Michelangelo e la Luna

Perché le arti hanno un ruolo così marginale nella fantascienza?

di FRANCO RICCIARDIELLO

Il presente post riporta il testo del mio intervento a Stranimondi 2019

“La maschera oscurata” di Lente Scura (Italia)

Da qualche tempo ho cominciato a interrogarmi sul rapporto tra la fantascienza e le arti, e sul perché in pochi si siano posti la stessa questione in passato, considerata la scarsità di interventi critici sull’argomento. Immagino che molti rimarranno stupiti, e sarebbero pronti a rispondere che c’è invece moltissimo materiale a disposizione, anche solo a digitare le due semplici parole in un motore di ricerca: Arte e Fantascienza, ed ecco pagine intere di link.

Io non mi riferisco però a quel vastissimo, sensazionale patrimonio di immagini che alimentano il nostro senso del meraviglioso, con il risultato che da una parte l’immaginario fantascientifico continua a lavorare nel nostro inconscio, e dall’altra parte chi la snobba per pregiudizio può continuare a ritenere che si tratti di un genere di “effetti speciali”. Tra l’altro, non pochi artisti italiani sono affermati a livello internazionale grazie alla qualità del loro lavoro, che nei paesi di lingua anglosassone non necessita naturalmente di traduzione.

No, mi riferisco proprio alla presenza di tematiche artistiche all’interno della letteratura di fantascienza, nella trama delle storie o nell’ambientazione.

Di cosa parla infatti la science-fiction? Di scienza, prima di tutto, e così deve essere: molto spesso l’ambientazione è futura — anzi tra le leve più potenti che spingono verso il genere c’è proprio la possibilità di creare un mondo lontano dal nostro presente. Logico quindi che l’immaginazione si concentri principalmente intorno alle tecnologie futuribili, per due ragioni:

  1. la SF ha una natura positivista, favorevole al progresso scientifico-tecnologico;
  2. la divergenza d’ambientazione rispetto al nostro presente, sia nel caso di “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, direbbe Leopardi, sia all’opposto nel caso di scenario distopico, si rivela un ottimo motore per la trama: è facile quindi che l’idea di una storia si sviluppi a partire da un novum scientifico-tecnologico le cui implicazioni la soddisfano completamente.

A questo punto, se cerco di tenere insieme queste riflessioni, ecco che le cose cominciano a stridere e a non combaciare, impedendomi di “costruire un universo che non cada in pezzi dopo due giorni”, come spiegava Philip K. Dick.

Su Jian, Beijing (Cina)

Non ho intenzione di dare una definizione del concetto di Arte, mi limito a considerare ciò che tutti intendiamo nell’accezione comune: pittura, scultura, musica, cinema, fotografia, architettura, eccetera. Salta agli occhi di chiunque che il consumo di Arte è enormemente cresciuto negli ultimi secoli, diffondendosi dalle classi alte verso il basso. Non che queste ultime siano mai state lontane dalle sollecitazioni estetiche (nei luoghi di culto per esempio, nell’edilizia pubblica, nella musica popolare, nel teatro didattico), ma è evidente che è soltanto con l’“epoca della sua riproducibilità tecnica” che la disponibilità del prodotto artistico è arrivata a portata di chiunque: grammofoni e giradischi, cinematografi, editoria tascabile, stampa in quadricromia, archiviazione digitale e ottica, rete web mettono a disposizione di tutti la distribuzione, la fruizione e spesso anche la produzione artistica — e ci sono tutti gli elementi per proiettare nel futuro questo trend di crescita capillare.

Ci si aspetterebbe quindi che nelle storie di fantascienza l’importanza dell’arte eguagli almeno quella della scienza: più tempo libero, più possibilità di dedicarsi all’espressione estetica. E invece gli esempi di opere impostate su una riflessione seria intorno all’arte del futuro si possono contare sulle dita — le dita di un essere umano, non quelle di un alieno.

Una semplice tassonomia vede, secondo me, tre casistiche a “crescente”rilevanza letteraria:

  1. vengono citate en passant opere d’arte, sullo sfondo, cioè come parte dell’ambientazione;
  2. opere d’arte hanno un ruolo rilevante, indispensabile nel plot;
  3. la fantascienza riflette sulla natura dell’arte indagando i suoi futuri sviluppi.

