Approfitto del recente “tutto esaurito” in occasione della quarta serata del musical Amar Riso, del quale ho scritto il libretto su invito della produzione, per pubblicare uno stralcio tratto dal mio “Storie di Torino”, dove racconto come è nato il film “Riso Amaro” di Giuseppe De Santis. Tutte le foto nel post sono di Christian Zecchin ©
Ricordo le lunghe passeggiate sotto i portici di via Po, affascinati, io e De Santis, dall’eloquio di Pavese, a volte enigmatico, e rispettosi anche di certi suoi silenzi. Ci sedusse anche la sua curiosità per il nostro lavoro, il suo apprezzamento per il cinema neorealista di cui mi pare avesse intuito il carattere non naturalistico. La sua curiosità lo avrebbe portato, qualche mese dopo, sul set di Riso amaro.
Carlo Lizzani, TorinoSette
L’idea di fare un film sulle mondine, protagoniste della grande epopea di lotta che a inizio secolo le ha portate a conquistare per prime in Italia le otto ore lavorative, viene a Giuseppe De Santis alla stazione ferroviaria di Torino; è il 1947, il regista sta tornando dalla presentazione a Parigi del suo film Caccia tragica, le mondine aspettano il treno che le riporterà ai paesi d’origine: giovani donne disinvolte che si mettono volentieri a cantare. De Santis le interroga, ascolta le loro storie, si sente coinvolto, come molti intellettuali della sua generazione, con il mondo di chi si guadagna da vivere con fatica.
Tornato a Roma scrive con Lizzani il primo trattamento di un film da intitolare Riso amaro, che la casa cinematografica Lux accetta subito. Il produttore Riccardo Gualino conosce personalmente Gianni Agnelli, e gli chiede di poter girare nella sua tenuta di famiglia, la Veneria, grossa cascina che si trova a Lignana, poco a sud di Vercelli: ed ecco il paradosso dell’emblema del capitalismo italiano che mette una sua proprietà a disposizione di una produzione decisamente di sinistra. L’Avvocato comunque frequenta lo stage più volte nei tre mesi di lavoro, dal momento che è sensibile al fascino femminile, prima di tutto quello di Silvana Mangano.
I tre lunghi mesi di lavoro alla cascina Veneria, nell’estate del ’48, sono sfibranti per la troupe, costretta alla promiscuità in cameroni dove durante la stagione dormono le mondine, infestati dalle zanzare. Una strada sterrata conduce fino a Vercelli, dove pare non ci sia nulla da fare la sera, nelle ore in cui non si gira. Passa sul set anche Robert Capa, il più famoso fotografo di guerra di tutti i tempi. Il 14 luglio, nel pieno delle riprese, giunge la notizia che un simpatizzante del Qualunquismo ha sparato al segretario del partito comunista Palmiro Togliatti all’uscita da Montecitorio, ficcandogli in corpo tre proiettili. Il set si blocca immediatamente perché quasi tutta la troupe è simpatizzante di sinistra.
Dei quattro protagonisti del film, due sono attori professionisti (Gassman e Dowling), gli altri due vengono pubblicizzati come “presi dalla strada”: in realtà Vallone si può considerare semi-esordiente, e la sola Silvana Mangano compare per la prima volta sul grande schermo in un ruolo che non sia di comparsa. Al provino non fa colpo sul regista, che cerca una ragazza acqua e sapone, mentre lei è truccata in modo vistoso e vestita per fare impressione; il caso vuole che qualche tempo dopo De Santis la riveda in via Veneto a Roma, in un giorno di pioggia, con i capelli bagnati e senza trucco. Le propone un secondo provino e questa volta la scrittura. Riso amaro farà il successo di Silvana Mangano, e Silvana Mangano farà il successo di Riso amaro; scrive Lizzani in Attraverso il Novecento:
La presenza di una unità fisico-semantica come quella della Mangano in Riso amaro è una proposta narrativa o lirica della regia che, innanzitutto, suggerisce un rapporto natura-corpo umano che in sceneggiatura non c’era… Certe inquadrature divennero piani-sequenza perché quel corpo della Mangano era bello in movimento.
