Franco Ricciardiello e la Scrittura
La sesta puntata del racconto sul mio rapporto con la scrittura è presa dalla prefazione al romanzo “Radio Hasselblad”, che ho reso disponibile in autopubblicazione dopo che è uscito dal catalogo Mondadori: racconta l’inizio del nuovo millennio, la pubblicazione di “Aux frontières du Chaos” in Francia presso Gallimard, e poi altre traduzioni in Francia e Grecia; termina con la vittoria al premio Gran Giallo Città di Cattolica.
continua dalla quinta parte
Io e lei, parte III
(da Franco Ricciardiello, “Radio Hasselblad”, 2015)
Il nuovo millennio si apriva per me sotto i migliori auspici. La notte di San Silvestro inaugurai l’anno 2001 iniziando la lettura di Mason & Dixon di Thomas Pynchon, acquistato un mese prima e messo da parte per l’occasione. Oramai la fantascienza aveva uno spazio sempre minore nelle mie letture. A Pynchon ero arrivato grazie alla “guida schematica” scritta da Richard Kadrey e Larry McCaffery in appendice al volume rilegato Cyberpunk curato da Piergiorgio Nicolazzini per l’Editrice Nord. Già qualche anno prima avevo letto V. e L’incanto del lotto 49, anche se fu L’arcobaleno della gravità a cambiare la mia idea di letteratura. Da Pynchon in poi il mondo aveva un sapore nuovo, e lo sterminato continente postmoderno sul quale mi affacciai (DeLillo, Wallace, Gaddis, Vollmann, Rushdie, Eco, Chandra, Murakami, Mo Yan e molti altri ancora) è ancora in buona parte da esplorare.
Il 18 gennaio 2001 apparve nella collana Imagine della casa editrice Flammarion il romanzo Aux frontières du chaos, edizione francese di Ai margini del caos. Avevo ottenuto dal traduttore Jacques Barbéri di supervisionare in anteprima il testo. In primavera fui invitato ufficialmente alle Utopiales a Nantes, grande appuntamento della fantascienza transalpina, insieme a autori di tutta Europa. In Francia era davvero il momento degli italiani, grazie al fantastico exploit di Valerio Evangelisti che ci aveva trascinati con sé, a partire da Luca Masali che ebbe un buon successo con la traduzione di I biplani di D’annunzio.
Non era la prima volta che partecipavo a un congresso francese: ero già stato a quello di Nancy e anche a Poitiers, in entrambi i casi insieme a Nicolazzini, che era divenuto il mio agente letterario, e ogni volta avevamo fatto tappa a Parigi. In una di queste occasioni ci recammo in visita alla sede di Flammarion, che allora era in rue Racine, pieno Quartiere latino; incontrammo l’editor Jacques Chambon, che purtroppo sarebbe morto prematuramente pochi anni dopo. In occasione della presentazione al pubblico dell’antologia Fragments d’un miroir brisé, raccolta di autori italiani selezionati da Evangelisti, conobbi un altro editor, Doug Headline, e anche Cesare Battisti, che in quegli anni non era ancora famoso perché la sua latitanza non sembrava indignare che i pochi che in Italia si ricordavo di lui. Battisti era ben inserito nel milieu letterario parigino, e pubblicava romanzi neri per Payot.
Il 2001 fu un anno anomalo nella mia carriera: l’unico in cui fui pubblicato solo all’estero e non in Italia. Sulla raccolta Utopiae 2001- Fin de l’Odyssée? apparve Torino nella traduzione di Éric Vial. Intanto Aux frontières du chaos raccoglieva in Francia molte recensioni, quasi tutte positive; quella su Litteraire.com, a firma di Isabelle Roche, arrivò a commuovermi:
Au fond, c’est la sensation confuse que ce roman n’obéit à aucun des codes romanesques habituellement en vigueur qui dérange tant. […] L’expérience qui constitue la lecture de ce livre se situe, elle aussi, “aux frontières du chaos”. In fondo, è la confusa sensazione che questo romanzo non obbedisca a nessuno dei codici romanzeschi in vigore che disturba tanto. L’esperienza che costituisce la lettura di questo libro si situa, essa stessa, “ai margini del caos”.