“Peonia” diToraji, Tokyo (Giappone)

L’arte sullo sfondo

Non è esattamente infrequente che un oggetto artistico appaia in qualche scena; si tratta in prevalenza di citazioni musicali. Meno comuni le opere pittoriche, mentre un caso a parte è rappresentato dall’architettura: nell’età d’oro della SF, che personalmente rimpiango solo per questa visione ottimistica di un progresso solare, senza ombra di distopia, immaginare la città di domani era un must. Sto parlando di quel futuro luminoso e un po’ asettico che William Gibson prende benevolmente in giro nel suo racconto Il continuum di Gernsback, il cui protagonista si trova inspiegabilmente proiettato in un mondo identico a quelli delle copertine di Amazing stories. Edifici slanciati verso il cielo, prospettive urbane che si allontanano verso l’orizzonte, zigurrat di abitazioni, vie di trasporto su più livelli, mezzi aerei, vetro, cemento, metallo… Ma in questo futuro, che fine ha fatto il cuore antico delle nostre città, in alcuni casi planimetricamente immutato fino dall’inizio dell’era volgare? Asfaltato sotto chilometri cubici di cemento armato?

L’immaginario di Amazing non sapeva dare un una risposta.

Gli oggetti d’arte citati en passant nell’ambientazione non hanno comunque molta fortuna: sembra che la creatività letteraria e l’immaginario estetico dei fantascientisti si esaurisca con le tecnologie futuribili, le teorie scientifiche e le loro ricadute sulla vita pratica. Pare anzi che uomini e donne del futuro abbiano in generale perso la memoria della grande arte del passato; quanti personaggi ascoltano Beethoven, Puccini o Čajkovskij? Non molti, benché alla musica classica vada in fondo meglio che a quella pop, forse perché ha già dimostrato di poter attraversare i secoli.

In generale, l’impressione è che secondo scrittori e scrittrici, l’influenza tecnologica produrrà qualcosa che ricorda la musica atonale del XX secolo — nel senso di “radicalmente inintelligibile”. Per esempio, nel romanzo Voci di terra lontana di Arthur Clarke (ispiratore anche un album di Mike Oldfield, The songs of distant Earth), che racconta la colonizzazione del pianeta Thalassa da parte di una nave terrestre piena di embrioni umani, si ipotizza che strumenti elettronici verranno incorporati nella musica mainstream nel futuro, è non apparirà così inascoltabile come oggi.

Ancora più rarefatta è l’arte delle culture aliene: anche civiltà incommensurabilmente più evolute della nostra non sembra possiedano il minimo stimolo artistico. Il caso più frequente è forse quello di testimonianze scultoree, generalmente di dimensioni ciclopiche, reliquie di civiltà estinte, o dell’architettura di civiltà aliene, spesso più funzionali che esteticamente gradevoli.

Con l’eccezione naturalmente tutti i casi che elencherò nel punto successivo, il futuro viene immaginato più interessato all’utilità che alla bellezza — il che è strano e contrario all’evoluzione della cultura e del tempo libero.

“Il peccato”, Wang Ling, Hong Kong (Cina)

L’arte protagonista della storia

Andando oltre le generalizzazioni, anche in questo panorama anomalo esistono eccezioni: ci sono esempi di storie nelle quali un’opera d’arte ha un ruolo rilevante nel plot. Mentre oggetti d’arte sono scarsamente rappresentati nell’ambientazione, è quantitativamente soddisfacente il numero di autori che recuperano qualche capolavoro del passato come parte essenziale della trama. Piuttosto conosciuto è per esempio Occhi non soltanto per vedere di Isaac Asimov (1965): in un futuro estremamente remoto, gli esseri umani non possiedono più un corpo fisico; i due protagonisti, entità di energia pura, passano il tempo libero in una serie di competizioni artistiche che comportano la manipolazione di forme di energia, finché per variare decidono di impegnarsi nella trasformazione di materia e capiscono quanta bellezza si andata perduta nell’evoluzione.

Partiamo comunque ancora dalla musica.