Siamo negli anni del neorealismo, e De Santis è un intellettuale di sinistra; le sue dichiarazioni a proposito del film appena realizzato fanno pensare a una esplicita volontà di denuncia sociale:
Il tema centrale di Riso amaro è questo: la denuncia della corruzione che, con mezzi apparentemente innocenti, una certa ideologia americana ha diffuso in Europa occidentale. Tale ideologia è riuscita a diffondere i suoi veleni anche negli strati più sani del popolo, specialmente in mezzo alla gioventù, cui essa si è presentata con l’amabile volto del boogie-woogie, del chewing-gum e del facile lusso.
(Rivista del cinema italiano, 1953)
E non c’è dubbio che il personaggio di Silvana sia la trasposizione di un tipo psicologico femminile del dopoguerra, nutrito di falsi sogni; ma l’esplicito intento engagé di De Santis non esclude che il film diventi uno dei più grandi successi nazional-popolari del cinema italiano, che coniuga dramma sociale e melodramma. Nasce dalla scuola della grande cinematografia sovietica, ma ha imparato la lezione di Hollywood.
La scena più famosa del film è infatti il boogie woogie che Silvana Mangano balla di notte, al centro del cerchio di mondine che battono le mani: una sequenza di grande presa sull’immaginario dello spettatore, una forza comunicativa di eccezionale potenza, delegata a gesti e espressioni, senza una sola battuta di dialogo.
Raf Vallone sul set di Riso Amaro
In quel dopoguerra un’intera generazione di intellettuali aveva come riferimento il Pci; molti di loro frequentano la vivacissima redazione giornalistica de L’Unità di Torino: Cesare Pavese, Davide Lajolo, che ne scriverà la biografia più bella e amara, e poi Italo Calvino, il pittor Felice Casorati, il musicologo Massimo Mila, il poeta Alfonso Gatto, Paolo Gobetti figlio di Piero, il filosofo Ludovico Geymonat, Paolo Spriano. In redazione lavora come responsabile della terza pagina un ex calciatore del Torino: Raffaele Vallone, più conosciuto come Raf, nativo di Tropea ma giunto nella città piemontese da bambino insieme alla famiglia. Un dirigente del Torino Calcio lo nota mentre gioca a pallone nei campi, lo scrittura nei Balon Boys, il settore giovanile della squadra. Al liceo ha come insegnante Leone Ginzburg, che gli instilla l’amore per il teatro e la recitazione. Poi frequenta la facoltà di Giurisprudenza, studia con Luigi Einaudi. Si laurea, suo padre che è già avvocato lo manda a patrocinare una causa ma dal momento che secondo lui il cliente ha torto, Raf Vallone dà ragione all’avversario; è la fine della sua carriera nel foro.
Nel ’41 smette di giocare a calcio e si dà al giornalismo. Ricorda nella sua autobiografia Alfabeto della memoria:
Torino è una città che mi ha dato molto, è una città fattuale dove le parole erano solite essere concretate dai fatti, una lezione che dura ed è durata tutta la mia vita. Vivevo a Torino dov’era dominante l’aristocrazia della classe operaia. Era una città chiusa e non si apriva con facilità, dovevi entrarci guadagnandoti la stima degli altri. Era vera, dura, concreta: mi ha insegnato che il fare viene prima del dire. lo ci stavo bene anche perché ero innamorato del mio lavoro.
Dopo l’8 settembre ’43 Vallone si avvicina a Giustizia e Libertà. Viene arrestato dai repubblichini. Dovrebbe essere deportato in Germania, ma si salva gettandosi nel lago di Como. Racconta:
Molti anni dopo, facevo già l’attore, stavo sciando a Sestrière con mia moglie e i miei tre figli, quando, sulle piste del Banchetta, un gruppo di turisti mi riconosce e si avvicina. Credevo fossero ammiratori che avevano visto Riso amaro. E in effetti si congratularono, ma non per il film, per la mia fuga di Como. «Noi la conosciamo, l’abbiamo vista gettarsi nel lago, con le SS che sparavano dalla riva….» Da allora i miei figli non hanno più potuto prendermi in giro per i miei racconti.