Finalmente riuscii a vedere dal vero L’isola dei morti, il dipinto che costituisce l’ispirazione del mio romanzo, al Musée d’Orsay a Parigi, dove fu allestita una mostra temporanea dedicata a Böcklin. C’era anche la versione custodita al Kunstmuseum di Berna; e non è senza emozione che nel filmato promozionale proiettato sullo schermo TV, quando la voce narrante parlò delle molte opere ispirate dal dipinto a oltre un secolo di distanza, vidi scorrere anche la copertina di Aux frontières du chaos.
Visto il successo di Ai margini del caos, durante una cena a Nantes con Nicolazzini e Giuseppe Lippi, quest’ultimo mi lanciò la proposta di scrivere un nuovo romanzo per Urania, senza passare dalla partecipazione al Premio letterario. Ormai da qualche anno la collana ospitava regolarmente autori italiani, non soltanto Evangelisti con la serie di Eymerich ma anche altri finalisti del Premio, come Nicoletta Vallorani. Lippi mi chiese abbastanza esplicitamente un seguito di Ai margini del caos, cosa che non mi sentivo di fare perché mi pareva di avere già detto tutto ciò che mi interessava. Però nei giorni seguenti ci ripensai; dopo la pubblicazione del mio romanzo c’era stata l’apertura degli archivi dei servizi segreti sovietici, con nuove informazioni sulle indagini intorno alla morte di Adolf Hitler che non contraddicevano nulla di quanto avevo scritto, ma aggiungevano particolari suscettibili di uno sviluppo letterario.
Decisi perciò di scrivere un sequel che non fosse un sequel, con personaggi completamente diversi e una storia totalmente differente; in comune tra i due romanzi non rimane molto: l’ambientazione tra Torino e Berlino, la morte di Hitler e la paranoia come motore della trama. A volere davvero trovare una contiguità tra Ai margini del caos e Radio Aliena Hasselblad, si può considerare che il primo racconta il suicidio di Adolf Hitler nel bunker della Cancelleria, il secondo segue le vicissitudini del cadavere.
Il palinsesto del romanzo, per una lunghezza di quattro o cinque pagine, piacque a Lippi. Però ritenne che avesse poco carattere fantascientifico per apparire su Urania; mi fece una battuta: avrebbe voluto più “omini verdi”, così ripresi la scaletta del romanzo e lo trasformai in quello che divenne Radio Aliena Hasselblad, che fino dal titolo strizza l’occhio a Philip K. Dick e al suo Radio Libera Albemuth. Il titolo è tra l’altro un piccolo giallo: “Radio Aliena Hassselblad” era solo un titolo di lavorazione, quello con il quale firmai il contratto di cessione dei diritti, ma prima di andare in stampa decidemmo di comune accordo per “Radio Hasselblad”. Il romanzo uscì nel giugno 2002 mentre io mi trovavo in Marocco, e al mio ritorno in Italia trovai la sgradita sorpresa del titolo sbagliato e di una copertina talmente brutta che non ho mai organizzato una presentazione pubblica di quel libro, tra l’altro distribuito solo in edicola.
Come già era accaduto per Ai margini del caos, non riuscii a resistere alla tentazione di seguire da lontano il dibattito sulla mailing list degli appassionati di fantascienza. Ernesto Vegetti etichettò il romanzo come filo-sovietico. Una fan mi accusò di avere speculato con scene truculente sulla tragedia dell’olocausto nei campi di sterminio, dal momento che riteneva la fantascienza un genere avventuroso al livello di letteratura d’evasione. Non ho bisogno di specificare che dissento totalmente con questa riduzione di un genere letterario all’interno di regole stilistiche e di contenuto che non hanno senso: come ha dimostrato la caduta del muro che separa la science fiction dalla narrativa mainstream, la contaminazione di paradigmi tra i generi è un forte stimolo culturale.
Poco prima che apparisse il romanzo, Andrea Carlo Cappi, conosciuto in occasione della presentazione milanese di Ai margini del caos, che dirigeva la casa editrice Addictions, accettò per la pubblicazione due miei racconti: sull’antologia La donna nel ritratto apparve una riedizione riveduta di Adriana, apparso qualche anno prima sotto pseudonimo sullafanzine Intercom; su M – la rivista del mistero fu invece ripubblicato il breve Esperimento sulla persistenza dell’immagine apparso tre anni prima su Pulp.