Philip Dick immagina in Scorrete lacrime, disse il poliziotto e in Divina invasione che la musica del compositore elisabettiano John Dowland (1563-1626) sia ancora apprezzata nel futuro. James Blish in Un’opera d’arte (1959) contrappone l’apparente risveglio di Richard Strauss all’aborrita musica hi-tech, ma alla fine si scoprirà che è un’imposizione mentale su un personaggio totalmente refrattario alla musica. Michael Moorcock in Un cantante morto (1976) immagina il ritorno alla vita di Jimi Hendrix, che tuttavia non ha alcuna intenzione di rimettersi a suonare e cantare. Ci sono poi Gregory Benford che si occupa di John Lennon e Michael Swanwick di Janis Joplin.

Molto conosciuto è il romanzo La nave che cantava (1969) di Anne McCaffrey, nel quale il cervello di una donna inserito nel sistema di controllo di un’astronave, pratica comune nel futuro immaginato, si appassiona alla musica lirica. La voce umana ha una notevole rilevanza anche in Il canto della vita di Orson Scott Card, con i suoi giovinetti che studiano nella Casa dei Canti per diventare “usignoli” del primo imperatore della galassia. Nel romanzo breve L’odissea del Superuomo (1953), orribile titolo italiano per The Rose di Charles Harness, si citano sia una deliziosa short story di Oscar Wilde, con l’usignolo che si trafigge il cuore su una spina in modo che il suo amico studente possa tingere di rosso una rosa da regalare all’amata, sia la musica per balletto che ne trasse Christopher Wheeldon, sia infine la Sinfonia n. 6 in si minore (“Patetica”) di Čajkovskij. La canzone viene usata in funzione di controllo sociale in due grandi anti-utopie: 1984 di George Orwell e Noi di Evgenij Zamjatin. Un caso particolare, infine, è La sinfonia delle tenebre (1970) di Dean Ryan Koontz, che tiene insieme musica e architettura, forse in ossequio al famoso aforisma di Goethe per cui “la musica è architettura liquida, l’architettura è musica congelata”: in uno scenario post-atomico, l’umanità ha imparato a costruire edifici costituiti dalla “solidificazione” del suono. Possiamo immaginare fin dalle prime pagine il finale, con la totale “evaporazione” di un’intera città.

Passiamo a qualche esempio tratto dalle arti figurative. Clifford Simak in Il pittore dello spazio (1977) Spaceman’s Van Gogh (1956), scrive di un pittore che sceglie di trascorrere gli ultimi anni di vita in esilio presso gli gnomi, razza aliena senziente il cui occhio non è in grado di percepire i colori; la loro cultura manca del concetto metaforico di rappresentazione, per cui non possono capire l’arte. Lo stesso autore in La grotta dei cervi danzanti (1980) racconta la scoperta archeologica di una pittura rupestre, opera di un essere immortale.

Theodore Sturgeon in L’ippogrifo e il cavalletto, riesce a tenere insieme la pittura e Ludovico Ariosto. Ian Watson (torneremo nell’ultima parte su questo autore britannico) in I giardini della delizia (1980), racconta di una missione terrestre inviata su un pianeta alieno appena scoperto, i cui paesaggi, fauna e flora che ricordano il trittico Il giardino delle delizie del pittore Hyeronimus Bosch: un mondo dall’apparenza paradisiaca che però nasconde la sua controparte infernale.

Un caso interessante è Screaming Dora (2019) di Laura Scaramozzino, perché si occupa della funzione dell’arte, invece di limitarsi a usare un dipinto come centro nevralgico della trama. La quindicenne protagonista di questo romanzo ambientato in un’utopia realizzata, anche se non molto simile al futuro che ci augureremmo, vede la propria vita sconvolta quando sogna un quadro, Study after Velázquez’ portrait of Pope Innocent X di Francis Bacon, che forse è un riferimento inconscio alla morte della madre. L’arte è comunque una chiave per comprendere il presente del racconto, a partire da quello che essa rivela del passato: e forse nella sua bellezza e verità può esserci una via di salvezza da questa utopia/distopia.

Lasciamo la pittura ma rimaniamo in Italia, con Lazarus di Alberto Cola, che immagina la “resurrezione” dello scrittore Mishima Yukio in una Tōkyō del futuro; un viaggio tra tradizione e modernità, ma anche nella vita, nella personalità e nelle opere di uno dei maggiori scrittori giapponesi.

