di CLAUDIA GAUDENZI
La conclusione del piccolo ciclo di Ricciardiello sulla storia del nazismo è costituita dal romanzo Radio Aliena Hasselblad.[1]
Attraverso un evento particolare, cioè la caduta di un fulmine su un traliccio dell’alta tensione durante un concerto rock, un misterioso “raggio verde“ colpisce la cantante sul palco, Kimberley Miranda. Il raggio le insinua nel cervello la personalità di un militare dell’esercito sovietico, il Generale Alpers, morto da più di trent’anni, la cui personalità è stata “ricreata” all’interno di un’unità senziente aliena in orbita attorno alla Terra.
– La cosa che mi è entrata in testa al concerto dice di essere un soldato russo di nome Alpers – continua Kim come se non avesse sentito. – Dice di essere morto quasi quarant’anni fa, però adesso si trova in orbita intorno alla Terra perché degli extraterrestri lo hanno resuscitato.
– Un ufficiale dei servizi segreti dell’Armata Rossa – conferma Roberta rassegnandosi, con la schiena appoggiata ai cuscini della poltrona. – Ha detto di chiamarsi Pavel Alpers, e di trasmettere via laser da un disco volante.
– Un disco volante! – ripete Kimberley guardando la TV, ancora accesa ma con il sonoro disattivato, e allora Roberta ricorda la notizia al telegiornale della sera, l’avvistamento di un Ufo nel cielo di Torino.
– Non è possibile, non è possibile… – ripete. – Non può essere vero…[2]
In realtà la “trasmissione” di Alpers era diretta alla fotografa che sta riprendendo il concerto, Roberta, ex-moglie di un documentarista, Folco Cardini, che sta girando un servizio sugli ultimi giorni di Hitler nel bunker della Cancelleria.
Il messaggio che Alpers vuole far avere a Folco riguarda una frode medico-legale perpetrata dalla Gestapo nel 1945 per far sfuggire Eva Braun alla morte, cremando al suo posto il corpo di una sosia. Il plot è il racconto del viaggio di Roberta fino a Berlino per cercare la verità, accompagnata dalla cantante, dal generale insinuatosi anche nella sua macchina fotografica Hasselblad trasformandola in una specie di rice-trasmittente (da cui il titolo del romanzo) e dal vecchio nonno polacco Cris, «un vecchio dentista misogino scampato ai campi di concentramento»[3] che costituisce tutta la sua famiglia, alla ricerca dei fantasmi del nazismo. Il viaggio è anche, per Roberta, una esplorazione nella propria psiche, sconvolta da ossessionanti fantasmi mentali.
Se Ai margini del caos era la narrazione di una ricerca filologica – le versioni del quadro di Böcklin ed i vissuti da essi rievocati –, Radio aliena Hasselblad potrebbe essere quella di una ricerca anatomica – la ricostruzione di tutte le perizie autoptiche sui cadaveri esumati nel cortile della Cancelleria e la scoperta dell’ultimo luogo di sepoltura.
Il collegamento con Ai Margini del caos è solo contestuale: Torino, il medesimo tempo, il gruppo degli Hasta Siempre, che nel primo romanzo sono la band musicale che Nico frequenta e per cui scrive i testi e un personaggio minore, cioè il chitarrista Bobo, amico degli Hasta Siempre e di Roberta. Il vero trait d’union è la storia della Germania agli sgoccioli della guerra, del suo regime totalitario e dello strascico di sofferenza e distruzione che ha lasciato.
Nel secondo romanzo l’autore assume per lo stesso avvenimento il punto di vista spaziale e mentale antagonista a quello del primo: dall’ambiente claustrofobico del sotterraneo a quello aperto e devastato della città, dai pensieri cupi ed apocalittici dei nazisti braccati e morenti a quelli trionfanti e vendicativi dei russi che li braccano.
