Nell’inverno del 1979, quando scoppiò la rivoluzione iraniana, frequentavo le scuole superiori. Un giorno, quando già i religiosi radicali avevano preso il potere a Tehran sull’onda del ritorno dell’ayatollah Khomeini dall’esilio, il mio insegnante di religione disse una cosa che non ho più scordato. “Non credo più a quello che dice la televisione e scrivono i giornali. Non può essere che sia tutto male”.
Non molti mesi più tardi l’Iraq attaccava a tradimento l’Iran per impossessarsi degli enormi giacimenti di petrolio, con il beneplacito degli Stati Uniti desiderosi di vendicare lo smacco del sequestro di ostaggi all’ambasciata a Tehran. Sarò stato giovane e distratto, ma fino alla fine di quel conflitto inutile e allucinante rimasi convinto che l’Iran fosse l’aggressore, così che mi sorpresi e arrabbiai con me stesso nello scoprire la verità al cessate il fuoco, nel 1988. L’Iran aveva combattuto per otto anni da solo contro il mondo intero che vendeva a armi e finanziava Saddam Hussein: gli USA, l’URSS, l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo.
“Non crederò più a quello che dice la televisione e scrivono i giornali,” pensai.
Tehran
La metropoli, immensa, è cresciuta ai piedi della catena montuosa dell’Elburz; a differenza di altre città, invece di espandersi unicamente verso la pianura, spinge i suoi quartieri alti a ridosso delle montagne. A poca distanza da Tajrish, il quartiere più settentrionale, famoso per il suo bazar di nawrūz (il capodanno persiano), parte lo skylift di Darband che in passaggi successivi porta fino ai 3740 metri della stazione n. 7, vicino alla cresta del monte Tochāl.
Rimaniamo ospiti per alcuni giorni a casa di amici che vivono presso via Kolahduz, Tehran nord, una distesa di quartieri abbienti dove lunghe vie fiancheggiate di gelsi tentano di tenere un andamento rettilineo tra le superstrade a scorrimento veloce, sempre congestionate di traffico. I gelsi maturi macchiano i marciapiedi di piccole chiazze nere, i fiori riempiono di profumo dolciastro l’aria di maggio. L’ex candidato alla presidenza della repubblica Mīr-Hoseyn Mūsavī, sconfitto nelle contestate elezioni del 2009 da Ahmadinejād e agli arresti domiciliari dopo le proteste del Movimento Verde, abitava a una strada di distanza dalla nostra ospite.
Tutt’intorno sorgono i palazzi estivi della dinastia Pahlavi, a partire dall’immenso complesso Sa’d Abad e dal palazzo Niyavaran. Tra i viali alberati ci sono case da tè dentro antichi giardini, librerie, centri per lo shopping, cambiavalute, negozi esclusivi, ma anche fruttivendoli e piccoli rivenditori di vicinato. Alzando gli occhi verso nord, le cime innevate incombono come una parete sopra i tetti dei palazzi rivestiti di marmo.
Prendiamo la moderna metropolitana per raggiungere Tehran sud, dove a pochi passi di distanza dal vastissimo bazar c’è l’ingresso del Golestān, la reggia cagiara che prende nome dal Giardino delle rose, un’opera del poeta Sa‘di (1210-1292?). A intervalli regolari lungo il binario sotterraneo, sul muro sono stampate icone che ritraggono una donna con un fazzoletto sul capo: è il segno che questo tratto di marciapiede è riservato. Nei vagoni ci sono infatti spazi separati: più piccolo quello riservato agli utenti di sesso femminile, l’altro di libero accesso, anche se gli uomini qui sono in maggioranza. Si intende che le donne hanno un ambiente inaccessibile ai maschi, ma se preferiscono possono viaggiare nello spazio comune.
Raggiungiamo il bazar, molto esteso e molto meno caratteristico di altri, più antichi e tradizionali. Si è talmente espanso da occupare anche le vie tra un isolato e l’altro, ricoperte con soffitti di ferro e vetro, ma senza la grazia manufatta dei bazar di Kerman o Kashan, senza l’improvvisa vertigine di vasti spazi che si aprono nel dedalo di botteghe. È difficile orizzontarsi tra le vie di negozi tutti uguali. Mi colpiscono i rivenditori di marchi d’abbigliamento artefatti: non gli indumenti, ma semplicemente le etichette in tessuto, cuoio, stoffa. Alcune botteghe orafe o gioiellerie sono chiuse e blindate, le vetrine scintillano di valori.
Torniamo all’aperto in piazza Quindici Martiri, tra le bancarelle di propaganda per le imminenti elezioni politiche. Si voterà l’ultimo giorno prima della nostra partenza.
