La prima presentazione libraria organizzata per l’uscita di “Storie di Parigi” mi dà l’occasione di pubblicare in questo post l’ultimo brano stralciato dal testo.
L’argomento è un doppio film del regista Alain Robbe-Grillet, probabilmente più conosciuto come scrittore, meglio ancora come teorico del Nouveau Roman o École du regard, corrente che prende le distanze dallo psicologismo; per esempio nel romanzo “Le gomme” (Les Gommes, 1953), con il pretesto di un’indagine poliziesca per catturare il responsabile di un omicidio che ancora non c’è stato, Robbe-Grillet inscena uno stile fenomenologico: invece di immedesimarsi nei personaggi (il punto-di-vista) descrive le cose. È la “teoria della superficie pura” — a proposito di un successivo romanzo, “La gelosia” (La jalousie, 1957) l’autore stesso lo definisce scritto da un narratore in “terza persona assente”, rovesciamento di prospettiva della “terza persona immersa” della creative writing.
È facile per i contemporanei percepire la sua narrativa come una serie di film abortiti, o tentativi cinematografici in potenza. Naturale quindi che questa poetica della superficie lo porti a interessarsi di cinema, l’arte dell’immagine, del suono, dei cinque sensi: prima scrive sceneggiatura e dialoghi di uno dei più fortunati film francesi degli anni Sessanta, “L’anno scorso a Marienbad” (1961) di Alain Resnais, poi passa egli stesso alla regia per dirigere dieci pellicole tra il ’67 e il 2006. Due di queste sono in realtà prodotte con lo stesso materiale montato in maniera differente. Dopo tre film in bianco e nero, esigenze commerciali richiedono che Robbe-Grillet cominci a lavorare con il colore; il regista temporeggia, soprattutto perché prova un’avversione irrazionale per il verde. L’ispirazione gli viene mentre si trova in Tunisia, osservando il paesaggio diviso tra l’azzurro saturo del cielo estivo e il bianco assoluto dei muri affrescati a calce. Sull’isola di Djerba, il verde è assente persino dalla vegetazione.
Alain Robbe-Grillet gira quindi un film che è il trionfo del colore puro, brillante, estremamente saturo. Il progetto prevede una scrittura seriale con 12 unità narrative, e la possibilità di montare due film differenti: il primo è “Oltre l’Eden” (Eden et aprés, 1970), distribuito nelle sale cinematografiche, il secondo viene venduto alla ortf, la tv di stato francese, con il titolo N. a pris les dés, (“N. ha preso i dadi”, 1971, quasi-anagramma dell’altro titolo). Entrambi nascono da una coproduzione tra Francia, Cecoslovacchia e Tunisia.
L’aspetto antinarrativo dell’École du regard raggiunge il massimo nel secondo di questi film, comprensibile solo a chi già abbia visionato il primo; “Oltre l’Eden” mantiene invece una struttura con un plot, anche se risulta difficile distinguere ciò che accade davvero da ciò che i personaggi immaginano (così come nei romanzi di Robbe-Grillet l’azione osservata e l’azione immaginata sono indistinguibili, in quello che è stato definito “l’equivalente letterario di un romanzo cubista”). L’azione inizia a Bratislava; dopo l’orario di lezione, gli studenti della facoltà di Fisica si ritrovano al caffè Eden, un locale di stile modernista con una violenta illuminazione, le cui pareti divisorie sono decorate con immagini pubblicitarie e riproduzioni di opere di Mondrian. Una studentessa che indossa alti stivali cuissard di pelle rossa viene braccata e inseguita dai compagni (tutti attori bellissimi, maschi e femmine scelti con un criterio puramente estetico, come oggetti da scenografia) in un gioco di dubbio gusto, uno stupro non si sa fino a che punto soltanto mimato, sotto le réclame di oggetti di largo consumo nell’Occidente capitalista: Camel, Coca Cola, Cinzano — oppure, più esplicitamente “Bevete sangue!”. Piuttosto annoiati, ogni giorno dopo le lezioni gli studenti bevono e inscenano giochi violenti e volgari: un avvelenamento, una veglia funebre.