“Brucia, Germania.” Ilja Ehrenburg ha scritto anche questo fino dall’ottobre scorso su “Stella Rossa”: “L’abbiamo ripetuto più volte: sta per arrivare i1 giudizio! Adesso è venuto”. Gli ordini: “Nessuna misericordia con la Germania”. “La grandezza unica di una decisione militare dipende da ciò che essa ha di mostruoso”: parole del criminale di guerra Joseph Goebbels: se davvero è così, non c’è mai stata nell’intera storia decisione militare più grande dell’invasione dell’URSS. Questi che oggi scappano in file interminabili su carri di legno sono le mogli, i figli, i padri dei cani rognosi che per tre anni distrussero la patria, assassinando come animali venti milioni di russi. E ricordando questo, l’artiglieria non risparmia i colpi. Brucia, Germania!
La struttura stilistica dei due romanzi è simile, infatti anche in questo caso vengono descritte immersioni psichiche in un’altra coscienza e vi è l’accesso a ricordi vividi di avvenimenti vissuti in prima persona, ma con la freccia temporale invertita: non si tratta di un movimento dal presente al passato, ma del passato che riemerge nel presente, secondo il normale flusso mnemonico.
Vi è però una differenza nella qualità di questi resoconti: quelli del primo romanzo provengono da un’unica origine, le trance di Vic, quelle del secondo si possono ricondurre a due tipologie. La principale è quella fantascientifica riguardante i racconti di Alpers, che ai tempi dell’invasione tedesca di Berlino era arruolato nello Smerš, cioè il servizio segreto militare incaricato della ricerca dei criminali di guerra nazisti ed è stato testimone delle ore post-mortem del Führer e della sua compagna e del destino dei loro corpi:
Lo Smerš entrerà in campo solo dopo la caduta della capitale; seguiremo il nodo scorsoio di filo spinato che si stringe intorno alla gola del Reich, per impedire che i criminali di guerra sfuggano alla mano della giustizia.
Alpers dopo la guerra era stato coinvolto nel programma sovietico di ricerca degli UFO con base a Bajkonur, fino ad arrivare al contatto con un veicolo alieno lungamente inseguito. La nave spaziale però ne aveva provocato accidentalmente la morte fisica e la successiva “resurrezione”.
Anche qui vengono “ri-creati“ alcuni personaggi storici legati all’entourage del dittatore tedesco, a partire da Hitler stesso e da Eva Braun, che ha un ruolo determinante nell’economia di questo secondo romanzo. La donna rappresenta infatti il fulcro di un piano alieno per riequilibrare la “deviazione“ verso l’instabilità/il male che si è verificata sul nostro pianeta durante il periodo della guerra, deviazione che, evidentemente, è cosmicamente inaccettabile, eticamente aberrante sul piano dell’assoluto.
Così una Eva o forse “Leni” Braun, cioè l’originale o la sosia, presumibilmente salvata dal suicidio nel bunker grazie alla Gestapo, indotta a frequentare i luoghi della sofferenza dell’Olocausto per poter incontrare gli esseri alieni che lei definisce “i dolcissimi”, diventa veicolo di un superiore messaggio di pace e di razionalità:
Nei sette incontri successivi ai secondo, quello decisivo, i dolcissimi si manifestarono di notte in uno di quei lager conservati come musei dopo la guerra: accanto alla grande cupola di cemento a Majdanek, fra i mazzi di fiori di campo lasciati dai visitatori; alle “sabbie“ di Janówska, dove recinti di filo spinato marcio delimitavano ampie fosse abbandonate, le scale ricoperte di calce vecchia, laghi di acqua piovana sul fondo; a Sobibor, a fianco del campo abbandonato pieno di frammenti di ossa umane bruciate, calcinate, spezzate, simili a una distesa di corallo bianco sotto la luna; e poi ancora a Treblinka, ad Auschwitz, a Terezin, Sachsenhausen sembrava che gli extra volessero comunicarmi qualcosa senza dirlo espressamente. Così dovetti assoggettarmi a quel pellegrinaggio desolante, cercando di progettare a ogni viaggio, su invito di qualche fan club dei dolcissimi, una permanenza accanto alle cattedrali dello sterminio. Di notte uscivo dai piccoli alberghetti nei quali soggiornavo per vagare nei – campi monumento, e le vibrazioni negative della morte di tante povere persone si depositavano a strati nella mia anima. Ma se essi volevano così, come potevo sottrarmi?[4]
Evidentemente le storie del nazismo e dei suoi protagonisti, il deus ex-machina del piano alieno e delle trances temporali di Vic potrebbero essere solo dei pretesti narrativi laddove il vero scopo è l’abbozzo di una cosmologia ambigua e complessa, costruita su elementi di teorie junghiane sulla percezione che si rifanno alla fascinazione “medianica” di Hitler sulle masse tedesche nell’epoca della nascita del totalitarismo, in concerto con elementi di ispirazione anti-positivistica.