D’altronde bisogna ammettere che la fantascienza italiana, diversamente dal solito, per quanto riguarda il rapporto con l’arte non è seconda a nessuna altra scuola nazionale; va dato atto che nella serie di antologie che Gian Filippo Pizzo cura insieme a altri esperti per diverse case editrici indipendenti (ma anche per Mondadori), non una, ma addirittura due raccolte tematiche sono dedicate all’arte: Continuum Hopper (2016), compilata insieme a Luca Ortino e Roberto Chiavini, dove ogni autore ha scritto un racconto intorno a un’opera d’arte figurativa, in generale pittura, e Le variazioni Gernsback (2015), compilata con Walter Catalano, parzialmente ripresa con una scaletta diversa su Urania nel 2017, i cui racconti di vari autori sono ispirati alla musica. Non sono a conoscenza di analoghe iniziative editoriali negli Usa, in Gran Bretagna, Francia o altri paesi dove la fantascienza può vantare una solida tradizione editoriale.

Un altro caso particolare, quasi unico, è infine Strani occhi (1995) di Connie Willis, che ruota nientemeno che intorno al cinema. In un futuro nel quale gli attori in carne e ossa sono completamente sostituiti da proiezioni digitali, un’aspirante ballerina, per forza di cose disoccupata, compare improvvisamente in classici film musical del passato, lasciando di stucco il protagonista, un tecnico che lavora per la censura, levando dalle vecchie pellicole riferimenti a alcol, fumo e droghe. L’intera storia del cinema commerciale del Novecento viene raccontata in questo piccolo gioiello.

“Il tempio di Rangda”, Mauro Cerati, Kuala Lumpur (Malesia)

Quale ruolo per l’arte del futuro?

Durante le ricerche per questo lavoro, ho trovato una sola opera di fiction che affronti con maturità, in via sistematica e con notevoli risultati narrativi, la questione dell’arte nel futuro; ma prima voglio raccontare del racconto che dà il titolo al mio intervento, La Luna e Michelangelo di Ian Watson. Potrebbe essere comunque significativo un fatto su cui invito a riflettere: sia il testo di Watson che il successivo, l’ultimo di cui parlerò, sono scritti da autori britannici, non americani.

Michelangelo è il nome di un’astronave a fusione umana che ha raggiunto un pianeta della stella Tau Ceti, che i suoi abitanti, soprannominati dai terrestri “lemuridi”, chiamano Roccia. Agli esploratori stellari salta subito all’occhio la abissale incongruenza tra un civiltà apatica e pastorale, che neppure conosce la scrittura, e la fantastica città in cui abitano: una gigantesca opera d’arte, un labirinto di roccia totalmente scolpito in forme ardite, migliaia e migliaia di statue che riproducono le sembianze dei lemuridi. Ogni casa, o meglio caverna, ogni angolo, ogni superficie di questa città di roccia è lavorata in una fantasmagoria di forme umanoidi. Ma come fanno i lemuridi, che possiedono solo rozzi utensili di legno, a lavorare con questa perizia la roccia dura? E perché da nessuna parte è rintracciabile una statua in lavorazione, solo sculture complete? Non risolve il mistero la scoperta delle cosiddette “catacombe”, una zona sotterranea non troppo vasta, che però non contiene sepolture: sembra anzi più adatta come rifugio per una parte, solo una parte dei lemuridi che abitano la città. Come può una civilizzazione basata su un’economia di sussistenza, senza neppure una lingua scritta, vivere la propria socialità sotto forma di un prodotto artistico di questo livello?

La spiegazione sarà traumatica e improvvisa la notte in cui la Michelangelo accende il suo potente motore a fusione per lasciare il pianeta: la luminosità sprigionata dalla reazione, accostata a una delle due lune, è tale da uguagliare la compresenza delle due lune, congiunzione che si verifica ogni 31 anni. Improvvisamente da micro forellini presenti su tutte le superfici della città si sprigiona un quantità di spore tale da riempire tutta l’aria: una parte dei lemuridi si rifugia nelle cosiddette “catacombe”, la maggioranza è costretta a respirare le spore, che introdotte nell’organismo lo alterano trasformando la materia organica in minerale. Pietrificati sopra strati di precedenti statue, i lemuridi accrescono la superficie “scolpita” della loro incredibile città con un processo simile all’accrescimento del corallo terrestre: al termine di un ciclo trentennale, solo una parte della popolazione sopravvive alla catastrofe e perpetua l’esistenza della razza. La meravigliosa arte scolpita che i terrestri non sapevano spiegarsi è in realtà del tutto involontaria, una “bellezza” naturale come un’aurora boreale, un paesaggio o un fenomeno atmosferico. È solo l’occhio di chi guarda che la trasforma in un oggetto estetico.