La pubblicazione su Urania apriva a un autore italiano un ventaglio di nuove possibilità; significava essere conosciuto dagli appassionati e anche da tutti gli operatori del settore. Come già avevo sperimentato anni prima con l’editoria amatoriale, quando il mio nome aveva cominciato a circolare sulle fanzine, erano i curatori di raccolte e gli editor a contattarmi per chiedere di scrivere testi ad hoc.
Una delle iniziative più professioni alle quali partecipai fu l’antologia In fondo al nero pubblicata da Mondadori come Millemondi Horror nel 2003; il curatore Gian Franco Nerozzi si dimostrò molto attento alle selezioni e alla revisione dei testi; ogni racconto doveva presentare uno dei classici mostri della narrativa horror e contenere un esplicito riferimento musicale. Io scelsi il ghoul, il vampiro della tradizione iranica già presente nelle Mille e una notte, e un brano della cantante turca Sertab Erener. Il racconto era è tra Roma, Istanbul e una fortezza deserta visitata in sogno; il titolo è Selvagge città dei sogni, la parte onirica nasce da un sogno raccontatomi da un’amica.
Anche l’attività di Piergiorgio Nicolazzini come agente letterario continuava a vele spiegate; fu lui nel corso del 2002 a ottenere la pubblicazione in Grecia di cinque miei racconti degli anni Ottanta sul supplemento del quotidiano Eleutherotypia. L’anno successivo la casa editrice francese Nestiveqnen preparò un’antologia di racconti steampunk intitolata Passés Recomposés, Éric Vial (conosciuto durante la mia frequentazione dei congressi di fantascienza francesi) fu il traduttore. Finalmente l’antologia Destination 3001 a cura di Jacques Chambon e Robert Silverberg fu tradotta da Mondadori e pubblicata nel 2004 con il titolo Destinazione: 31° secolo; la redazione avrebbe voluto operare una selezione dei racconti ma Nicolazzini e l’editore francese ottennero la pubblicazione integrale; non ho idea se il mio racconto sarebbe stato fra quelli eventualmente selezionati.
La passione per James Ballard mi portò anche all’avventura di partecipare a due incontri pubblici dedicati al maestro inglese. Il primo invito mi giunse dall’università e dal comune di Cosenza, dove fui convocato insieme a Roberto Sturm, Nico Gallo, Riccardo Delle Luche, Mariano Equizzi, per un convegno articolato su più giornate, durante il quale tenni anche un incontro di presentazione della Scrittura creativa. Questo valse un successivo invito agli stessi relatori, più Antonio Caronia, per un analogo convegno organizzato a Napoli da un’asssociazione di sostegno alle donne colpite da tumore; il nostro tramite nel secondo caso fu Maria Iuorio, conosciuta a Cosenza. Entrambe le occasioni furono esperienze magnifiche. Non molto tempo dopo, partecipai a un terzo convegno a Torino, questa volta dedicato a Philip K. Dick, durante il quale ebbi finalmente l’occasione di conoscere Vittorio Barabino, l’autore e curatore della Franco Ricciardiello Home Page su Internet. Tra i relatori c’era anche Darko Suvin, che era venuto a abitare in Italia. Il mio intervento si intitolava “Lilo Topčev sognatrice d’armi: sesso e fascismo in P.K.Dick”.
Eppure, più passava il tempo e meno mi sentivo coinvolto nella fantascienza. La fine del movimento cyberpunk e l’esplosione del genere fantasy provocarono il mio progressivo disimpegno. In quegli anni, la fantascienza si era ridotta al 10% delle mie letture. Non trovavo più nulla di interessante nelle novità, e avevo letto tutto del glorioso passato quasi secolare della science fiction. Non volevo più che il mio nome rimanesse legato a un genere che aveva cessato di costituire la mia lettura preferita. Siccome cresceva in parallelo il mio gusto per il noir, il giallo, il thriller, decisi di mettermi alla prova in un nuovo genere che stava vivendo una fioritura senza precedenti.