Un giorno entra nel locale un affascinante straniero di nome Duchemin (l’attore e regista Pierre Zimmer), che con i suoi occhi di un azzurro glaciale assiste a una variante della roulette russa. Incuriositi dalla sua presenza, gli studenti si lasciano coinvolgere quando Duchemin interviene per mostrare trucchi imparati in Africa: un truculento ipnotismo che contrasta con la bianca luce razionalista del locale, e poi una polvere stupefacente che l’uomo propone a una studentessa di nome Violette, che da questo momento diventa protagonista, voce narrante e punto-di-vista del film. Per questo ruolo Robbe-Grillet compie una scelta fortunata: la ventiduenne Catherine Jourdan, già protagonista del corto L’allée et rétour des enfants prodigues di Jean-Luc Godard, fisico snello tipo fotomodella anni Sessanta, capelli biondi tagliati molto corti, lunghe ciglia e grandi occhi che rendono a meraviglia la fissità dello sguardo neutro richiesta dal personaggio: colei-che-guarda senza realmente vedere. Per lo spettatore, il film non può che identificarsi con il suo volto di bambola assente.
La sostanza in polvere di Duchemin precipita Violette in una fantasia paranoica. Lo spettatore assiste sia alla sua gestualità terrorizzata che alle sue visioni masochiste, intrise di sangue, con donne imprigionate in gabbia e schegge di vetro taglienti come coltelli. Da questo punto in poi, anche se l’effetto della droga cessa, è come se Violette rimanesse intrappolata nel suo incubo, senza distinguere nettamente tra realtà e allucinazione — e, naturalmente, lo spettatore è imprigionato insieme a lei. Duchemin compie un numero d’ipnotismo che coinvolge la chiave di casa di Violette, quindi le dà appuntamento di nascosto al porto fluviale, la sera stessa.
Notte. Arrivata per incontrare lo straniero, Violette vede alcuni compagni correre tra le ombre delle imbarcazioni, sente degli spari e si rifugia all’interno di una fabbrica deserta. Qui si aggira fra i fantasmi delle proprie allucinazioni, impersonati dagli altri studenti, come se ancora non fosse uscita dal trip. Questa sequenza è girata in uno zuccherificio di Stato cecoslovacco, mai entrato effettivamente in funzione; vi compare anche per un breve cameo Catherine Rstakian, moglie del regista, autrice di romanzi BDSM con lo pseudonimo Jeanne de Berg. Violette si perde tra le enormi tubazioni e gli spazi chiusi come in un labirinto mentale. All’alba esce all’aperto e rinviene il cadavere di Duchemin in riva al fiume; nella tasca della giacca trova una cartolina che riproduce un paesaggio della Tunisia. Chiama i compagni di corso, ma arrivati sul posto il cadavere è già sparito. Recupera all’Eden la chiave che Duchemin ha utilizzato per il suo gioco di prestigio; rientrata in casa, Violette si accorge della sparizione di un prezioso quadro dipinto da suo zio, stranamente simile all’immagine della cartolina. Al cinema con gli amici, Violette assiste alla proiezione di un documentario sulla Tunisia e riconosce l’abitazione ritratta nel quadro.
A questo punto parte per la Tunisia — oppure proietta sul paesaggio esotico la propria percezione alterata. La vediamo a Djerba, circondata dagli attori che hanno fin qui recitato nel ruolo degli studenti di Fisica che però interpretano altri personaggi, come in una classica fantasia di complotto. Un uomo identico a Franc, il cameriere dell’Eden, la indirizza a un pittore di nome Dutchman, che è il sosia di Duchemin (ovviamente l’attore è sempre Pierre Zimmer), secondo lui autore del quadro sottratto a Violette.
Violette diventa l’amante dell’uomo, ma la sua percezione è sempre più disturbata da inserti d’immagini della vita a Bratislava e tableaux vivants erotici di gusto sadomasochista, i soggetti ritratti da Dutchman, con donne imprigionate in catene dentro gabbie di ferro. Violette cammina tra i muri bianchi delle case, sotto il cielo terso della Tunisia, in riva al mare che batte le basse coste dell’isola, ma in realtà si muove nei propri desideri inconsci; la vegetazione, l’odiato verde, è sostituito dalle palme e dalla sabbia. Diventa la modella di Dutchman, e le sue visioni aumentano di intensità, o forse è solo una interpolazione di immagini a mero contenuto estetico, senza nesso di casualità con la trama: corpi di donne, vasche da bagno piene di sangue, i suoi compagni di università che si aggirano fra le case bruciate dal sole onnipresente, convinti che Violette o il suo amante nascondano il quadro sul quale vogliono a tutti i costi mettere le mani, come uno dei mcGuffin che Hitchcock inserisce nei suoi film per giustificare l’azione. Gli occhi di Violette mentre si lascia carezzare da Dutchman sono ancora dilatati come durante l’esperienza con la droga di Duchemin.