E adesso chiudiamo con l’unica opera che a mio avviso affronta in maniera matura e programmatica la questione dell’evoluzione futura dell’arte, una raccolta di racconti che risalgono, ahimè, già agli anni Cinquanta-Sessanta — dopo di allora, la riflessione sembra arenata.

Si tratta, come alcuni già avranno indovinato, di I segreti di Vermilion Sands di James G. Ballard.

È un peccato che questa raccolta di racconti sia, insieme a La gentilezza delle donne, l’unica pubblicazione in volume di Ballard trascurata dalle case editrici che da qualche tempo hanno ripreso la sua opera in collane non di genere. In Italia è apparsa solo una bella edizione nel lontano 1976, cinque anni dopo l’originale inglese, con prefazione di Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco. Vermilion Sands è uno dei cicli di racconti più compatti nella storia della fantascienza — ma forse il problema editoriale è proprio questo: si tratta di storie che se da un lato rispettano i requisiti delle riviste di science-fiction degli anni Cinquanta e Sessanta (e di conseguenza appaiono decisamente spiazzanti per il lettore mainstream), dall’altro lato rispondono all’estetica ballardiana dell’inner space contrapposto all’avventura nello spazio esterno, per cui possono scontentare il nuovo pubblico di genere, ora che l’estetica della new wave che la ispirava è tramontata.

Un vero peccato, perché i nove racconti di Vermilion Sands sono storie di grande bellezza, il tentativo di creare un mito letterario intorno a questa città di un immaginario futuro, tutt’altro che distopico, nel quale le arti, da sempre figlie di un dio minore nella letteratura di fantascienza, hanno un’importanza fondamentale.

Vermilion Sands è una immaginaria località di riviera che si trova da qualche parte “tra l’Arizona e la spiaggia di Ipanema”, come scrive Ballard stesso nella prefazione all’edizione in volume 1971, “ma in questi ultimi anni mi sono compiaciuto di vederla spuntare un po’ dovunque, e soprattutto in qualche settore della città lineare, lunga cinquemila chilometri, che si stende da Gibilterra alla spiaggia di Glyfada lungo le coste settentrionali del Mediterraneo.” Vermilion Sands è la località balneare ideale di un’umanità futura che Ballard immagina sdraiata al sole, una società del tempo libero perché affrancata dalla schiavitù del lavoro imposta della modernità. È questa la ragione per cui le arti hanno tanta importanza nella trama dei racconti: e questa impostazione è coerente con il rapporto tempo libero/fruizione di arte.

Le storie sono pubblicate in originale in un arco di tempo che va dal 1956 (Prima Belladonna) al 1970 (Addio al vento), ma possiedono un nucleo estetico unitario molto compatto. La struttura dei singoli racconti si ripete all’interno di uno schema preciso: il narratore / punto di vista è un uomo, uno straniero di solito attirato a Vermilion Sands dal milieu artistico; la protagonista invece è sempre una donna, una figura femminile dalla psicologia inaccessibile (riflesso narrativo della peculiare misoginia dell’autore, che ama le donne come se fossero esseri alieni).

Le donne di Vermilion Sands sono personalità al limite del borderline, divise tra originalità artistica e schizofrenia. Ciascun plot è costruito intorno alla perturbazione che la venuta di questa donna, in genere famosa e ammirata, genera nello statu quo del PdV, fino a una soluzione raggiunta durante un climax drammatico che provoca l’allontanamento del perturbante, cioè la figura femminile.

