E se la fantascienza ci salvasse dal fascismo?

Autori, traduttori ed editori riflettono sulla necessità di sostituire le distopie con utopie, poiché il loro messaggio può essere conservatore e reazionario

di Laura L. Ruiz, da El Salto

“Stelle cadenti” di Jurij Švedov, Mosca (Russia)

Gli inquilini di un vecchio edificio affrontano l’avidità di speculatori che vogliono cacciarli per costruire appartamenti di lusso. Dibattono se rinunciare o restare fino a quando non ricevono un aiuto alieno, e insieme intraprendono la battaglia per le loro case. Questo, che potrebbe sembrare l’ennesimo caso per PAH[1], è un film di fantascienza del 1987. In Miracolo sull’8a strada si parla di solidarietà, sostegno reciproco, giustizia sociale e resistenza grazie all’alleanza che si genera tra i residenti dell’edificio e alcuni piccoli esseri extraterrestri che finiscono per sbaglio tra loro.

Può davvero un film per bambini trasmettere un messaggio più progressista di IL racconto dell’ancella di Margaret Atwood o di 1984 di George Orwell? “Entrambe sono denunce del potere e fanno analisi piuttosto brillanti, come i concetti di bispluspensiero o neolingua, ma allo stesso tempo rappresentano un mondo da cui non c’è via d’uscita”, afferma Layla Martínez, collaboratrice di El Salto, scrittrice ed editrice di Antipersona.

“Penso che Orwell e Atwood volessero scrivere — e così fecero — importanti denunce del potere, ma i loro libri finiscono per provocare scoramento piuttosto che una lotta per cambiare le cose. Inoltre, il problema nasce quando questa è l’unica fiction che viene prodotta, quando vengono generati migliaia di serie, libri, fumetti, videogiochi su mondi distopici, e praticamente nessuno ambientato in un mondo migliore”, insiste.

Questa è precisamente una delle premesse che sia Martínez che Irati Jimenez difesero all’Ansible Fest, il primo festival di fantascienza femminista della Spagna, che includeva un tavolo sulla fantascienza e l’antifascismo sulla cui porta era affisso “posti esauriti” a causa dell’enorme interesse generato. “Quando pensiamo al fascismo pensiamo a aspetti come l’economia o l’immigrazione, ma a volte dimentichiamo la misoginia. Il fascismo è anti-donna, antifemminista e anti-femminile. È la morte”, ha detto Jiménez, co-curatrice di Sci-Fem. Variaciones feministas sobre teleseries de ciencia ficción, pubblicato da Txalaparta. “Dobbiamo distinguere a proposito di fascismo tra fiction che parlavano di nazismo (come Hunger Games o V) e altre che si occupano di democrazie in deterioramento con tagli ai diritti civili (come Battle Royale, Years and years o I figli degli uomini)”, ha specificato Martínez. Tutte distopie e pochissime utopie, mondi alternativi di speranza come Star Trek, il fumetto Mirror di Emma Ríos o il romanzo I reietti dell’altro pianeta di Ursula K. Le Guin.

“Questo la dice lunga — ha proseguito Martínez — su come stiamo vivendo oggi questa cosa: non siamo in grado di immaginare un orizzonte diverso, migliore, e così si genera un discorso molto reazionario e conservatore”.

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Dodici domande su « Torino »

poste dal prof. Giuseppe Ponsetti e dalle allieve e allievi della V E del Primo liceo artistico statale di Torino durante l’incontro del 29 novembre 2019

D: Quali motivazioni  la hanno spinta a scrivere racconti e romanzi?

R (Franco Ricciardiello): Ho sempre avuto il gusto di scrivere, fino da quando frequentavo le elementari. A scuola ero un bambino distratto e non propriamente brillante, ma imparavo in fretta la grammatica e ricordavo il significato di tutte le parole, come mi sarebbe capitato in seguito per le lingue straniere. Sono sempre stato un grande lettore, fino da quanto avevo sei anni e mia madre, che vendeva giornali in un’edicola, mi portava a casa da leggere fumetti e libri per ragazzi. Alle scuole medie scoprii la fantascienza, mi appassionai incondizionatamente e provai a scrivere i primi racconti. Ero conquistato dal sense of wonder, il senso del meraviglioso, che nella fantascienza è più forte che in qualsiasi altro genere. Andavo alle superiori quando la ragazza di un mio caro amico, anche lui divoratore onnivoro di Urania e altre collane specializzate, gli domandò perché non provasse a proporre un suo racconto alle riviste di settore. Mi dissi “e perché io no? Se qualcuno può pensare questa cosa, significa che si può anche fare.” Cominciai a scrivere quindi racconti brevi, di fantascienza naturalmente perché al tempo non leggevo quasi nient’altro. A vent’anni, lo stesso mese in cui partii militare, pubblicai il primo racconto.

Come definirebbe, come “generi”  la sua produzione  letteraria? Ha senso parlare di generi?

Quelli che chiamiamo “generi letterari” sono una comoda invenzione dell’industria editoriale: etichette da appiccicare sugli scaffali delle librerie, come “giallo”, “noir”, “fantascienza”, “romance”, così il lettore sa cosa aspettarsi e può comprare, in teoria, a scatola chiusa. Non dimentichiamo però che questo è vero per ogni disciplina artistica, che si divide in movimenti, scuole, tendenze, periodi. In questo modo anche gli autori possono sapere in partenza quali caratteristiche piaceranno al loro pubblico potenziale. Come ogni attività umana, la ripetizione di certi elementi dopo un certo tempo satura il gusto del pubblico, di conseguenza adesso fa tendenza il crossover, cioè la commistione di più generi: cioè il giallo di fantascienza, il romance storico, e via dicendo. Il risvolto negativo è che all’interno di un genere si può sviluppare una quantità tale di stereotipi da costituire un linguaggio esoterico, uno stile che certi lettori faticano a comprendere; per fare un esempio, nessun libro di fantascienza spiega cos’è un cyborg, la velocità superluminare, le nanomacchine etc., e questo può frastornare un lettore volenteroso che si avvicina senza conoscere nulla delle sue convenzioni. A me da un lato il genere “fantascienza” fa comodo, perché lo conosco alla perfezione e so cosa si aspettano i miei lettori; d’altro canto, a volte mi sta stretto, e allora ho bisogno di scrivere qualcosa di diverso che non può essere raccontato con la macchina narrativa del poliziesco o della science-fiction.

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“La Salvineide”. Sulla genesi della canzone popolare di protesta

di FRANCO RICCIARDIELLO

Venerdì 24 maggio ho avuto il privilegio di essere presente, durante la festa di chiusura della campagna elettorale amministrativa della mia città, alla prima esecuzione pubblica di La Salvineide, una ballata satirica che Alice “Uli” Protto, vocalist della band Maleducatones, ha scritto in occasione dell’arrivo di Matteo Salvini, segretario generale della Lega e Ministro degli Interni. «Non potendo unirmi alla protesta di persona» ha scritto l’autrice sulla sua pagina facebook, in riferimento alle contestazioni organizzate da Vercelli Antifascista, «ho deciso di scrivere un inno per l’occasione, dal titolo La Salvineide (libera riscrittura del canto partigiano La Badoglieide). È un inno, è di tutti noi.»

Il testo mi offre l’occasione per qualche riflessione sulla genesi popolare della canzone di protesta. La Salvineide infatti non è una goliardata, bensì un perfetto esempio di canto a sfondo sociale, nel solco dell’evoluzione del genere nell’ambito della musica popolare del Novecento.

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