Frutto ne è un’epistemologia postmoderna, basata sul disvelamento di una realtà fluida ed implosa, in cui la dimensione temporale è avviluppata con quella spaziale, e in cui vi è una sorta di debole diaframma tra l’una e l’altra delle potenziali, infinite variazioni del reale e tutte sono connesse da un principio metafisico per cui Realtà è Rappresentazione, cioè Informazione, e viceversa Informazione è Realtà:
“Einstein, Heisenberg, Gödel hanno smantellato, all’inizio di questo secolo, le raffigurazioni della realtà fisica” sta dicendo Falco, scandendo con precisione le parole. “La teoria scientifica ha distrutto il sistema di percezione del positivismo. In questo nichilismo nuovo, l’importanza della rappresentazione diventa smisurata: questo spiega come Albert Speer, un architetto, abbia potuto diventare ministro degli Armamenti del Reich e massimo pianificatore della guerra totale. Al processo di Norimberga, Speer dichiarò che la dittatura nazista fu la prima dittatura di uno Stato industriale, e che la smisuratezza dei crimini di Hitler non era dovuta alla sua personalità, ma al fatto che per commettere quei crimini Hitler aveva saputo servirsi, per primo al mondo, della tecnologia.” […] “Hitler non governava: rappresentava, metteva in scena. Nel 1938 dichiarò che le masse hanno bisogno di un’illusione non confinata al cinema o al teatro, ma estesa all’intera vita reale. […][5]
In Ai margini del caos il fenomeno dell’implosione del tempo come viene reso attraverso la costruzione della teoria gnostica di Philip Dick, in Radio Aliena invece l’autore ne enfatizza l’aspetto “virtuale”, sviluppando il principio della Realtà come Rappresentazione con la menzione alla “guerra mediatica di Goebbels” del primo romanzo.
La scrittura è fondata sulla tecnica della giustapposizione, del collage di episodi afferenti a epoche e situazioni diverse, laddove il fulcro del racconto è sintonizzato sulle connotazioni sensoriali ed emotive, che si fondono e si alimentano a vicenda, in un’estetica da spot, diluvio di immagini, schizoide frantumazione dell’esperienza che si sfalda assieme al tempo e diviene flusso, magma senza una direzione poiché compresente e simultaneo, secondo la categorizzazione di Stephen Kern: nella descrizione dell’avanzata dell’Armata Rossa su Berlino, rievocata nella prima memoria di Alpers, l’evento viene fotografato e ricostruito fotogramma per fotogramma attraverso elementi coreografici e quasi cinematografici. Il termine ‘apocalisse’ ritorna di frequente insieme a continui riferimenti biblici, quali ‘armageddon’ e ‘nemesi’; l’autore insiste sulla carneficina, sulla conta dei morti:
I compagni dello Smerš al mio fianco additano i fasci di luce puntati sulle fortificazioni tedesche, ma la mia impressione è di irrealtà, come se le linee difensive del Reich fascista fossero solo una proiezione ottica stampata sulle colline, uno spettacolo cinematografico di dimensioni geografiche che sarebbe piaciuto a Joseph Goebbels, la città-cinema che segna il tramonto della città-teatro, Berlino che divora Hollywood Babilonia. […] A Norimberga, Albert Speer ha trasformato la culla del nazionalsocialismo in una coreografia virtuale, fasci di luce puntati al cielo come colonne classiche per illuminare a chiaro di luna gli stendardi sanguinolenti del partito, una scenografia di fotoni destinata a dissolversi nella luce dell’ alba. […] 1a terra sollevata dall’artiglieria impedisce la visibilità, e il codice Morse dei proiettori che si accendono e spengono trasforma la battaglia in una tragedia da palcoscenico.[6]