Negli stessi anni molti autori si avvicinarono al noir e soprattutto al giallo, che diventava il genere privilegiato di investigazione del reale, in anni in cui la letteratura mimetica era sempre meno frequentata. Negli anni Sessanta, il giallo metafisico in Italia era prerogativa di Leonardo Sciascia, e veniva tollerato come un vezzo di un autore dallo stile molto raffinato, un tentativo di nobilitare la letteratura popolare; anche Umberto Eco aveva esordito nella narrativa con un giallo, Il nome della rosa, e poi con quello straordinario romanzo nel sottogenere della “teoria del complotto” che è Il pendolo di Foucault. Poca tolleranza era invece riservata, per esempio, a Giorgio Scerbanenco, considerato sempre e solo come autore di genere. Fu solo all’inizio del nuovo secolo, con Andrea Camilleri in Italia e poi soprattutto di riflesso, dopo l’esplosione dei giallisti svedesi sulla scia di Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson, che gli scaffali delle librerie cominciarono a riempirsi di giallisti.

Il pubblico sembrava prediligere i personaggi seriali, protagonisti di una serie di indagini, che garantivano la sicurezza di ritrovare un prodotto già conosciuto. Un tempo c’erano Maigret, Poirot, Ellery Queen e altri, Nancy Drew nel giallo per ragazzi; ma a partire dal cambio di secolo gli autori si moltiplicarono, come pure gli investigatori, professionisti e dilettanti: commissari di polizia, ufficiali dei carabinieri, medici legali, giornalisti, preti, baristi, insegnanti e via dicendo. Come era accaduto anche con la fantascienza, gli autori italiani riuscirono a arrivare alla grande editoria, e vi fu un fiorire di pubblicazioni dopo la comparsa dei romanzi del commissario Montalbano scritti da Andrea Camilleri.
Dal momento che trascuravo le letture fantascienza a favore del genere poliziesco, decisi di cominciare a scrivere gialli. Gli autori si moltiplicavano, e anche case editrici non specializzate si lanciavano con una collana di romanzi d’indagine. Il passaggio tuttavia non fu assolutamente facile; all’interno di Mondadori ogni collana sembrava una repubblica a parte, e il fatto che già avessi pubblicato due volte su Urania e fossi sotto contratto decennale non era garanzia di accesso a un’altra collana da edicola.
Arrivai comunque a pubblicare un racconto in appendice a Il Giallo Mondadori, però in quanto primo classificato al premio Gran Giallo città di Cattolica, che in passato aveva laureato autori divenuti celebri, come Bruno Gambarotta, Carlo Lucarelli, Valerio Massimo Manfredi. Mi posi il problema di quale racconto scrivere; in quel momento stavo leggendo un giallo di Giulio Leoni di ambientazione storica, uno dei primi della serie in cui a indagare è Dante Alighieri. Feci qualche ricerca su una figura storica che trovavo particolarmente stimolante, Leonardo da Vinci, e mi stupii che nessun autore l’avesse ancora trasformato in uno dei numerosi “detective” storici come per esempio Aristotele e, appunto, Dante. Se si escludono i classici pseudo-misteri intorno alla vita del grande toscano, è indubbio che uno degli eventi ancora oscuri è il grande affresco a encausto sulla parete di Palazzo Vecchio a Firenze, ricoperto in anni successivi (forse si trova ancora sotto gli attuali affreschi). Leonardo aveva tentato il recupero di una tecnica artistica dell’antichità classica che prevedeva l’uso di fonti di calore per fissare il materiale, ma l’operazione si convertì in un disastro. L’affresco illustrava la battaglia di Anghiari, tra i fiorentini e i milanesi, avvenuta sullo stradone di Sansepolcro il 29 giugno 1440; nel racconto Battaglia d’Anghiari ricostruivo sia il combattimento (di fantasia) che la ricerca del colpevole di un efferato omicidio compiuta da Leonardo alcuni anni più tardi.
Non mi aspettavo un risultato così lusinghiero al mio primo tentativo nel giallo: con il genere fantascienza avevo fatto anni di gavetta prima di vedere qualche riconoscimento. Invece un giorno dell’estate 2005 mi arrivò a casa una telefonata dell’editore Mario Guaraldi, co-organizzatore del più prestigioso premio letterario del genere giallo, con la splendida notizia: avevo vinto il primo premio.
Partii per Cattolica con la mia nuova compagna Mariella, salì anche Roberto Sturm da Ancona per essere presente alla cerimonia di premiazione. Consegnò il premio Valerio Massimo Manfredi, che si dilungò a raccontare al pubblico la vicenda dell’enkaust di Leonardo da Vinci. La sera, dopo un brunch di pesce in un locale in riva al mare, ci fu offerto il privilegio di assistere alla riduzione teatrale di Lolita di Nabokov, scritta e messa in scena da Stefano Benni. Fu una delle giornate indimenticabili della mia vita.
