Lana Del Rey considerata come un personaggio di J.G. Ballard

Copertina della prima edizione originale (particolare)

«Nessuno viene più a Vermilion Sands, e immagino che pochi ne abbiano sentito parlare. Ma dieci anni or sono, quando Fay e io andammo ad abitare al numero 99 di Stellavista, poco prima che il nostro matrimonio naufragasse, la colonia veniva ancora ricordata come ex luogo di villeggiatura di stelle del cinema, ereditiere criminali ed eccentrici cosmopoliti in quegli anni favolosi prima della Vacanza. Certo, le astruse ville e i palazzi finti erano in gran parte vuoti, gli immensi giardini invasi dalle erbacce e prosciugate da tempo le piscine su due livelli, e quel luogo stava degenerando come un luna park abbandonato, ma dalla bizzarra stravaganza che ancora vi aleggiava era facile capire che i giganti se ne erano andati da poco.»

James G. Ballard, I segreti di Vermilion Sands (Vermilions Sands, 1971)

Vermilion Sands è una immaginaria località di riviera che si trova da qualche parte “tra l’Arizona e la spiaggia di Ipanema”, come scrive James G. Ballard stesso nella prefazione all’edizione in volume 1971, “ma in questi ultimi anni mi sono compiaciuto di vederla spuntare un po’ dovunque, e soprattutto in qualche settore della città lineare, lunga cinquemila chilometri, che si stende da Gibilterra alla spiaggia di Glyfada lungo le coste settentrionali del Mediterraneo.” Vermilion Sands è la località balneare ideale di un’umanità futura che Ballard immagina sdraiata al sole, una società del tempo libero perché affrancata dalla schiavitù del lavoro imposta della modernità. Il narratore / punto di vista è un uomo, di solito attirato a Vermilion Sands dal milieu artistico; la protagonista invece è sempre una donna, una figura femminile dalla psicologia inaccessibile (riflesso narrativo della peculiare misoginia dell’autore, che ama le donne come se fossero esseri alieni). Le donne di Vermilion Sands sono personalità al limite del borderline, divise tra originalità artistica e schizofrenia. Ciascun plot è costruito intorno alla perturbazione che la venuta di questa donna, in genere famosa e ammirata, genera nello statu quo del PdV, fino a una soluzione raggiunta durante un climax drammatico che provoca l’allontanamento del perturbante, cioè la figura femminile.

Questa pagina in versione inglese

Ho scelto di illustrare le brevi citazioni che seguono con foto della cantautrice e poetessa Lana Del Rey,al secolo Elizabeth Grant[1], che con il suo allure a cavallo tra anni Cinquanta e postmoderno è forse la più adatta a impersonare le donne aliene di Ballard.

JANE CIRACYLIDES

da Prima Belladonna, (Prima Belladonna, 1956)

Conobbi Jane Ciracylides durante la Vacanza, la crisi mondiale di noia, apatia e canicola estiva che tanto felicemente ci coinvolse tutti per dieci indimenticabili anni, e immagino che ciò possa avere avuto molto a che fare con quanto accadde fra noi. Non credo proprio che oggi riuscirei a rendermi altrettanto ridicolo, ma può anche darsi che sia stata tutta colpa di Jane.
Qualunque altra cosa ne dicessero, nessuno poteva negare che si trattasse di una splendida ragazza, sebbene il suo bagaglio genetico fosse un tantino promiscuo.

Volgendo lo sguardo vidi entrare la donna dalla pelle dorata.
«Buongiorno» dissi. «Devono trovarla di loro gusto.»
Rise amabilmente. «Salve. Facevano i capricci?»
Sotto la nera veste da spiaggia l’epidermide le sfavillava di un oro più morbido e tenue, e ad avvincermi erano i suoi occhi. Li vedevo appena sotto il cappello a larghe tese. Zampe d’insetto tremolavano delicatamente attorno a due punti di luce violetta.
Si avvicinò a una schiera di eterogenee felci e rimase lì a guardarle. Le felci si protesero verso di lei e gorgheggiarono appassionatamente in chiave di soprano con limpide voci flautate.
«Non sono deliziose?» fece la donna carezzando delicatamente le fronde. «Hanno tanto bisogno di affetto.»
Aveva una voce dal registro basso, un sussurrante scorrere di sabbia fresca con una cadenza che lo rendeva musicale.
«Sono appena giunta a Vermilion Sands» disse «e il mio appartamento mi sembra terribilmente silenzioso. Forse se avessi un fiore, ne basterebbe uno, non mi sentirei tanto sola.»
Non riuscivo a distogliere gli occhi da lei.