Anche la conclusione del romanzo rimanda ad un problema ontologico: tutta la vicenda è stata una sorta di lucida allucinazione della protagonista, frutto di una malattia di tipo psicotico, dovuta a “carenza di realtà”:
Si sente mutilata. Si domanda se sia davvero lei quella che fino al giorno prima ascoltava gli sconclusionati discorsi del generale Alpers attraverso la sua Hasselblad, quella che ipnotizzava Kimberley Miranda e riceveva telefax dallo spazio. Ricorda con una certa precisione gli avvenimenti dei giorni precedenti, ma è come se li avesse seguiti su uno schermo cinematografico, vicende delle quali non era lei la protagonista. L’incanto della malattia si è spezzato. I giorni fra il concerto di sabato sera e ieri, giovedì, sembrano un B-movie seguito a ora tarda su un canale locale. La vita è un sogno nel sogno.[7]
Il secondo genere di memorie nel romanzo sono quelle autentiche, basate sui documenti storici frutto delle testimonianze del nonno di Roberta, che ha vissuto l’esperienza della Guerra Civile Spagnola e dell’internamento nel lager di Majdanek, tra cui la descrizione quasi cronachistica dell’atroce mattanza degli ebrei di Knin, che chiude il libro: il nonno era stato costretto ad assistervi e il trauma prodotto da quell’esperienza l’aveva privato del sonno ed allontanato dalla sua patria per cinquant’anni.
Grazie a questa rievocazione catartica, l’uomo alla fine riesce a tornare sui luoghi della strage ed a riconciliarsi con ciò che vi è accaduto. È lui il portatore del sapere, della testimonianza autentica della Storia, e quindi è anche il portatore del monito affidato all’opera: mostrare la follia della guerra.
Per questo, secondo Paul Ricoeur, la finzione può assumere il ruolo di rivelare e trasformare il passato, aprendo una serie di possibilità anche sul piano etico: in quella forma di rievocazione che mostra il tempo cosmico nel suo aspetto monumentale, attraverso cioè le sue “figure di autorità”, la storia dei vinti, sopraffatta dalla commemorazione della storia dei vincitori, non può riemergere in tutta la sua carica umanizzata ed umanizzante; lo può invece attraverso quell’altra forma di rappresentazione del tempo che è la finzione.
Il concetto è particolarmente pertinente all’opera di Ricciardiello, laddove l’autore mette in scena “l’orrore” delle sofferenze delle vittime: Ricoeur riserva un ‘attenzione particolare alla categoria del «tremendum horrendum»[8], per via del fatto che «aderisce a certi avvenimenti che è «necessario non dimenticare mai»:[9]
Le vittime di Auschwitz sono, per eccellenza, i delegati presso la nostra memoria, di tutte le vittime della storia. L’esperienza delle vittime è questo rovescio della storia che nessuna astuzia della Ragione può arrivare a legittimare e che piuttosto manifesta lo scandalo di qualsiasi teodicea della storia.[10]
L’assunto finale così si riconnette all’ipotesi iniziale: la pratica del racconto consiste in una esperienza mediante la quale ci esercitiamo ad abitare mondi a noi stranieri. È l’immaginario dunque che fa riemergere la categoria dell’Altro nel passato.
© Claudia Gaudenzi
Il presente post è un estratto della tesi di laurea nel 2007 di Claudia Gaudenzi all’Università di Bologna: “Un percorso nella fantascienza italiana: la manipolazione del tempo”
L’immagine in testata, “Il dodicesimo uomo”, è di Nikolai Lockertsen (Norvegia); tutte le altre illustrazioni © Ivan Laliašvili (Russia)
[1] f. Ricciardiello, Radio aliena Hasselblad, Milano, Mondadori, 2002.
[2] Ivi, p. 54.
[3] Ivi, p. 59.
[4] Ivi, p. 168.
[5] Ivi, p. 24.
[6] Ivi, pp. 63-66.
[7] Ivi, p. 199.
[8] P. Ricoeur, Tempo e racconto, III, Il tempo raccontato, Milano, Editoriale Jaca Book, 1988, p. 288.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.