donne indistintamente. C’è un movimento, un flusso continuo di gente per i viali e giù fino al lungo Senna, da dove si può vedere la mole degli Invalides sull’altra riva. Questa è finalmente anche l’ora della moda, una splendida sera d’estate per la splendida Parigi liberata dai colori scuri e pesanti. Le sorelle Duplay che passeggiano sottobraccio a Maximilien Robespierre sono tra le più eleganti, ma senza ostentazione, anche se questo già suscita sguardi sospettosi di famiglie sanculotte sdraiate sui prati in cerca di fresco.

Babette ha un vestito colore canarino stretto in vita, Éleonoire un abito malva e calze di quel colore inconsueto che le sartine chiamano “tortora”; i vestiti di entrambe lasciano le caviglie scoperte, come imposto dalla moda sanculotta delle gonne corte. Siccome la temperatura può calare repentinamente dopo il tramonto, le ragazze hanno la profonda scollatura protetta da un fisciù quasi trasparente, ma non portano l’ombrellino parasole, fuori moda perché troppo aristocratico.

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Tehran, maggio 2017

Nell’inverno del 1979, quando scoppiò la rivoluzione iraniana, frequentavo le scuole superiori. Un giorno, quando già i religiosi radicali avevano preso il potere a Tehran sull’onda del ritorno dell’ayatollah Khomeini dall’esilio, il mio insegnante di religione disse una cosa che non ho più scordato. “Non credo più a quello che dice la televisione e scrivono i giornali. Non può essere che sia tutto male”.

Non molti mesi più tardi l’Iraq attaccava a tradimento l’Iran per impossessarsi degli enormi giacimenti di petrolio, con il beneplacito degli Stati Uniti desiderosi di vendicare lo smacco del sequestro di ostaggi all’ambasciata a Tehran. Sarò stato giovane e distratto, ma fino alla fine di quel conflitto inutile e allucinante rimasi convinto che l’Iran fosse l’aggressore, così che mi sorpresi e arrabbiai con me stesso nello scoprire la verità al cessate il fuoco, nel 1988. L’Iran aveva combattuto per otto anni da solo contro il mondo intero che vendeva a armi e finanziava Saddam Hussein: gli USA, l’URSS, l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo.

“Non crederò più a quello che dice la televisione e scrivono i giornali,” pensai.

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Hanging Rock, la pietra scartata

IL CINEMA AUSTRALIANO E IL FINALE APERTO DI «PICNIC AD HANGING ROCK»

Nell’introduzione a un prezioso e raro volumetto del 1987, The Secret of Hanging Rock, pubblicato in Australia da Angus Publishers, l’agente letterario John Taylor mette l’accento su un dato difficile da smentire: se il romanzo di Joan Lindsay del 1967 non avesse quel finale aperto che ha stimolato la curiosità dei lettori, difficilmente il regista Peter Weir e la sua produzione avrebbero deciso di acquistarne i diritti cinematografici. E siccome l’industria del cinema australiano si è praticamente costruita sopra la inusitata fortuna internazionale di quell’unico film, Taylor enuncia un paradosso: senza quell’invisibile mattone, “la pietra che il costruttore rifiuta” di biblica derivazione, non esisterebbe il cinema australiano contemporaneo. E subito suggerisce un corollario, perché in realtà il manoscritto che Joan Lindsay consegnò alla casa editrice conteneva un finale esplicito — che centinaia di curiosi appassionati si sono messi inutilmente a cercare, e che ha perfino generato un intero libro, The Murders at Hanging Rock, nel quale Yvonne Rousseau propone cinque possibili soluzioni al giallo narrativo, partendo unicamente dai dati contenuti nel romanzo (dal momento che ancora non era divulgato il possibile capitolo finale).

Vedrò di procedere con ordine. La trama innanzitutto, identica per romanzo e film: il giorno di San Valentino dell’anno 1900 una ventina di studentesse di un esclusivo collegio australiano non distante da Melbourne, si recano per il tradizionale picnic presso una formazione rocciosa isolata nella pianura. Quattro ragazze chiedono il permesso di osservare da vicino la rocca prima di tornare al collegio, ma durante l’ascesa succede qualcosa di inesplicabile. Miranda, la studentessa più ammirata e benvoluta, guida altre due compagne ancora più in alto, allontanandosi per sempre.

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