I BAMBINI DEL MAROCCO.
Tutti coloro che hanno fatto un viaggio in Marocco vi ripetono la stessa cosa: è difficile visitare il souq di una delle città imperiali senza che ti si incolli addosso un bambino che ti propone in francese o in italiano, a volte in spagnolo, di farti da guida. Nelle valli a sud dell’Alto Atlante, sotto un profondo cielo africano, ogni volta che ti fermi per fotografare una qasba di sabbia bagnata, i bambini arrivano di corsa per ripetere la loro litania: bon bon? stylo? dirham?
È il 2002. Nella qasba abbandonata di Aït Arbi una bambina di nome Saida mi chiede cinque dirham, io gliene do dieci. Ho lasciato il grosso del gruppo Avventure nel Mondo a pranzare al sacco all’ombra, attraversando i frutteti sulla riva sinistra del Dadès per raggiungere il villaggio bruciato dal sole a metà collina. Incrocio due compagni di viaggio che tornano lungo il sentiero, mi mettono in guardia dalla più aggressiva fra i bambini che li seguono poco distante con i visetti furibondi: ha tirato sassi dopo avere chiesto senza successo qualche dirham. Invece di evitarla sorrido, fingendo reticenza; lei adotta subito un atteggiamento da padrona della situazione. Ha dieci anni, si chiama Saida e porta spillata al dolcevita la chiave d’ingresso della qasba diroccata. La seguo.