AURORA DAY

da Studio 5 (Studio 5, The Stars, 1961)

Durante l’estate ogni sera a Vermilion Sands le folli poesie della mia bella vicina vagavano attraverso il deserto sino a me da “Studio 5, Le Stelle”, frante matasse di nastro colorato che si sdipanavano nella sabbia come fili d’una smembrata ragnatela. Tutta la notte svolazzavano attorno ai contrafforti sotto la terrazza intrecciandosi alle ringhiere della balconata, e al mattino, prima che le togliessi di mezzo, penzolavano sulla facciata meridionale della villa come una vivida buganvillea rosso ciliegia.
Una volta, dopo essermi trattenuto tre giorni a Red Beach, al mio ritorno trovai l’intera terrazza ricolma d’una enorme nube di veline colorate che irruppero dalle portefinestre non appena le aprii e si spinsero in soggiorno, sparpagliandosi su mobili e scaffali come i viticci delicati d’una immensa ma garbata pianta. Per giorni interi, dopo, trovai frammenti di poesie dappertutto.

Chi fosse Aurora Day, ora me lo domando spesso. Attraversando velocemente il placido cielo fuori stagione come una cometa estiva, pare abbia assunto un ruolo diverso per ciascuno di noi della comunità lungo Le Stelle. Per me, all’inizio, fu una magnifica nevrotica travestita da femme fatale, ma Raymond Mayo vide in lei una delle madonne esplosive di Salvador Dalì, un enigma tranquillamente capace di scampare all’apocalisse. Per Tony Sapphire e il resto dei suoi spasimanti balneari fu la reincarnazione di Astarte, una figlia del tempo dagli occhi di diamante vecchia di trenta secoli.
Ricordo distintamente come trovai la prima delle sue poesie. Dopo cena una sera riposavo in terrazza – non facevo quasi altro a Vermilion Sands – quando notai sulla sabbia una stella filante proprio sotto la ringhiera. A pochi metri ce n’erano parecchie altre, e per mezz’ora le osservai farsi sospingere dal vento lievemente fra le dune.

Si trovava a un centinaio di metri dalla scogliera più vicina, una lunga galleria capovolta di argini sinuosi e grotte sospese, quando qualcosa nel percorso rettilineo e nell’andatura regolare e immutabile mi indusse a chiedermi se non potesse in realtà essere sonnambula.
Osservando le mante che le volteggiavano sul capo ebbi una breve esitazione, poi scavalcai la ringhiera e corsi sulla sabbia verso di lei.
Le scaglie di quarzo mi pungevano i piedi nudi, ma riuscii a raggiungerla proprio mentre si avvicinava al ciglio della scogliera. Rallentai il passo affiancandola e le toccai il gomito.
Meno di un metro sopra la mia testa le mante sibilavano e vorticavano nel buio. La strana luminosità che avevo creduto provenisse dalla Luna sembrava invece emanare dalla veste bianca di lei.
La mia vicina non era sonnambula come avevo pensato, bensì profondamente immersa in una fantasticheria o in un sogno. Occhi neri dallo sguardo opaco fissi innanzi, volto sottile dalla pelle candida immoto e inespressivo come una maschera di marmo. Si volse a guardarmi senza vedermi, facendomi con una mano cenno di andarmene. All’improvviso si fermò e chinò gli occhi a terra, acquisendo repentinamente coscienza di sé e della sua passeggiata notturna. Gli occhi le si schiarirono e vide la voragine della scogliera di sabbia. Indietreggiò d’istinto, mentre la luce irradiata dall’abito s’intensificava per lo sgomento.
Sopra di noi le mante s’innalzarono vertiginosamente, descrivendo archi più ampi adesso che lei era sveglia.
«Spiacente di averla spaventata» mi scusai. «Ma si stava avvicinando troppo alla scogliera.»
Si ritrasse da me inarcando le lunghe sopracciglia nere.
«Come?» balbettò incerta. «Lei chi è?»

