Le leggi dell’ordine etico

La lettura della quarta di copertina spinge a pensare che questo romanzo sia una delle molte, troppe “distopie” (io preferisco dire “nuovo distopico italiano”) che si pubblicano oggi in Italia; sembra che ogni aspirante lettore, al suo primo approccio con il genere, scelga di cimentarsi con uno scenario più o meno catastrofico e il risultato è abbastanza omologante — per non dire deprimente. È questo tutto ciò che riusciamo a fare con gli strumenti della fantascienza?

Non è però il caso di questo romanzo di Maurizio Cometto.

Innanzitutto, la sua scrittura è molto curata, sintomo di una volontà di controllo sul mezzo — e probabilmente di una progettazione a priori, oltre che di un processo di revisione al quale non molti si sottopongono. C’è in giro un’idea romantica per cui la revisione spetterebbe all’editor, o alla casa editrice, mentre l’autore (o l’autrice) avrebbe libertà di espressione, anche a costo di errori di ortografia, consecutio temporis, infodump e altre perle narrative.

Secondo aspetto positivo sono i dialoghi: non vi sono sbavature né infodump (o meglio, ce n’è uno solo, ma attutito, e comunque non è all’interno di un dialogo), i personaggi non parlano soltanto perché si incontrano. L’alternanza tra discorso diretto e pensieri del protagonista è giustamente misurata per suscitare la curiosità del lettore, e favorisce l’immedesimazione.

Terzo elemento, la costruzione del plot riesce a catturare l’attenzione fino dalle prime pagine, che aiutano a empatizzare con il protagonista/punto-di-vista e spingono a continuare la lettura. Cometto inanella uno sull’altro una serie di “quesiti” ai quali noi lettori vogliamo trovare risposta.

Per quanto riguarda l’ambientazione, che con il suo mix di controllo sociale ossessivo e influenza della chimica sulla percezione dei protagonisti, e che mi pare ispirata sia a 1984 di Orwell che al film Matrix delle sorelle Wachowski, è di credibilità decisamente superiore ai distopici che leggo  (o cerco di leggere) ultimamente: l’oppressione non sembra irrazionale ai protagonisti, non dipende dalla volontà di un singolo “dittatore” o da un sistema più o meno vasto. Il controllo è esercitato dai cittadini stessi, e appare sì capillare, ma c’è comunque una certa possibilità di esprimere il dissenso, almeno nel privato.

La trama. Nel corso di una terza guerra mondiale, combattuta in un futuro per noi purtroppo prossimo, l’Italia si isola dal consesso delle nazioni. Sotto l’influenza dell’ideologia dominante, sovranista e xenofoba, qualsiasi contatto con l’esterno viene reciso anche fisicamente, con l’innalzamento di un’impenetrabile muraglia sulle Alpi. Non si sa più nulla dell’estero, c’è chi dubita persino che esistano Stranieri.

Il protagonista, Davide Rebagliati, è quadro di un’impresa che costruisce autoveicoli. Più che uno Stato-Partito, come in 1984, l’Italia di Cometto è uno Stato-Azienda — futuro ben più credibile di tanti altri distopici che scimmiottano Orwell come se il pericolo per la democrazia fosse un’ideologia nazista o marxista, e non il liberismo capitalista). Parzialmente soddisfatto della sua vita, anche se ogni tanto affiorano in lui ricordi del mondo di prima, quando era bambino, Rebagliati scopre che molti suoi colleghi si sono lasciati coinvolgere in una strana forma di evasione, probabilmente clandestina: la condivisione di ricordi in un social, agevolata dall’uso di sostanze chimiche, che riportano alla memoria episodi del passato. Il potenziale sovversivo di questo mezzo di condivisione è evidente, tanto più che sembra in qualche modo collegato con il super-nemico dello Stato, Fossbergher (che ha la stessa funzione di Emmanuel Goldstein in 1984), un’utopia che all’aridità gerarchica, “verticale”, dello Stato- Azienda oppone la comunione “orizzontale” delle emozioni.

Non dirò come prosegue la trama, mi basta un accenno al fatto che non c’è nulla di simile a quelle “pallide rivoluzioni” così amate dal pubblico italiano del nuovo distopico.

Devo dire che la seconda parte mi è piaciuta meno della prima, non perché sia meno efficace o meno credibile, bensì perché è venuto meno quel meccanismo di piccoli misteri che invogliano alla lettura. Non si lascia intuire nulla del finale, che è conseguente alla costruzione narrativa, ma il romanzo mi è sembrato risolto a due terzi della lunghezza, il resto è una coda, un dénouement che fa calare la tensione.

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