Durante la Resistenza conosce Davide Lajolo, il quale dopo la liberazione lo assume per collaborare alla terza pagina dell’Unità, che negli anni ospiterà anche interventi di Rafael Alberti, Louis Aragon, Paul Éluard, Ernest Hemingway. Vallone, unico nella redazione, non è iscritto al Pci; non si fida di un partito che pubblica una storia del Pcus in cui non appare neppure una volta il nome di Trockij, il leader più importante dopo Lenin, cancellato via da Stalin. «Per me, che venivo dal Partito d’azione, la politica era innanzitutto rigore morale. Come potevo entrare in un partito che si basava su una menzogna così grossolana?»
Fu un periodo bellissimo, l’Italia attraversava un momento eccezionale, anni intelligenti, di grandi possibilità critiche, del dubbio elevato a sistema di indagine. La classe operaia torinese era un mito. Noi dell’Unità andavamo nelle fabbriche a parlare con gli operai del problema del linguaggio: quello dei giornali era classista: come fare per farci capire da tutti? Ricordo un pomeriggio alla Fiat Ferriere, tra gli altiforni enormi, con tre giganti in tuta che mi ricordavano mezz’ala al Toro e mi dicevano: «Qui dentro i tedeschi non sono mai venuti a trovarci».
La sua vita cambia completamente alla fine degli anni Quaranta. Lajolo lo mette in contatto con il regista Giuseppe De Santis, che insieme allo sceneggiatore Carlo Lizzani ha deciso di girare, in pieno neorealismo cinematografico, un film sulle mondariso del vercellese. L’argomento “lavoro” suscita interesse dell’intellighenzia di sinistra in questi anni di rinnovato impegno sociale, grazie anche alla Resistenza, e la questione delle mondine è primaria in un paese ancora a vocazione agricola. Ricorda Natalia Ginzburg in Lessico famigliare:
Alla Cìa venne male a un piede, / Pus ne sgorgava a volte la sera, / La Mutua la mandò a Vercelli
Giovani poeti scrivevano, e portavano in lettura alla casa editrice, versi di questa specie. In particolare la terzina sulla Cìa faceva parte d’un lungo poema sulle mondine. Era, il dopoguerra, un tempo in cui tutti pensavano d’essere dei poeti, e tutti pensavano d’esser dei politici.
Dino De Laurentiis chiama a interpretare la star femminile del film un’attrice di Hollywood, Doris Dowling, divenuta famosissima con il torbido The Blue Dahlia (1946) di George Marshall, su sceneggiatura di Raymond Chandler. Doris arriva in Italia insieme alla sorella Costance; la regista Dada Grimaldi che lavora in Rai invita l’amico Raf Vallone a cena con le sorelle, lui le suggerisce di chiamare anche Cesare Pavese, che ha da sempre una passione per l’America.
Dopo cena Pavese e Constance Dowling si allontanano insieme; andranno a Cervinia, ed è per lei che il poeta scriverà Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Racconta lo sceneggiatore Carlo Lizzani nel suo libro su Riso amaro:
A Torino ci rivolgemmo a Cesare Pavese e a Lajolo per avere i primi suggerimenti. […] Lajolo, come direttore dell’ “Unità”, ci mise a disposizione un redattore della “terza pagina” che avrebbe potuto capire meglio i nostri problemi e accompagnarci nelle zone di maggiore interesse e aiutarci per tutti i possibili contatti. Si trattava di Raf Vallone.
Il regista De Santis telefona alla redazione dell’Unità, invita Raf Vallone a cena. C’è anche Lizzani. Il giornalista porta con sé il servizio che da poco ha realizzato sulle risaie, con testi e foto. Vallone, che recita Georg Büchner a teatro, dopo cena si esibisce per celia nel testamento di Woyzeck.
De Santis, coerente alle premesse estetiche e ideologiche del neorealismo, è alla ricerca di volti nuovi; decide di fargli un provino. Così Raf Vallone, che nelle intenzioni di Lajolo dovrebbe fare da guida alla troupe alla ricerca di locations tra le risaie, si ritrova a Roma per firmare il contratto quinquennale con la Lux. È la fine del suo lavoro di giornalista, e l’inizio di una lunga carriera di attore, anche a Hollywood.
Franco Ricciardiello STORIE DI TORINO
Ed. odoya 2018, 398 pagg. € 22,00 ISBN 978-8862884433