Metafisica torinese: «La donna della domenica» di Fruttero & Lucentini

torino-02Chiunque si proponga di scrivere un giallo ambientato a Torino, non può evitare di inciampare in Fruttero & Lucentini. Nel 1972 il loro La donna della domenica contribuisce a sdoganare la letteratura di genere, in un’Italia viziata dal pregiudizio verso la narrativa di consumo. Oggi diamo per scontato che gli autori italiani di giallo e di noir compaiano sugli stessi scaffali dei loro colleghi statunitensi o francesi, che diventino best-sellers, contesi fra cataloghi di diversi editori, e considerati dalla critica senza pregiudizio di genere: ma nel ’72 non c’era ancora stato lo straordinario successo internazionale di Umberto Eco e Il nome della rosa, non c’era stato Camilleri né l’onda d’urto dei giallisti svedesi scatenata dallo tsunami di Uomini che odiano le donne.

In quegli anni erano in pochi a credere che il mystery, il noir e la fantascienza fossero generi per gli autori italiani; non ci credevano gli editori, non ci credeva la critica e tanto meno il pubblico: solo qualche fan capiva che non può esistere qualcosa come una “specificità nazionale” nel genere letterario, e che è piuttosto questione culturale e di gusto estetico.

Nel 1961 Carlo Fruttero e Franco Lucentini avevano già fatto molto per sdoganare la fantascienza con la compilazione per Einaudi dell’antologia Il secondo libro della fantascienza, con racconti di Clarke, Sheckley, Bradbury, Heinlein e altri — ma era appunto la science-fiction americana, e se il marchio Einaudi conferiva la patente di dignità al genere, al tempo stesso ne negava l’italianità.

Ogni fan di fantascienza conosce la famigerata sentenza targata Fruttero & Lucentini che escluse per un quarto di secolo gli autori italiani da Urania, la collana Mondadori che i due curarono in coppia: «Un disco volante non può atterrare a Lucca». Oggi l’interpretazione prevalente è che i due curatori intendessero sollecitare gli scrittori italiani a non scegliere ambientazioni locali, ma per tutto il lungo tempo dell’ostracismo il significato ci appariva ben chiaro: gli italiani non sono capaci di scrivere fantascienza. Nei rari casi in cui vennero pubblicati, dovettero adottare pseudonimi anglofoni.

Eppure… eppure proprio Carlo Fruttero e Franco Lucentini sdoganano nella prima metà degli anni Settanta il giallo italiano, grazie all’eccezionale successo di La donna della domenica, romanzo dal meccanismo perfetto ambientato a Torino, con un punto di vista narrativo che già sconfina nel post-moderno.

Oggi è patrimonio comune il fatto che gli autori usino i meccanismi del genere mystery per dire altro, per raccontare un ambiente o denunciare una situazione sociale — quasi che la letteratura avesse bisogno di una giustificazione fuori da sé stessa, nella vita reale. Oppure è solo reminescenza ancestrale, un modo come un altro per scusarsi di scrivere letteratura bassa, un sottoprodotto della vergogna per vecchie censure morali. Di questo ancora non c’è traccia nel 1972, in La donna della domenica, grandioso meccanismo a orologeria narrativo —  benché il delitto principale, commesso nell’ambiente della buona borghesia che vacillava sotto l’urto della contestazione giovanile, sia portato a termine con un fallo di marmo! È l’Italia reduce dal boom industriale, impensierita dai ragazzi che agitano il libretto rosso, con l’ombra degli anni di piombo ancora dietro l’orizzonte.

Giustamente si è sottolineato come, a parte la straordinaria galleria di personaggi, il posto di protagonista d’onore del romanzo appartenga alla città stessa, con la sua immagine «di ordinata noia, come se la dinastia dei Savoia, costruendo le sue piazze geometriche e i suoi viali ripetitivi, avesse intuito la dinastia degli Agnelli e presagito, con la tipica clairvoyance dei poveri di spirito, la continuità delle catene di montaggio Fiat: la grande tradizione del prevedibile». Difficile credere che questa storia di delitto e di amore (potenziale) non abbia un double code, non sia un pretesto per raccontare Torino e gli anni Settanta:

