In occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ho cercato di ricostruire se la fantascienza abbia mai affrontato in maniera seria l’argomento; soprattutto, ho cercato un autore maschio per dimostrare che la violenza di genere non è soltanto una questione femminile. In questo modo mi sono inaspettatamente imbattuto in un romanzo dell’olandese Michel Faber, Sotto la pelle, che pur essendo palesemente fantascienza non è apparso presso l’editoria di genere (in Italia è tradotto da Einaudi), e soprattutto mi sono imbattuto nel film che ne è stato tratto, Under the skin (2012) di Jonathan Glazer — secondo me una delle più belle pellicole di fantascienza nella storia del cinema: inquietante, visionario, reticente con eleganza, di una violenza formale cui non siamo abituati: in poche parole, terribilmente spiazzante. Non deve stupire che Under the skin abbia incassato metà della somma investita dalla produzione: la sua estetica è troppo lontana dai consolanti blockbuster di effetti speciali hollywoodiani che hanno distorto il gusto del pubblico.
Come nella migliore tradizione della science-fiction speculativa, Under the skin rappresenta il tema della violenza di genere tramite un’inversione narrativa: la protagonista femminile è una di cacciatrice seriale di uomini che vengono abbordati, allettati e poi eliminati brutalmente. A un certo punto si capisce che la ragazza non è di origine terrestre, tanto che qualche recensione[i] richiama esplicitamente L’uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg. Verso il finale invece va in scena un rovesciamento dei rapporti di forza, una ricomposizione del senso, e la cacciatrice diventata femmina umana si trasforma in preda sessuale.
Il film inizia con la giovane protagonista che spoglia una prosituta coetanea, priva di sensi, e ne riveste i panni; si mette poi alla guida di un furgone e percorre le strade di Glasgow (stessa ambientazione del romanzo, perché Michel Faber vive in Scozia). Questa ragazza, che rimarrà senza nome per tutto il film, è interpretata da una strabiliante Scarlett Johansson, che si è sottoposta a un difficile tour de force per interpretare questo ruolo, rimasto famoso soltanto perché è il primo film in cui appare completamente nuda (anche se sono quantitativamente superiori le scene di nudo integrale maschile).
Ogni volta che vede in strada un uomo non oltre la mezza età, la ragazza accosta il furgone e con la scusa di chiedere indicazioni stradali rivolge domande mirate a sapere se vive da solo, se qualcuno lo attenda a casa. È essenziale che nessuno possa accorgersi della scomparsa delle sue vittime. Non le occorre un grande sforzo per attrarre gli uomini in una casa all’apparenza abbandonata, dove si leva con gesti allusivi i vestiti. Invariabilmente le sue prede la seguono nel buio sprofondando in un liquido nero che le ingoia.
Le immagini, di precisa composizione formale, non trovano una spiegazione esplicita (il primo dialogo è addirittura venti minuti dopo l’inizio del film), ma si intuisce che la protagonista è in realtà una creatura aliena, appartenente a un’organizzazione della quale fanno parte almeno altri tre extraterrestri. Si trova in incognito sul nostro pianeta dove cattura esseri umani di sesso maschile per uno scopo non precisato — potrebbe essere, come ipotizzano alcuni recensori, per sottrarne l’intera cute da usare come mascheramento.
Nel corso della sua aberrante missione terrestre, la protagonista incappa però in un ostacolo. Un giorno seduce e cattura un giovane deforme (l’attore che lo interpreta, Adam Pearson, è davvero affetto da neurofibromatosi), ma qualcosa tocca la sua sensibilità aliena — troppo aliena perché si possa capire il suo travaglio. Dopo aver lasciato libero l’uomo, separa il proprio destino da quello della “cellula” extratererstre. Entra progressivamente in contatto con la vita del nostro pianeta, con gli esseri umani che affollano Glasgow ma anche con la natura che a questa latitudine conserva un fondo di selvaggio. Incontra un uomo che mostra verso di lei la cortesia e la comprensione di un corteggiatore paziente: la ospita a casa propria ma non tenta di approfittare, tanto che è lei stessa a prendere l’iniziativa quando si sente pronta. Lo bacia in punta di labbra a occhi chiusi, come se fosse la sua prima volta, poi lo lascia fare quando la spoglia con dolcezza. Ma al momento della penetrazione si blocca. Sorpresa, si osserva da vicino i genitali come se fino ad ora non ne avesse compreso la funzione.