LUNORA GOALEN

da Le statue canore (The singing statues, 1962)

Ieri sera di nuovo, mentre l’aria del crepuscolo cominciava a percorrere il deserto provenendo da Laguna Ponente, ho udito frammenti di musica trasportati dalle onde termiche, remoti e fuggevoli, echi del canto d’amore di Lunora Goalen. Camminando sulla sabbia di rame verso le scogliere ove crescono le sonisculture, ho vagato nelle tenebre fra i giardini di metallo, cercando la voce di Lunora. Nessuno ormai cura più le sculture, e quasi tutte sono andate in rovina, ma d’impulso ho tagliato una spirale e l’ho portata alla mia villa, piantandola nell’aiuola di quarzo sotto la terrazza. Ha cantato per me tutta la notte, parlandomi di Lunora e della strana musica che suonava a se stessa…

Naturalmente sapevo già tutto di Lunora Goalen. Migliaia di articoli sui rotocalchi avevano catalogato ad nauseam la sua strana bellezza imperfetta, le sue crisi di malinconia e il suo ossessivo vagabondare per le capitali del mondo. La sua breve carriera di attrice cinematografica aveva stentato, all’inizio, non tanto a causa del suo talento, modesto ma sempre interessante, quanto per una semplice mancanza di fotogenia. Per un macabro scherzo del destino, dopo che un grave incidente d’auto le aveva seriamente danneggiato il volto, aveva ottenuto un successo straordinario. Quel profilo stranamente deturpato e quello sguardo nervoso avevano riempito i cinema da Parigi a Pernambuco. Incapace di riconoscere i meriti dei suoi chirurghi plastici, Lunora aveva improvvisamente abbandonato la carriera per divenire un’eminente protettrice delle belle arti. Come la Garbo negli anni Quaranta e Cinquanta, svolazzava inafferrabile attraverso le cronache rosa e mondane in una interminabile fuga da se stessa.
Il suo viso era eloquente. Quando si tolse gli occhiali da sole vidi l’ombra curiosa che l’attraversava, intorpidendo la liscia epidermide bianca. Sugli occhi azzurro ardesia gravava una patina vitrea, un’inquieta tensione assediava la bocca. Ebbi nel complesso una vaga sensazione di qualcosa di malsano, l’impressione di una Venere con un vizio segreto.

GLORIA TREMAYNE

da I mille sogni di Stellavista (The thousand dreams of Stellavista, 1962)

Per tre settimane, durante il processo di dieci anni prima, mi ero trovato seduto a pochi passi da Gloria Tremayne, e come chiunque altro presente in quell’affollata aula di tribunale non avrei mai dimenticato il suo volto simile a una maschera, gli occhi calmi che scrutavano ogni testimone mentre deponeva – l’autista, il medico legale, i vicini che avevano udito gli spari – come un magnifico ragno chiamato in giudizio dalle sue vittime, senza mai mostrare un’emozione, una reazione. Mentre quelli disfacevano la sua tela filo per filo lei se ne stava impassibile al centro senza dare a Hammett alcun incoraggiamento, paga di aderire all’immagine di se stessa (“Il volto di ghiaccio”) proiettata in tutto il mondo da quindici anni a quella parte.
Forse, alla fine, fu proprio questo a salvarla. La giuria fu incapace di far abbassare lo sguardo a quella sfinge. A dire il vero, giunto all’ultima settimana non nutrivo più alcun interesse nel processo. Mentre assistevo Hammett nell’arringa, aprendo e chiudendo la sua valigetta di legno rosso (segno distintivo di Hammett ed eccellente sistema per distrarre la giuria) ogni volta che mi faceva cenno, la mia attenzione era completamente concentrata su Gloria Tremayne, nel tentativo di trovare in quella maschera una crepa attraverso cui cogliere un barlume della sua personalità. Probabilmente ero solo uno dei tanti ingenui giovanotti innamorati di un mito confezionato da uno stuolo di agenti pubblici tari, ma per me quella sensazione era autentica, e quando l’avevano assolta il mondo aveva ripreso a girare.
Non importava nulla che la giustizia fosse stata beffata. Hammett, chissà perché, la riteneva innocente. Come molti legali di successo aveva basato la propria carriera sul principio di incriminare i colpevoli e difendere gli innocenti; in tal modo era certo di ottenere una percentuale di successi sufficientemente alta da garantirgli fama di avvocato brillante e imbattibile. Quando assunse la difesa di Gloria Tremayne molti colleghi ritennero che si fosse lasciato indurre a tradire i suoi principi da un generoso compenso offerto dalla casa cinematografica dell’imputata, ma in realtà si era offerto volontariamente di patrocinare la causa. Forse vittima, anche lui, di una segreta infatuazione.
Naturalmente non l’avevo più incontrata. Non appena messo felicemente in circolazione il suo ultimo film la casa cinematografica l’aveva scaricata. Dopo era tornata brevemente a far parlare di sé per una questione di droga in seguito a un incidente d’auto, poi era scomparsa nel limbo delle cliniche per alcolizzati e degli ospedali psichiatrici.
Alla sua morte, cinque anni dopo, pochi giornali le avevano dedicato più di uno scarno trafiletto.