Torino è una città pericolosamente mascherata. Non è affatto sobria e diffidente. Anzi. È la più pronta a captare il Male da ogni angolo della terra, e la sua funzione è di spargerlo in giro per il resto della penisola. Se uno ci fa caso, in ognuno dei flagelli che opprimono la patria ci trova sempre sotto la mano torinese. A cominciare dall’unità nazionale, e poi la prima automobile, i primi consigli di fabbrica, il cinema, la prima stazione radio, la televisione, gl’intellettuali di sinistra, i sociologi, il Libro Cuore, il cioccolatino di lusso, l’opposizione extraparlamentare, insomma tutto. È una città straniera che odia il resto d’Italia e manda i suoi messaggeri maledetti a diffonderci ogni più abominevole trovata. (Cap. VII. 12)

Il lavoro comincia per iniziativa del meno torinese dei due autori, il romano Franco Lucentini. Come spesso accade, lo straniero vede le cose con più lucidità. «Franco si accorgeva più e meglio di me della singolarità di quel luogo» confessa Fruttero in un’intervista «Ne sottolineava la stranezza, la diversità, l’aspetto metafisico. Scorgeva in ogni angolo della città un quadro di De Chirico. Lo faceva ridere l’accento della gente. Cominciammo così a costruire, nei nostri discorsi, una piccola catena di aneddoti o bozzetti torinesi, legati fra loro da una donna, in cui vedevamo un esemplare dell’alta borghesia cittadina.» Ovviamente, la donna diventerà Anna Carla Dosio. «Il nostro punto di partenza era dunque questa signora torinese, mondana, più intelligente e assai più spiritosa della media. Occorreva, per inserirla in un romanzo, costruirle attorno un mistero.»

Prima di diventare un giallo torinese, l’idea nasce come “dramma di stampo shakespeariano”, probabilmente con intento ironico, dato il titolo sarcastico-pretenzioso La tragedia di Vercelli, con due protagonisti perseguitati da iniziative culturali in cui incappavano ovunque andassero. Poi si trasforma in una serie di storie torinesi, e viene naturale scegliere un commissario “straniero”, siciliano, perché veda meglio le cose dalla prospettiva della distanza — lo stesso vantaggio di Lucentini su Fruttero.

Non ci sono servizi segreti deviati né tantomeno serial killer. Tutto inizia con l’assassinio di uno spregevole trafficone, un architetto mantenuto dalla sorella impiegata. Le testimonianze portano immediatamente a Anna Carla Dosio e al suo amico Massimo Campi, a causa di un testo nel quale i due esprimono l’intenzione di liberarsi della vittima. La narrazione procede lungo dieci capitoli con una rigida scansione temporale, da martedì a domenica di un giugno imprecisato. Il meccanismo giallo è doppio: il lettore è invitato a seguire la caccia all’assassino, che nel magistrale capitolo ambientato sabato mattina al mercato del Balùn colpisce una seconda volta, ma anche a godersi il meccanismo di soluzione del riferimenti contenuti nei dialoghi tra personaggi, fin dall’inizio estremamente reticenti nei confronti del lettore. Questi riferimenti vengono rivelati a mano a mano che si procede nella storia, quasi che la funzione del commissario Francesco Santamaria sia non solo quella di assicurare l’assassino alla giustizia di Stato, ma anche trovarsi nella scena giusta e al momento giusto per soddisfare la curiosità del lettore, per annodare tutti i fili spezzati dei dialoghi e delle azioni. E se il meccanismo giallo è potente e originale, bisogna dire che la struttura dell’intreccio narrativo è assolutamente impeccabile, una grande pagina di letteratura postmoderna.

Tutto allora cominciò a muoversi molto in fretta, o perlomeno fu questa la sensazione che, delle ultime ore di quel pomeriggio di giugno, il commissario avrebbe poi sempre conservato: di un gran correre, di un gran chiudersi e aprirsi di sportelli d’auto, di porte e portoni, di armadi, di cassetti, di ascensori; e di un confuso coro di telefoni, citofoni, clacson, freni, gomme, e di parole, sue e altrui, fitte, pressanti, e subito disperse come pioggia sull’acqua, vane; e di lui non contento, non convinto, costretto all’urgenza, sospinto, fra soprassalti, elisioni, rigurgiti, verso il buio, non verso la luce, sempre più stanco e appesantito e infine rauco, tutta la sua concentrata fatica messa in dubbio, smentita, negata dallo scorcio di un palazzo illanguidito nella sera, da una piazza in pigra levitazione, da un viale inafferrabile nel pulviscolo, dalla morbidezza progressiva di tutta una città che il sole abbandonava via via al suo antico, struggente vizio crepuscolare. (cap. IX. 19)

Foto © Franco Ricciardiello

Fruttero & Lucentini, La donna della domenica, Adelphi, 1994, 546 pagine, ISBN 978-8845911019

 

 

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