È questo il turning point del film, il momento in cui termina l’inversione narrativa della trama. Il blog Sonia’s Sees richiama addirittura lo “stadio dello specchio” di Jacques Lacan:[ii] nel momento in cui si identifica con ciò che ha in mezzo alle gambe, la protagonista si riconosce femmina, e un’inversione di ruolo mette termine all’inversione di significato: da cacciatrice aliena diventa vittima. L’atto dell’osservazione influenza l’oggetto osservato; la protagonista inizia a percepire se stessa come femmina umana — di conseguenza anche il mondo la vede allo stesso modo. Il momento in cui la ragazza lascia che sia la biologia pura a definire il suo essere, è il momento in cui perde l’alienità che costituiva tutta la sua forza nei confronti dei maschi: riconoscersi donna significa identificarsi nel ruolo di vittima. Il finale della pellicola è un brutale tentativo di stupro durante il quale l’aliena viene bruciata viva.
Under the skin, o lo si ama o lo si detesta; io mi iscrivo al primo partito. Completamente catturato dal senso di ineluttabile tagedia che lo attraversa, ho continuato a desiderare per giorni in diversi momenti della giornata di tornare a immergermi nelle sue immagini oniriche, indimenticabili. Sto sognando? Sto sognando? si domanda il giovane deforme quando Scarlett Johansson rimane in biancheria intima, nell’indefinibile ambiente di luce nera. L’auore della sceneggiatura, Walter Campbell, viene dal mondo della pubblicità; il suo arrivo nel progetto ha concretizzato l’idea del regista, rimasta in maturazione per dieci anni. Del romanzo di Faber in effetti non è rimasto molto: c’è ancora il tema della violenza di genere, ma è completamente decaduta la condanna del consumo di carne a uso alimentare (con il non trascurabile particolare che nel romanzo la fonte di cibo per un’altra civiltà siamo noi esseri umani). In compenso si è aggiunta una riflessione sul modo in cui la moderna società dei consumi travisa il concetto di bellezza.
La colonna sonora della giovane compositrice londinese Mica Levi è cucita con cura dentro ogni scena, al punto che sembra di sentire il respiro del pensiero alieno quando la protagonista appare danzare su suoni che neppure sembrano di origine umana. Una parte non secondaria del film è girata in presa diretta, all’insaputa degli ignari passanti che vengono abbordati da Scarlett Johansson con una parrucca nera, alla guida di un furgone commerciale; il regista è nascosto con il direttore della fotografia nel retro del cabinato, per riprendere le reazioni di perfetti sconosciuti davanti a una ragazza di sorprendente bellezza che cerca di flirtare. Naturalmente, un’auto con la guardia del corpo dell’attrice segue a ruota, pronta a intervenire. Nessuno riconosce l’attrice famosa; questa immediatezza da reality rimane esclusivamente nella versione originale in inglese, il doppiaggio naturalmente annulla l’effetto.
Gli attori che fiancheggiano la superba performance di Johansson, che regge praticamente l’intero film sulle proprie spalle, provengono dall’entourage di Ken Loach; la fascinazione per il corpo (non solo quello dell’attrice e i nudi maschili, ma anche quello sfigurato dalla neurofibromatosi) richiama invece certi temi di David Cronenberg.[iii] Chi è abituato alle storie dove tutto è spiegato per filo e per segno dovrebbe astenersi rigidamente dalla visione. Anche la struttura della narrazione è disarticolata, lo spettatore deve ricostruire da sé i rapporti di causa effetto; in alternativa può lasciarsi andare alla stupefacente, selvaggia bellezza del paesaggio scozzese, sognarsi immerso nella vegetazione mossa dal vento come fa la protagonista quando si addormenta nel capanno della foresta, poco prima dell’agghiaciante climax finale, ascoltare il battito del proprio cuore influenzato dai suoni alieni di una soundtrack quasi esoterica, che invita a penetrare con la coscienza uno stato emotivo primitivo — fino a raggiungere un ristretto pubblico che considera Under the skin un oggetto di culto, un pubblico di fans che nutrono un debole per la fantascienza morale, capaci di scaldarsi per questa “gelida storia di una ragazza-che-cadde-sulla-terra”.[iv]
[i] Oliver Lyttelton, “5 Reasons Why Jonathan Glazer’s ‘Under The Skin’ Is One Of The Best Films Of The Year [ii] Sonia’s Sees, Under the skin, 8 giugno 2017 [iii] Oliver Lyttelton, ibid. [iv] Oliver Lyttelton, ibid.