Battaglia d’Anghiari apparve in appendice a Il Giallo Mondadori n. 2870 nell’autunno dello stesso 2005. L’estate dell’anno precedente avevo terminato un’esperienza da amministratore pubblico nella mia città, in una giunta di centrosinistra; in seguito ero stato eletto consigliere comunale ma avevo dato le dimissioni dopo un anno, evitando da quel momento in poi di esercitare attività politica, nella convinzione che ognuno dovrebbe mantenersi nel campo nel quale risulta capace.
Nel 2006 partecipai a Arezzo Wave, il famoso festival musicale toscano, durante il quale Mirko Tavosanis e Fabio Gadducci avevano organizzato una serie di incontri dedicati alla fantascienza, che comprendevano anche una mia breve lezione di scrittura creativa. Alla manifestazione era abbinato anche un concorso dell’editore Fanucci: cinque autori conosciuti, cioè Bruce Sterling, Joe Lansdale, Valerio Evangelisti, Giampaolo Simi e il sottoscritto, prepararono altrettanti ipotetici incipit di racconti di fantascienza, a partire dai quali i partecipanti avrebbero dovuto costruire un intero racconto. I dieci finalisti apparvero in un volume a stampa intitolato SpaceWave, però io non mi aspettavo di dovere effettivamente scrivere un racconto dal mio incipit, come mi fu chiesto in corso d’opera. Scrissi in fretta e furia Vedute di continenti immaginari. Tra l’altro ebbi anche la delusione di constatare che uno dei due finalisti che avevano scelto il mio incipit, l’aveva fatto con un certo cattivo gusto.
Frattanto, incoraggiato dal fortunato esordio nel giallo, mi cimentavo con nuovi racconti. Rita, Rita si classificò al primo posto alla settima edizione del Premio Orme Gialle (2002); era ambientato a Ivrea nei primi anni dell’automazione elettronica, nei laboratori della Olivetti che negli anni Sessanta era un’eccellenza nel mondo dei computer.
Malgrado questo racconto rimanesse inedito, non mi scoraggiai e partecipai ancora a altri concorsi, immaginando di replicare lo stesso metodo di approccio all’editoria professionale seguito con la fantascienza. Mi piazzai tra i finalisti di un successivo Orme Gialle edizione 2005, con un racconto intitolato Il mercato d’inverno, nel quale il delitto matura in una fabbrica. I dieci finalisti furono pubblicati in volume due anni dopo. Pure ambientato in una fabbrica occupata dagli operai, che mettono in scena una rappresentazione di Santa Giovanna dei Macelli di Brecht, il racconto Tebe dalle Sette Porte fu inviato a alcuni concorsi ma senza esito.
Tuttora è inedito[1].
Mi ero comunque accorto che se volevo avere qualche chance di pubblicare un’opera più lunga, dovevo continuare a lavorare in diversi generi letterari. Purtroppo le vie che sembravano essersi aperte per arrivare all’editoria professionale si erano nel frattempo estinte: Jacques Chambon, il mio riferimento in Francia, era scomparso prematuramente. Piergiorgio Nicolazzini aveva ampliato l’attività della sua agenzia letteraria PNLA, che arrivò a rappresentare Giorgio Faletti oltre a diversi autori stranieri con le case editrici italiane; ma io non ero né potevo essere un autore a tempo pieno. Infine, alla redazione pocket di Mondadori era cambiato tutto: nel giallo si erano succeduti Sandrone Dazieri e Alan D. Altieri, Giuseppe Lippi non era più il curatore di Urania, la cui responsabilità fu affidata a Franco Forte, che conoscevo personalmente ma con il quale i rapporti si erano guastati irrimediabilmente.
Per quanto riguarda le opere lunghe, proseguii dunque a lavorare in tre direzioni.
Innanzitutto la fantascienza, però non riuscii più a pubblicare romanzi. Era già stato verificato come fosse possibile per un autore vincere più di una volta il Premio Urania, anche a anni di distanza, per cui mi cimentai nella scrittura di un nuovo romanzo; La corazzata Termidoro è una storia di viaggi nel tempo che ricostruisce il colpo di stato che rovesciò Maximilien de Robespierre e il Comitato di salute pubblica, alternati a capitoli ambientati in una Parigi del futuro prossimo. A quanto mi risulta, non arrivò neppure nella rosa dei finalisti[2].