Una sera, durante una festa in spiaggia, Violette si lancia in una danza solitaria davanti ai suonatori locali, nella luce rossa dei falò. I suoi movimenti sono identici a quelli sotto l’effetto dell’ipnosi, all’Eden. La ragazza si scatena alla musica degli strumenti a fiato, mentre il pittore la osserva. Ma tra gli spettatori c’è chi complotta: un gruppo di cavalieri irrompe, Violette viene rapita e condotta al galoppo lungo la spiaggia fino a un edificio, dove è tenuta prigioniera e incatenata. I carcerieri, interpretati dagli stessi attori che interpretano i compagni di corso all’università, vogliono sapere da lei dov’è il quadro. Violette riesce a fuggire e si aggira tra deserto e mare finché non incappa in un doppio di se stessa, una giovane che le somiglia come una goccia d’acqua, con il vestito che indossava lei a Bratislava. Riposata e rifocillata, si reca a incontrare Dutchman, solo per essere testimone del suo investimento da parte di un furgone. Il pittore muore in una scena speculare a quella di Duchemin, con Violette che scende una scalinata fino a riva, dove il corpo dell’uomo giace a metà nell’acqua. La ragazza si inoltra in mare tenendo le braccia sollevate verso il sole, l’immagine dissolve e ci ritroviamo a Bratislava, all’Eden, con Violette, gli studenti e il cameriere Franc, tutto come prima che arrivasse lo straniero.
In N. a pris les dés Robbe-Grillet recupera 2/3 di materiale proveniente da Eden et aprés, aggiungendo altre scene escluse dal primo. La trama è giustificata a posteriori con due procedimenti: il commento della voce off del personaggio N., che all’inizio del film getta esplicitamente i dadi per simboleggiare l’aleatoria combinazione delle scene, e la variazione dei dialoghi sovrapposti alle immagini. Un dialogo tra, poniamo, Violette e uno dei compagni di corso in L’Eden diventa una cosa diversa in N., perché i personaggi parlano con voce fuori campo: la macchina inquadra lei ma si sente la voce di lui, e viceversa. In questo modo il significato può variare anche notevolmente.
Le scene ambientate a Bratislava e quelle a Djerba finiscono in questo modo mischiate, Violette entra e esce dal suo mondo onirico, o meglio vive in uno dei due mondi e pensa all’altro, senza che ci sia dato capire cosa sia realtà e cosa immaginazione, allucinazione. Per esempio, le scene della danza flessuosa di Catherine Jourdan nel caffè Eden sono alternate alle immagini di notte davanti ai falò. Dentro e fuori dal sogno. L’aleatorietà delle scene aumenta il significato anti-narrativo, ma complica la gestione degli effetti audio: la colonna sonora originale di L’Eden et aprés è stata cucita dal compositore Michel Fano sulle scene così come montate in sequenza, senza interruzione nel passaggio tra l’una e l’altra. Fano utilizza una serie di suoni con valore musicale, registrando frammenti di rumori anche in diretta durante le riprese, e adattandoli in seguito: una commistione di colonna sonora e effetti sonori, ingegneria del suono e composizione musicale.
È esattamente ciò che intende Robbe-Grillet quando interpreta come seriale il materiale del suo film, e quindi riproducibile anche con un ordine differente. Il problema nasce per il soundtrack di N. a pris les dés¸ dal momento che il commento audio non può essere tranciato alla fine della scena. Occorre riprendere il lavoro, ma il regista non vuole commissionare (né pagare una seconda volta) la colonna sonora a Michel Fano, per cui incarica un altro editor di tagliare e rimontare.
Le ultime battute del commento off di N. recitano così: “Caro telespettatore/trice, tu che stai per uscire di casa, o che resti davanti allo schermo, c’è forse qualcosetta cui non hai pensato. Un gioco non ha mai un significato a priori: è il giocatore che inventa la partita, e il giocatore sei tu. Le immagini che il tuo sguardo ruba qua e là non sono che immagini, non implicano un senso come una natura indelebile. Non hanno altro senso che quello che tu stesso hai scelto: di significato rassicurante o disperato, sei tu che l’hai creato così, per pigrizia o per paura.”
Il doppio film di Robbe-Grillet rimane un interessante esperimento seriale nella storia del cinema, anche considerato che N. a pris les dés è conosciuto solo dagli appassionati perché non è mai uscito nelle sale cinematografiche. “Oltre l’Eden” è oggi disponibile su un dvd di produzione italiana, che circola in tutto il mondo fra gli amatori. Il colore originale della pellicola è stato restaurato, e le immagini ci restituiscono i movimenti labirintici di Catherine Jourdan tra i bianchi muri di una città dell’anima, che contrasta con l’azzurro intenso di macchie di vernice o dei cieli altissimi srotolati come tappeti davanti ai suoi occhi spalancati.