EMERELDA GARLAND

da Il gioco degli schermi (The screen game, 1963)

Avevo visto per la prima volta Emerelda Garland l’estate precedente, subito dopo che la troupe cinematografica era arrivata a Ciraquito ed era stata invitata da Charles Van Stratten a usare Lagoon West per le riprese. La compagnia, che si chiamava Orpheus Productions, Inc., ed era conosciuta dagli aficionados delle terrazze dei caffè come Raymond Mayo e Tony Sapphire come ‘il riflusso dell’ultima ondata’, era una di quelle unità sperimentali i cui sforzi sono destinati a un’unica proiezione al Festival di Cannes, e che puntano, per i finanziamenti, sulla generosità dei molti dilettanti milionari che apparentemente non resistono al desiderio di calarsi nel ruolo di Lorenzo de’ Medici.

Più sopra, nascosta all’ombra della buganvillea sul suo balcone, una figura alta, dal viso bianco e vestita d’azzurro, mi stava guardando.
Scavalcai la balaustra, facendo attenzione a evitare gli insetti immobili. Con l’ala occidentale della villa a separarmi dal resto della terrazza, ero entrato in una nuova zona, dove i pilastri ossei della loggia, la superficie scintillante del lago di sabbia e gli insetti gemmati mi racchiusero improvvisamente in un limbo deserto.
Per qualche istante restai immobile sotto il balcone dal quale erano emersi gli insetti, sempre spiato dalla strana figura sibillina che presiedeva al suo mondo privato. Sentivo di aver attraversato i confini di un sogno per ritrovarmi in un paesaggio della psiche proiettato sulle terrazze inondate di sole intorno a me.
Ma prima che potessi rivolgerle la parola, nella loggia risuonarono dei passi leggeri. Un uomo sulla cinquantina con i capelli scuri e un viso ottuso e privo di espressione era sbucato tra le colonne, con un vestito nero abbottonato fino al collo. Mi rivolse uno sguardo impassibile, da impresario di pompe funebri.
Sul balcone le persiane si richiusero, e gli insetti gemmati rientrarono dalla loro escursione. Quando mi circondarono, le loro corone brillanti splendevano con la durezza del diamante.

LEONORA CHANEL

da I nubiscultori di Coral D (The could-sculptors of Coral D, 1967)

Durante l’estate gli scultori di nuvole arrivavano da Vermilion Sands e veleggiavano con i loro alianti dipinti sopra le torri di corallo che sorgevano come pagode bianche accanto alla statale per Lagoon West. La più alta di quelle torri era Coral D, dove le correnti ascensionali sopra le scogliere di sabbia erano sormontate da masse di cumulonembi a forma di cigno. Sollevati dalle correnti sopra la corona di Coral D, scolpivamo cavallucci marini e unicorni, i ritratti di presidenti e di star del cinema, lucertole e uccelli esotici. Mentre la folla assisteva allo spettacolo dalle auto, una pioggia fresca cadeva dalle nuvole scolpite che veleggiavano sulla massa piatta del deserto, dirette verso il sole, e bagnava i tettucci impolverati.
Di tutte le sculture di nuvole alle quali lavorammo, le più strane furono i ritratti di Leonora Chanel. Quando ripenso a quel pomeriggio della scorsa estate in cui arrivò per la prima volta sulla sua limousine bianca per guardare gli scultori di nuvole di Coral D, mi rendo conto che non avevamo compreso del tutto quanto quella donna bellissima e folle avesse preso sul serio le sculture che fluttuavano sopra la sua testa nel cielo terso. In seguito i suoi ritratti, scolpiti nella tempesta, avrebbero pianto la loro pioggia battente sui corpi dei loro stessi autori.