Non ricordo se inviai al Premio Urania anche l’altro mio romanzo di fantascienza tutt’ora inedito, Einstein e la Luna: una storia che giocando intorno ai paradossi della meccanica quantistica è ambientata tra gli immigrati italiani in America, in un mondo parallelo in cui Lenin è morto in esilio e la Rivoluzione bolscevica non è mai scoppiata, ma in compenso nel 1929 il crollo della Borsa di New York ha trasformato gli Stati Uniti in una repubblica socialista[3].
Scrissi anche un romanzo che potrebbe forse essere classificabile come “storia segreta”, un sottogenere che aveva estimatori nel periodo successivo al colossale exploit di Il codice Da Vinci: l’idea base è quella di un manoscritto che dimostra come ai tempi di Keplero l’universo fosse effettivamente geocentrico, e che solo l’osservazione scientifica l’abbia creato così com’è oggi. Anche questo romanzo, ancora senza titolo definitivo, è inedito.
L’opera di fiction più lunga che io abbia mai scritto, oltre un milione di caratteri, mi prese invece sette anni di lavoro, dal 2003 al 2010, sovente interrotto da altri progetti. L’Arte della Fuga è costruito su 19 capitoli, ognuno dei quali ha il titolo di uno dei contrappunti contenuti in Die Kunst der Fuge di J.S. Bach; alterna una storia ambientata al presente e una serie di episodi nel passato, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Protagonista principale è il figlio di un militante comunista in esilio in Unione Sovietica, che durante la guerra combatte nell’Armata Rossa, cade prigioniero della Wehrmacht e viene internato in un campo di sterminio. Anche questo romanzo è al momento inedito.
La terza via che scelsi di seguire ebbe migliore fortuna. Nel campo della letteratura poliziesca, il premio più ambito è l’Alberto Tedeschi, che prevede la pubblicazione su Il Giallo Mondadori; partecipai senza successo con un romanzo giallo, il primo che scrivevo, e che avrebbe in seguito vinto il primo premio del concorso Delitto d’Autore 2007, consistente nella pubblicazione in una discreta tiratura destinata alle sedi locali dell’ACSI (Associazione Centri Sportivi Italiani). Intitolato Autunno Antimonio, è la storia di un’indagine cui è costretto un ex ufficiale di Pubblica sicurezza che nel 1951, dopo avere ucciso accidentalmente un ragazzo, ha dato le dimissioni per raggiungere in Nepal un aviatore inglese conosciuto quand’era partigiano, con l’intento di avviare un servizio postale aereo verso l’India. Dopo avere assistito casualmente alla tragica morte di una bambina candidata a divenire una dea vivente delle corporazioni di Kathmandu, il protagonista si trova costretto a scoprire il movente e l’assassino.
La pubblicazione di Autunno Antimonio risale all’ottobre 2007; da quel momento iniziò un periodo in cui non avrei pubblicato più nulla; oramai leggevo pochissima fantascienza, di conseguenza avevo smesso di scriverla; ero in disaccordo completo con la produzione anglosassone e ritenevo che il cinema di effetti speciali avesse definitivamente rovinato il genere; però non ero veramente riuscito a trovare uno sbocco nel giallo, forse perché avevo la presunzione di scrivere ciò che interessava a me e non quello che richiedeva il mercato, in particolare personaggi seriali che garantissero al lettore la tranquillità di un prodotto da quale si sa cosa c’è da aspettarsi.
Per tutte queste ragioni la mia attività di autore si fermò temporaneamente, anche se non pensai mai a smettere di scrivere; questo periodo si protrasse per tre anni, fino al 2010, quando iniziò il mio ritorno alla scrittura di science fiction in una direzione nuova e inedita.
Franco Ricciardiello, 2015
6 – continua
Note
[1] È stato pubblicato nel giugno 202 nell’antologia “Lo zar non è morto”, Kipple edizioni librarie
[2] Il romanzo è stato pubblicato nel 2016 da Delos Digital con il titolo Termidoro.
[3] Pubblicato da meridiano Zero nel 2018 con il titolo Nell’ombra della Luna.
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