Dodici domande su « Torino »

poste dal prof. Giuseppe Ponsetti e dalle allieve e allievi della V E del Primo liceo artistico statale di Torino durante l’incontro del 29 novembre 2019

D: Quali motivazioni  la hanno spinta a scrivere racconti e romanzi?

R (Franco Ricciardiello): Ho sempre avuto il gusto di scrivere, fino da quando frequentavo le elementari. A scuola ero un bambino distratto e non propriamente brillante, ma imparavo in fretta la grammatica e ricordavo il significato di tutte le parole, come mi sarebbe capitato in seguito per le lingue straniere. Sono sempre stato un grande lettore, fino da quanto avevo sei anni e mia madre, che vendeva giornali in un’edicola, mi portava a casa da leggere fumetti e libri per ragazzi. Alle scuole medie scoprii la fantascienza, mi appassionai incondizionatamente e provai a scrivere i primi racconti. Ero conquistato dal sense of wonder, il senso del meraviglioso, che nella fantascienza è più forte che in qualsiasi altro genere. Andavo alle superiori quando la ragazza di un mio caro amico, anche lui divoratore onnivoro di Urania e altre collane specializzate, gli domandò perché non provasse a proporre un suo racconto alle riviste di settore. Mi dissi “e perché io no? Se qualcuno può pensare questa cosa, significa che si può anche fare.” Cominciai a scrivere quindi racconti brevi, di fantascienza naturalmente perché al tempo non leggevo quasi nient’altro. A vent’anni, lo stesso mese in cui partii militare, pubblicai il primo racconto.

Come definirebbe, come “generi”  la sua produzione  letteraria? Ha senso parlare di generi?

Quelli che chiamiamo “generi letterari” sono una comoda invenzione dell’industria editoriale: etichette da appiccicare sugli scaffali delle librerie, come “giallo”, “noir”, “fantascienza”, “romance”, così il lettore sa cosa aspettarsi e può comprare, in teoria, a scatola chiusa. Non dimentichiamo però che questo è vero per ogni disciplina artistica, che si divide in movimenti, scuole, tendenze, periodi. In questo modo anche gli autori possono sapere in partenza quali caratteristiche piaceranno al loro pubblico potenziale. Come ogni attività umana, la ripetizione di certi elementi dopo un certo tempo satura il gusto del pubblico, di conseguenza adesso fa tendenza il crossover, cioè la commistione di più generi: cioè il giallo di fantascienza, il romance storico, e via dicendo. Il risvolto negativo è che all’interno di un genere si può sviluppare una quantità tale di stereotipi da costituire un linguaggio esoterico, uno stile che certi lettori faticano a comprendere; per fare un esempio, nessun libro di fantascienza spiega cos’è un cyborg, la velocità superluminare, le nanomacchine etc., e questo può frastornare un lettore volenteroso che si avvicina senza conoscere nulla delle sue convenzioni. A me da un lato il genere “fantascienza” fa comodo, perché lo conosco alla perfezione e so cosa si aspettano i miei lettori; d’altro canto, a volte mi sta stretto, e allora ho bisogno di scrivere qualcosa di diverso che non può essere raccontato con la macchina narrativa del poliziesco o della science-fiction.

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Fenoglio, «Una questione privata»

di FRANCO RICCIARDIELLO

Scrive Italo Calvino nella prefazione al suo romanzo sulla resistenza Il sentiero dei nidi di ragno, in occasione della ripubblicazione nel 1964 per il Club degli Editori:

E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo, e morì prima di vederlo pubblicato nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare adesso c’è e il nostro lavoro ha un coronamento, un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata.

Calvino conclude con una frase che è un’ammissione sincera e encomiabile: «È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione: non al mio

Due partigiani sono fermi davanti a una villa presso Alba, nelle Langhe. I proprietari sono probabilmente lontani, a Torino; il partigiano Milton ha chiesto al compagno qualche minuto per abbandonarsi ai ricordi. Questa è la casa di villeggiatura di Fulvia, la sua ragazza.

Quando la rivedrò? Prima della fine della guerra è impossibile. Non è nemmeno augurabile. Ma il giorno stesso che la guerra finisce correrò a Torino a cercarla. È lontana da me esattamente quanto la nostra vittoria.

Il suo compagno Ivan freme, vorrebbe tornare al comando perché teme di incontrare nella nebbia pattuglie di soldati repubblichini; ma Milton è ormai in balia dei ricordi, perché ogni albero intorno alla villa gli ricorda Fulvia.

Era successo proprio all’altezza dell’ultimo ciliegio. Lei aveva attraversato il vialetto ed era entrata nel prato oltre i ciliegi. Si era sdraiata, sebbene vestisse di bianco e l’erba non fosse più tiepida. Si era raccolta nelle mani a conca la nuca e le trecce e fissava il sole. Ma come lui accennò ad entrare nel prato gridò di no. «Resta dove sei. Appoggiati al tronco del ciliegio. Così» poi guardando il sole, disse: «Sei brutto». Milton assentì con gli occhi e lei riprese: «Hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma complessivamente sei brutto». Girò impercettibilmente la testa verso di lui e disse: «Ma non sei poi così brutto. Come fanno a dire che sei brutto? Lo dicono senza… senza riflettere».

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Il millenario Rinascimento dell’anti-Roma

Venezia occupa un posto unico nella storia d’Italia. Per mille anni è stata splendida capitale di uno Stato d’importanza mondiale, la Venetiarum Respublica o Repubblica di San Marco, nota anche solo con l’aggettivo sostantivato Serenissima: mille anni, un periodo lunghissimo, superiore a qualsiasi Stato moderno. La stessa durata del dominio di Roma sul mondo classico, dal 509 a.e.v. (rovesciamento della monarchia) al 476 e.v. (caduta dell’Impero Romano d’occidente, che si fregiò sino alla fine del titolo di res publica). Soltanto un’altra entità statale in Italia ha avuto una consistenza e un’importanza paragonabili: lo Stato della Chiesa, il potere temporale del Pontefice.

L’origine di entrambi gli Stati è da ricercarsi nel disfacimento del dominio bizantino in Italia. La caduta dell’Esarcato di Ravenna avviene nel 751 e.v.; la nascita della Serenissima si può datare a partire da un momento imprecisato, qualche decennio prima dell’810 (trasferimento del governo veneto sull’isola di Rialto), quella del Patrimonio di Pietro dal governo diretto del Papa sul Lazio nel 752. Entrambi hanno termine a distanza di qualche decina di anni, Venezia con il trattato di Campoformio (1797), Roma con l’occupazione dell’esercito italiano (breccia di Porta Pia, 1870).

Venezia e Roma, due Stati gemelli, spesso alleati, ancora più spesso in competizione quando non in guerra diretta. Roma estende i suoi tentacoli su tutta la Cristianità, quella che oggi chiamiamo Europa, concetto che in realtà è nato in contrapposizione aperta con la Chiesa. Venezia è proiettata verso il mare e il Vicino Oriente; contende a Roma con le armi e la diplomazia città e terre di confine in Romagna, le alleanze si rompono e ricompongono, i due sono dalla stessa parte contro l’espansionismo turco, tramano l’uno contro l’altro dieci anni dopo. Se la presenza a Roma del vicario di Dio in terra significa a partire dall’alto Medioevo una pesantissima ipoteca sulla politica italiana, una solida Signoria mercantile a Venezia assicura alla Penisola una proiezione internazionale che la frammentata realtà italiana non avrà mai più.

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