Una Rolls-Royce bianca, guidata da uno chauffeur in livrea gallonata color crema, era uscita dalla statale. Attraverso il vetro interno oscurato, una donna giovane con un completo da segretaria parlava con l’autista. Accanto a lei, con una mano guantata ancora poggiata sulla maniglia del finestrino, una donna con i capelli bianchi e gli occhi gemmati che brillavano guardava l’aliante che volava ancora in cerchio. Il suo viso forte ed elegante sembrava sigillato dentro i vetri scuri della limousine come la madonna enigmatica di una grotta marina.
Leonora Chanel scese dalla limousine e si incamminò nel deserto. La sua figura dai capelli bianchi con il soprabito di pelle di cobra vagava tra le dune. Le razze di sabbia si alzavano in volo intorno a lei, disturbate dai movimenti casuali di quel fantasma che girava nel pomeriggio torrido. Ignorando le loro punture sulle gambe, guardava il bestiario aereo che si dissolveva nel cielo e il teschio bianco ormai a quasi due chilometri di distanza, diretto verso Lagoon West, che aveva cominciato a espandersi coprendo l’orizzonte.

Quando la vidi per la prima volta mentre guardava gli scultori di nuvole di Coral D, avevo solo un’opinione generica su Leonora Chanel. Figlia di uno dei più importanti finanzieri del mondo, era un’ereditiera già per origini e lo era diventata doppiamente con la morte di suo marito, un timido aristocratico del principato di Monaco, il conte Louis Chanel. Le circostanze misteriose della sua morte a Cap Ferrat sulla riviera francese, ufficialmente presentata come suicidio, avevano portato Leonora sotto le luci della ribalta e in un turbine di pettegolezzi. Ne era sfuggita vagando senza posa per il mondo, dalla sua villa blindata a Tangeri a un palazzo alpino sulle nevi sopra Pontresina, e da lì a Palm Springs, Siviglia e Mykonos.
Durante quegli anni di esilio qualcosa del suo carattere era emerso dalle foto sulle riviste e sui giornali; in visita a un’organizzazione di beneficenza in Spagna con la duchessa di Alba, o seduta con Soraya e altri membri del jet set sulla terrazza della villa di Dalì a Port Lligat, con lo sguardo assorto sul mare color diamante della Costa Brava.
Inevitabilmente il suo ruolo da Greta Garbo sembrava estremamente calcolato, e regolarmente sminuito dal sospetto che avesse avuto una parte nella morte del marito. Il conte era stato un introverso playboy che pilotava il suo aereo fino ai siti archeologici del Peloponneso e aveva per amante una giovane e bella libanese che era anche una delle migliori interpreti al mondo delle sonate di Bach. Perché quell’uomo riservato e brillante dovesse essersi suicidato, non era mai stato spiegato. Quello che prometteva di essere un elemento importante per l’inchiesta del coroner, un ritratto a pastello di Leonora su cui il conte stava lavorando, era andato accidentalmente distrutto prima dell’udienza. Forse quel ritratto rivelava più cose sul carattere di Leonora di quante lei stessa fosse disposta a vederne.