Caso decisamente raro, se non unico, nella fantascienza, è  il richiamo in ogni racconto contemporaneamente a una diversa disciplina artistica e a una tecnologia futuribile collegata. Ecco un tentativo di schema per inquadrare i racconti, che sembrano progettati per non ripetere mai due volte lo stesso argomento: 

titolo Anno Protagonista Arte tecnologia
I nubiscultori di Coral D 1967 Leonora Chanel Scultura Manipolazione di nuvole
Prima Belladonna 1956 Jane Ciracylides Musica Choroflora
Il gioco degli schermi 1963 Emerelda Garland Cinema Impianto di gioielli nel corpo di insetti
Le statue canore 1962 Lunora Goalen Musica, canto Nuclei sonori
Sul mare di sabbia 1967 Hope Cunard Pittura Pigmenti fotosensibili
La vendetta della scultrice 1967 Lorraine Drexel Scultura Metallo “vivente”
Addio al vento 1970 Raine Channing Moda Biotessuto
Studio 5 1961 Aurora Day Letteratura Versistrascrittore
I mille sogni di Stellavista 1962 Gloria Tremayne Architettura Plastex psicotropico

In conclusione, sembra che immaginare la tecnologia e la società del futuro assorba tutta la creatività degli autori di fantascienza, perché nei loro “mondi lontanissimi” le arti sono sorelle minori della scienza: in questo, si distanzia da tutti gli altri generi della fiction. Se la SF vuole ottenere il riconoscimento letterario che le spetta, è il momento di comprendere che l’Arte avrà un posto essenziale nel mondo di domani.

“Spartacus”, Florian Aupetit, Madrid (Spagna)

BIBLIOGRAFIA delle opere citate
  • AA.VV., Continuum Hopper – Racconti fantastici sull’arte, a cura di Gian Filippo Pizzo, Luca Ortino e Roberto Chiavini, Edizioni Della Vigna, 2016
  • Isaac Asimov, Occhi non soltanto per vedere (Eyes do more than see, 1965) in Antologia personale, Mondadori 1971
  • James Ballard, I segreti di Vermilion Sands (Vermilion Sands, 1971) Fanucci 1976
  • James Blish, Un’opera d’arte (A work of art, 1959), in James Blish, Prigione senza sbarre, Fanucci 1977
  • Orson Scott Card, Il canto della vita (Songmaster, 1978), Fanucci 1993
  • Arthur C. Clarke, Voci di terra lontana (The songs of distant Earth, 1986), Rizzoli 1988
  • Alberto Cola, Lazarus, Mondadori 2009
  • Philip Dick, Scorrete lacrime, disse il poliziotto (Flow my tears, the policeman said, 1974), Ed. Nord 1976 (con il titolo “Episodio temporale”)
  • Philip Dick, Divina invasione (Divine invasion, 1981), Urania Mondadori 1986
  • William Gibson, Il continuum di Gernsback, (The Gernsback continuum, 1981), in La notte che bruciammo Chrome, Urania Mondadori 1989
  • Charles L. Harness, L’odissea del superuomo (The rose, 1953), Galassia CELT 1970
  • Dean Ryan Koontz, La sinfonia delle tenebre (The dark symphony, 1970), Galassia CELT 1972
  • Anne McCaffrey, La nave che cantava (The ship who sang, 1969), Galassia CELT 1973
  • Michael Moorcock, Un cantante morto (A dead singer, 1976), Robot n. 24, Armenia 1978
  • George Orwell, 1984 (Nineteen-hundred and eighty-four, 1949), Mondadori 1950
  • Laura Scaramozzino, Screaming Dora, Watson 2019
  • Clifford Simak, Il pittore dello spazio (Spaceman’s Van Gogh,1956), in La macchina dei sogni, Fanucci 1977
  • Clifford Simak, La grotta dei cervi danzanti (Grotto of the dancing deer, 1980), in I premi Hugo 1976-1983, Ed. Nord 1984
  • Theodore Sturgeon, L’ippogrifo e il cavalletto (To here and the Eesel, 1977), Robot 1977
  • Ian Watson, I giardini della delizia (The Gardens of Delight, 1980), Elara 2011
  • Ian Watson, La Luna e Michelangelo (The Moon and Michelangelo, 1987), IASFM 1993
  • Connie Willis, Strani occhi (Remake, 1995), Urania Mondadori 1997
  • Evgenij Ivanovič Zamjatin, Noi (My, 1922), Minerva Italica 1955

 

 

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