Ci stupisce che la hall di accesso al grande complesso del Golestān sia stranamente semideserta. Un vasto giardino ben curato è la via di transito per diversi palazzi costruiti nella seconda metà dell’Ottocento a imitazione dell’edilizia europea. Molti edifici periferici sono stati demoliti dalla dinastia Pahlavi, e ancora adesso sopra i tetti del Golestān svettano tetri palazzi moderni simili a scatole di uffici. L’Ivan-e Takht-e Marmar, veranda del trono di marmo, aperta su un lato verso il giardino e protetta da alte tende, è una sala udienze con un trono di alabastro, una sorta di immensa nicchia in una parete di maiolica blu e gialla; all’angolo dell’edificio, il Khalvat-e Karim Khani è la parte residua del palazzo del grande Karim Khan Zand, tra i più amati sovrani persiani. Visitiamo un’interessante collezione di pittura figurativa dell’epoca cagiara, con scene di vita quotidiana dell’Ottocento.
Poco oltre c’è l’ingresso della spettacolare Talar-e Ayaheh, la sala degli specchi, finalmente riaperta al pubblico dopo trent’anni: era qui il Trono del pavone, straordinario gioiello di artigianato prezioso ora nei sotterranei della Banca nazionale. Qui fu incoronato l’ultimo shah, Reza Pahlevi. È una festa di luce riflessa in una quantità incommensurabile di specchi di tutte le dimensioni che ricoprono quasi interamente le pareti. Seguiamo un lungo muro perimetrale decorato con fantastiche scene in mosaico di ceramica colorata fino allo Shams al Emarat, il palazzo del sole, con pareti di specchi che si alternano a altre di mattonelle. Al piano terra, una sala di specchi si affaccia sulla veranda tramite finestre di vetri blu e rossi, che imitano file di bifore e trifore. Una ragazza in divisa ufficiale (hijab blu scuro che copre collo, spalle e capelli) scrive qualcosa su un quadernetto. Chiedo il permesso di fotografarla perché ha viso molto interessante, molto bello: sopracciglia ritoccate, rossetto, la linea dei capelli appena accennata sotto l’orlo scuro del velo; dopo una breve esitazione risponde di sì con il capo.
Riceverò pochissimi rifiuti durante questo viaggio, sembra sia un onore che uno straniero prenda l’iniziativa di fotografare un iraniano.
Quattro torri del vento (badgir) sorgono nell’edificio all’angolo; al primo piano c’è una veranda affacciata sul giardino, due ragazze salutano da sotto le volte stuccate in bianco e blu. Mi domando se si tratti davvero di una chaikhanè, una sala da tè, dal momento che una delle due sfoglia un libro con mani ricoperte da guanti di lattice. Poco più a nord il curatissimo Pak-e Shahr è il primo giardino persiano che visitiamo, ricco di fiori e acqua, con animali dentro vaste uccelliere. Una signora si aggrappa con le dita alla recinzione per osservare i pavoni, ma nell’obiettivo della macchina fotografica è lei a sembrare in gabbia. Ci fermiamo per una sosta in un carretto ambulante che vende succhi di frutta, e scopriamo il gusto carota+melone. L’aria è pesantemente inquinata a causa del traffico intenso. Proseguiamo fino al famoso Museo nazionale dei gioielli, nel caveau della banca nazionale, che raccoglie il ricchissimo tesoro di sovrani safavidi, tra cui il trono del pavone, del Settecento, tempestato da 26.733 gemme, e il Darya-ye Nur, mare di luce, 182 carati.
La nostra ospite ci accompagna in una galleria di tappeti a nord di piazza Ferdosi, sviluppata su tre piani, dove i tehraniani vengono a acquistare senza dover troppo contattare. Rispetto a altri mercati dell’Asia, siamo stupiti di non essere invitati e sollecitati dai bazari. Vediamo prodotti assolutamente meravigliosi, da togliere il fiato. Un negoziante accovacciato su un tappeto lo sfrega con una pietra pomice per levare il materiale superfluo, il tessuto sembra riprendere il suo naturale splendore serico.
La sera al ristorante Gilaneh, specialità della provincia di Gilan, gustiamo per la prima volta il dough, bevanda di cui finora ho solo letto: yogurt bianco allungato con acqua e ghiaccio, leggermente salato. Favoloso, specialmente per accompagnare piatti di carne. A Isfahan troveremo una versione molto più acida che non ci soddisferà. Assaggio per la prima volta il chelo fesenjun, il pollo in salsa di mandorle e melograno, il piatto migliore della cucina farsi.
Dough e chelo fesenjun saranno la colonna sonora alimentare del nostro viaggio.
Mi hai fatto venire l’acquolina in bocca a leggere di dough e chelo fesenjun
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Ah il dough posso fartelo, anche oggi l’ho bevuto fatto dalle mie manine, ma il pollo al melograno è un’altra cosa…
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Che bel racconto di viaggio 🙂 Mi piacerebbe vedere la foto della signora in divisa, anche se ho già in mente un volto, grazie alle tue parole.
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