HOPE CUNARD

da Sul mare di sabbia (Cry Hope! Cry Fury!, 1967)

In piedi, con una mano sul corrimano del cabinato e con gli oblò cerchiati d’ottone che formavano altrettanti aloni ai suoi piedi, c’era una donna alta, stretta di fianchi, i capelli di un biondo così chiaro che mi ricordò immediatamente la Morte-in-Vita del Vecchio Marinaio. I suoi occhi mi scrutavano come magnolie scure. Mossi dal vento, i suoi capelli, come l’argento antico, formavano una pianeta sacerdotale nell’aria.
Sospettando che quello strano veliero e il suo equipaggio potessero essere solo un’apparizione, alzai la bottiglia vuota di Martini, mostrandola alla donna. Lei mi guardò dall’alto in basso con gli occhi colmi di disappunto. Due membri dell’equipaggio corsero verso di me. Mentre mi toglievano da sopra le gambe il corpo della razza di sabbia li guardai in faccia. Benché rasati di fresco a abbronzati, somigliavano a delle maschere.

Fu così che venni soccorso da Hope Cunard. Riposando nella cabina sotto coperta, mentre un membro dell’equipaggio mi bendava i piedi, vedevo la sua figura pallida attraverso il tetto trasparente. Il suo viso preoccupato scrutava il deserto come se cercasse una preda molto più importante di me.
Entrò in cabina solo mezz’ora dopo. Si sedette ai miei piedi, toccando le bende bianche, incuriosita. «Robert Melville… lei è un poeta? Quando l’abbiamo trovata stava parlando del Vecchio Marinaio.»
Feci un gesto vago. «Era una battuta di spirito. Su me stesso.» Non potevo certo dire a quella donna distaccata ma bellissima che l’avevo vista come l’incarnazione della strega da incubo di Coleridge, e aggiunsi: «Ho ucciso una razza di sabbia che volava intorno al mio yacht.»
La donna giocava con i ciondoli di giada che formavano pozze di smeraldo nelle pieghe della sua veste bianca. I suoi occhi si stagliavano al centro del volto pensoso come uccelli agitati.

LORRAINE DREXEL

da La vendetta della scultrice (Venus Smile, 1967)

Il terzo artista era una donna: Lorraine Drexel. Quell’elegante e intransigente creatura dal cappello a ruota e gli occhi simili a nere orchidee era stata modella e amica intima di Giacometti e John Cage. Con indosso un azzurro abito in crespo di Cina adorno di serpenti di pizzo e altri emblemi art nouveau, sedeva dinanzi a noi quale Salomè sgattaiolata dal mondo di Aubrey Beardsley. I suoi occhi immensi ci scrutavano con tranquillità quasi ipnotica, come avesse scoperto proprio in quell’istante un qualche straordinario pregio in quei due garbati dilettanti della Commissione per le Belle Arti.
Stabilitasi a Vermilion Sands da soli tre mesi era reduce da Berlino, Calcutta e il New Arts Centre di Chicago. Sinora gran parte delle sue sculture erano state programmate per eseguire diversi inni tantrici e induisti, e ricordavo la sua breve storia d’amore con un menestrello di fama mondiale, poi deceduto in un incidente d’auto, che era stato un entusiastico cultore del sitar. Lì per lì, tuttavia, non avevamo pensato ai lamentosi mezzi semitoni di quell’infernale strumento, tanto molesti all’orecchio occidentale. Lei ci aveva mostrato un album delle sue sculture, interessanti strutture cromate che non sfiguravano affatto a confronto con la sequela d’illustrazioni sfornata dalle più recenti riviste d’arte. Entro mezz’ora avevamo stipulato un contratto.

RAINE CHANNING

da Addio al vento (Say goodbye to the wind, 1970)

A mezzanotte sentivo la musica venire dal nightclub abbandonato fra le dune di Lagoon West. Tutte le sere quella melodia consumata mi aveva svegliato mentre dormivo nella mia villa sulla spiaggia. Quando ripartì ancora una volta scesi dal balcone sulla sabbia calda e mi incamminai lungo la riva. Nell’oscurità i vagabondi erano in piedi sulla battigia, e ascoltavano la musica venire verso di loro sulle onde termiche. La mia torcia illuminò le bottiglie rotte e le siringhe ipodermiche ai loro piedi. Con gli abiti multicolori, attendevano nell’aria ferma come stanchi clown.
Il nightclub era rimasto deserto dall’estate precedente, e le sue pareti bianche erano state coperte dalle dune. Le lettere oscurate di una insegna al neon sovrastavano il bar all’aria aperta. La musica veniva da un registratore sul palcoscenico: era un foxtrot che non sentivo da anni. Una giovane donna con i capelli di corallo camminava tra i tavolini invasi dalla sabbia, canticchiando tra sé mentre assecondava con i gesti delle mani ingioiellate il ritmo di quell’antico tema musicale. Gli occhi rivolti verso il basso e il passo meditativo, quasi da bambina pensierosa, mi indussero a pensare che camminasse nel sonno, attratta verso quel nightclub abbandonato e spinta a lasciarsi alle spalle la villa lungo la spiaggia.

