«Seguo la via dettata dalla Provvidenza, con la sicurezza di un sonnambulo»

Per fortuna l’editoria si occupa finalmente di smentire uno maggiori timori dei fans di William T. Vollmann: il fatto cioè che i (non) molti suoi testi tradotti e pubblicati in Italia finiscano nel dimenticatoio, nel mondo grigio del fuori-catalogo, nel circuito triste dei remainders. Invece devo constatare che trovare un suo libro sulle bancarelle dell’usato o dei book-crossing è veramente arduo, e, soprattutto, Minimum Fax sta recuperando parte del fuori-catalogo dell’editore Fanucci (I racconti dell’Arcobaleno, Storie della farfalla) e promette nuove traduzioni inedite (The Atlas, Poor People). Se a questo aggiungiamo che Mondadori ristampa negli Oscar Europe Central, allora comincio a illudermi che lo zoccolo duri dei fans italiani di Vollmann sia così vorace da condizionare le scelte editoriali.

Vollmanniani di tutto il mondo, uniamoci!

Ecco dunque il tascabile di 1072 pagine di Europe Central, pubblicato nove anni fa nella collana Strade Blu. È apprezzabile la modestia con cui Vollmann parla di “racconti” a proposito di questo mastodontico, indimenticabile romanzo:

“Questi racconti si fondano su fatti storici, ma con un rigore inferiore rispetto alla serie dei Seven Dreams, Il mio fine, in questo caso, era quello di scrivere una serie di parabole su alcuni famosi, famigerati o anonimi attori morali europei osservati nei momenti di importanti decisioni. I personaggi che compaiono in questo libro sono, in gran parte, realmente esistiti, Ho svolto ricerche sulle loro biografie con tutta la cura di cui sono capace, ma la mia resta pure sempre un’opera di narrativa.”

Non credetegli assolutamente quando parla di “rigore inferiore”: al contrario, le pagine esplodono in faccia al lettore con la violenza integrale della Storia, così minuziosamente documentata che c’è chi ha giustamente scritto di fiction al limite della saggistica. Europe Central racconta “l’incubo delle due grandi dittature totalitarie del XX secolo in guerra tra loro: l’Unione Sovietica e la Germania nazista.” Inizia poco prima dell’invasione della Polonia e termina intorno a metà anni Cinquanta, con qualche epilogo di poco avanti nel tempo.

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«Non c’è un monumento a Babij Jar»

Aykut Aydoğlu, Istanbul

Un giorno del 1961 Evgenij Evtušenko, già affermato poeta, accompagna a Kiev il coetaneo Anatolij Kuznecov, suo compagno di studi all’Istituto di Letteratura. Evtušenko è uno degli autori nuovi usciti allo scoperto grazie al disgelo degli anni di Chruščëv: su di lui come su altri scrittori si focalizzano le speranze di un allentamento della censura, la fine dello ždanovismo. Kuznecov porta l’amico nella località di Babij Jar, alla periferia nordovest della capitale ucraina, e gli racconta ciò che ha visto con i suoi occhi di bambino venti anni prima: il massacro di decine di migliaia di ebrei poco dopo la conquista della città da parte della Wehrmacht, a fine settembre 1941. Vecchi, donne e bambini, più di metà della popolazione israelita di Kiev, furono condotti al grande fossato naturale, fucilati in massa dall’SD e dai collaborazionisti ucraini, e i corpi bruciati. Evtušenko scrisse su Babij Jar una delle sue poesie più famose:

Non c’è un monumento
A Babij Jar
Il burrone ripido
È come una lapide
Ho paura
Oggi mi sento vecchio come
Il popolo ebreo
Ora mi sento ebreo

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