Il 2 novembre è iniziata la distribuzione in libreria di Storie di Venezia, un libro che ho costruito sulla falsariga del precedente Storie di Parigi: una lunga avventura nei luoghi della città millenaria in cui vissero scrittori e musicisti, dove furono girati film e composte musiche che ancora oggi ascoltiamo, per raccontare tutte le loro storie: oltre 500 pagine di testo con centinaia di illustrazioni. In questo post riporto un frammento del capitolo introduttivo.
Anche se te lo aspetti, quando il treno lascia la terraferma a Mestre per correre sopra l’acqua immobile della laguna, un’emozione antica sospende per qualche momento il battito del cuore. Se poi è una di quelle giornate grigie di metà autunno o di inizio primavera, il medesimo colore slavato si riflette sopra e sotto il ponte, in lontananza fino al confine tra cielo e mare; quel bianco sporco e traslucido lascia intuire l’esistenza di un altro mondo, completamente differente da quello cui sei abituato. La laguna in una giornata di nuvole è una porta affacciata su un singolare atout, parzialmente fuori dall’esperienza comune. La tua vita è alle spalle, da qui in avanti c’è soltanto Venezia.
Dopotutto il ponte è lungo soltanto 3850 metri, e a metà ottocento era anche più corto, 3600 metri, eppure era il più lungo del mondo, orgoglio dell’Impero Austriaco. Inaugurato l’11 gennaio 1846, viene parzialmente distrutto tre anni dopo, durante l’assedio che soffoca la Repubblica di San Marco al tramonto del biennio delle grandi rivoluzioni.
Mentre il convoglio rallenta c’è tutto il tempo di prepararsi all’idea di arrivare a Venezia. Gabbiani volano sull’acqua, oppure osservano il treno con il capo di lato, appollaiati sui pali conficcati in verticale nel fondale sabbioso. Non ho coscienza della prima volta in cui sono venuto a Venezia, da bambino; ricordo appena la volta successiva, poi però durante poco meno di un anno l’ho frequentata quasi ogni settimana. Dal luglio 1981 al giugno 1982 ho fatto il servizio militare obbligatorio al comando della divisione meccanizzata Folgore, a Treviso, meno di mezz’ora di treno dalla stazione ferroviaria Santa Lucia. Specialmente nei primi mesi, trascorrevo l’intera domenica in libera uscita tra le calli di Venezia, in genere da solo. A volte portavo con me una vecchia chitarra che si era aperta sullo spigolo della cassa, perché era caduta dalla branda; i commilitoni che lavoravano nella tipografia del comando di divisione l’avevano incollata inserendola sotto la pressa del torchio, a carico molto ridotto. Sulla cassa avevo attaccato con il nastro adesivo trasparente una striscia di carta con la scritta «Questa macchina uccide i fascisti», come Woody Guthrie: l’avevo letto su una rivista musicale.
La prima volta che venni in libera uscita, fu un amico a guidarmi dalla stazione ferroviaria fino a piazza San Marco, seguendo la Strada Nuova che rimane tutta a settentrione di Canal Grande. Non so perché, per il resto dell’anno mi mantenni quasi sempre nelle stesse zone, tra Cannaregio e il sestiere di San Marco, con qualche puntata verso Castello, comunque non oltre via Garibaldi; la parte più turistica quindi, trascurando la sterminata città decadente, consumata dal tempo e dall’acqua che avrei scoperto in seguito, poco per volta, nelle gelide sere del lungo carnevale o nelle mattine silenziose di nebbia, di neve, quando Venezia si trasforma in un paesaggio in bianconero.
Di nuovo, una seconda scoperta sconvolgente è stato il carnevale, che in precedenza per me era solo sfilate di carri allegorici nei pomeriggi di sole bianco, in cittadine perse nella pianura piemontese. Quella volta andammo a Venezia in treno, cinque o sei ragazzi della mia camerata; uno di noi che si era procurato colori per il trucco, che usammo sul volto. Una stella intorno alle palpebre, il simbolo yīn/yáng, qualche striscia nera e bianca, una serata di ballo sfrenato in piazza San Marco trasformata in una gigantesca pista da discoteca a cielo aperto, prima di tornare di corsa e prendere l’ultimo treno che ci permettesse di rispondere al contrappello notturno, mentre l’acqua alta cominciava a uscire dagli sfiatatoi dei tombini.
A partire da quegli anni, Venezia è gonfiata in me come un essere vivente, un gigantesco organismo senziente semiaffondato nell’acqua ferma, che comincia a perdere la sensibilità in alcune aree periferiche: nelle circonvoluzioni delle calli come labirinti di concrezioni sull’epidermide di un cetaceo, nei giardini congelati dal tempo dove si concentrano le poche aree verdi, nei brevi canali secondari sui quali si affacciano solo finestre asimmetriche, il cui stucco bianco si è screpolato nei decenni.
Il viaggio che ha dato origine a questo libro voleva essere la ripetizione di una precedente esperienza a Parigi: cinquanta chilometri percorsi a piedi in sette giorni, in un movimento a spirale dalla periferia fino al centro città, per toccare in una lunga linea avvolta su se stessa tutti i luoghi della letteratura, della musica e del cinema che avessero significato qualcosa per me.
Per Venezia mi sono regolato in modo analogo, ma non identico a causa della conformazione fisica della città: ho ingrandito con una fotocopiatrice una mappa isolando i sestieri, considerandoli come unità geografiche a sé, e dopo avere segnato nella planimetria dei canali, dei campi e delle calli tutti i luoghi che mi interessava toccare, e che mi permettevano di scrivere a proposito di ciò che mi interessava, ho tracciato itinerari contorti come linee frattali, per assecondare i passaggi obbligati su ponti di pietra e fermate del vaporetto.
Per queste ragioni l’itinerario totale non è consecutivo, come era accaduto a Parigi, ma si compone per tessere di un mosaico che non ha contiguità geografica né temporale, ma solo logica.
Non è secondario il fatto che, a differenza di quasi tutte le città di analoga dimensione, a Venezia il centro storico coincida con le dimensioni della città (non con quelle del comune, che comprende anche Mestre e altre località di terraferma). Nata da una serie di insulæ separate dall’acqua, cresciuta straordinariamente in fretta colmando gli spazi d’acqua ristretti alle dimensioni degli odierni canali, fino a raggiungere le dimensioni di capitale, negli ultimi secoli la struttura urbana di Venezia è rimasta sostanzialmente intatta. Unico intervento importante è a fine Ottocento l’apertura di vie pedonali per raggiungere piazza San Marco dalla stazione ferroviaria, come alternativa ai trasporti via acqua: la Strada Nuova in particolare, a nord di Canal Grande.
È per questo che oggi viene percepita da molti turisti come un museo all’aria aperta, sul genere delle ricostruzioni di villaggi vichinghi della Scandinavia; invece è una città viva, anche se difficile, nella quale la popolazione è scesa da 174.808 abitanti nel 1951 a 56.356 nel 2015 (nel 1570 erano 190.900). Una città che ancora oggi si muove in parte via acqua.
Non può essere un caso il fatto evidente che alcuni dei pensieri più profondi su Venezia siano di autori stranieri, in particolare russi. «Questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’universo» scrive Iosif Brodskij in Fondamenta degli Incurabili, struggente omaggio che trasforma una città amata in un capolavoro di tristezza. È proprio lui a negarne la funzione di museo: «Questa città non ha gli attributi per essere un museo, essendo lei stessa un’opera d’arte, il capolavoro più grande che la nostra specie abbia prodotto.»
Tutte le toto: © Franco Ricciardiello 2013