In realtà la ricordavo benissimo: una modella di fama internazionale, simbolo dell’eterna giovinezza, con il suo viso malinconico da monella ricreato attraverso una dozzina di interventi di chirurgia plastica. Raine Channing era un macabro relitto degli anni Settanta e del loro culto della giovinezza. Mentre, in passato, le attrici di cinema avevano fatto ricorso alla chirurgia plastica per tonificare le guance cadenti o per cancellare le rughe dell’età, nel caso di Raine Channing una giovane modella di poco più di vent’anni aveva sottomesso il suo viso allo scalpello e all’ago per recuperare lo splendore infantile di una ingenua adolescente. Era tornata in sala operatoria almeno una dozzina di volte, emergendone coperta di bende che venivano srotolate sotto le luci ad arco, rivelando una maschera di eterna adolescenza. Era stata lei stessa, a modo suo, a contribuire alla fine di quel culto stravagante. Erano ormai alcuni anni che si era ritirata dalla vita pubblica, e ricordavo di aver letto solo pochi mesi prima della morte del suo confidente e impresario, il brillante sarto che aveva disegnato i primi modelli biofabbricati: Gavin Kaiser.
Benché avesse ormai quasi trent’anni, Raine Channing conservava ancora il suo aspetto infantile, quello strano montaggio di volti adolescenziali. Il suo sguardo rispecchiava i suicidi di Carole Landis e Marilyn Monroe. Mentre parlava con Georges mi ricordai dove l’avevo vista: era la donna che danzava con il vagabondo nel nightclub deserto di Lagoon West.

Passammo in rassegna gli espositori. Di tanto in tanto si sporgeva per sfiorare uno dei tessuti con la sua mano bianca da bambina. Quando apriva il soprabito un gioiello sonoro, come una rosa di cristallo, emanava la sua musica in miniatura tra i suoi seni. Altri giocattoli, anch’essi sonori, si annodavano come criceti intorno ai polsi. Sembrava già nascosta in quel mondo di giochi come una bizzarra Venere bambina.
Ma cosa c’era in Raine Channing che mi colpiva tanto? Mentre Georges la aiutava a scegliere una gonna dai brillanti colori pastello e gli altri vestiti mormoravano sulle sedie tutto intorno a lei, mi venne in mente che Raine Channing somigliava a una Eva bambina in un Eden ‘moda, capace di animare tutto al semplice tocco. Poi la ricordai mentre danzava con il vagabondo nel nightclub deserto di Lagoon West.
Mentre il giovane chauffeur portava fuori i suoi acquisti dissi: «L’ho vista, ieri notte. Al nightclub sulla spiaggia.»
Per la prima volta mi guardò direttamente in faccia con i suoi occhi attenti e adulti sopra la maschera bianca da adolescente. «Abito lì vicino,» disse «in una delle case lungo il lago. C’era della musica e delle persone che ballavano.»

Testi tratti da J.G. BALLARD – I SEGRETI DI VERMILION SANDS Fanucci 1976

[1] Per una di quelle singolari coincidenze che rendono la vita degna di esser vissuta, un personaggio di nome Elizabeth Grant compare in “La gentilezza delle donne” (The kindness of women, 1991) di J.G. Ballard: «Le donne condizionarono i miei anni a Cambridge […], sopra tutte la dottoressa Elizabeth Grant. Durante il mio primo semestre all’università la vidi ogni giorno, e la conobbi più intimamente di qualsiasi altra donna in vita mia. Ma neppure la abbracciai mai.» Solo al termine del capitolo si svela il piccolo “mistero”: la dottoressa Elizabeth Grant ha donato post mortem il proprio cadavere alla facoltà di medicina in modo che gli studenti, tra i quali J.G. Ballard, possano fare pratica di anatomia.

 

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