Io e Lei

Franco Ricciardiello e la Scrittura

Inizio a pubblicare in una serie di post successivi, data la lunghezza, questo racconto, che spero risulti esaustivo, sul mio rapporto con la scrittura.
La stesura delle prime parti risale a molto tempo fa.
Nel 1989 Danilo Santoni propose a alcuni collaboratori fissi della sua fanzine Intercom di scrivere un testo intitolato Io e lei, dedicato al rapporto personale con la fantascienza; se non ricordo male ne apparvero tre edizioni su numeri consecutivi, a firma del sottoscritto, di Roberto Sturm e di Santoni stesso. Nel mio intervento raccontavo di come mi fossi lasciato sedurre dal sense of wonder fin da ragazzo, e dei miei esordi nella narrativa di genere; scrissi poi un seguito, dalla fine degli anni ottanta e fino all’inizio del nuovo millennio, per la prefazione dell’antologia Compagno di viaggio uscita nell’agosto 2015 dall’editore Marco Cordero. La terza parte apparve per la prima volta come prefazione all’edizione eBook del mio romanzo Radio Hasselblad, uscito originariamente su Urania Mondadori nel 2002 con il titolo Radio aliena Hasselblad, rimesso a disposizione del pubblico come auto-produzione dopo essere uscito dal catalogo.
Ho poi deciso di continuare periodicamente il racconto; ho quindi scritto la quarta parte, che racconta il periodo dal 2011 al 2020, all’inizio del 2021.

Nel 1981, a 19 anni, appena prima del servizio militare

Io e Lei: Franco Ricciardiello e la fantascienza

(da Intercom n. 105/106, 1989)

C’è una poesia di Federico García Lorca che inizia così: Per ricercare la mia infanzia, Dio mio!, ho mangiato arance marce, vecchi giornali, colombaie vuote. Nel leggerla la prima volta, mi parve di sentire sotto i denti un sapore usato, che senza bisogno di indagare a fondo ricordai essere quello di Quarta dimensione di Lino Aldani, biblioteca circolante di Vercelli: quel sapore misto di carta umida e sogni macerati che centellinavo leggendo già nel tornare a casa, in strada: Buonanotte Sofia, Tecnocrazia integrale, La luna delle venti braccia, titoli mitici per la science-fiction italiana. Ho rivisto, parecchi anni dopo, la medesima copia del volume a casa di Gian Piero Prassi, che a sua volta l’aveva presa in prestito, ed è stato come ritrovare per un attimo qualcosa di perduto, una di quelle sensazioni che i maestri del pensiero greco ritenevano fossero rivelatrici di una vita precedente o di una categoria d’idee universali.

Non ho avuto il coraggio di riaprire il volume.

Il mio rapporto con la fantascienza non è iniziato a quell’età, quattordici anni, ma il primo approccio con la fantascienza italiana sì; e forse è stato grazie ad Aldani se non ho mai nutrito pregiudizi per gli autori nostrani. Cosa aveva Quarta dimensione da invidiare a Paese d’ottobre o a Anni senza fine?

Ero già passato sui classici di Verne, su alcuni Urania prestati da amici (perché i miei genitori non vedono di buon occhio la fantascienza, neppure oggi che ho pubblicato dodici racconti e un romanzo) e, finalmente, sui primi Cosmo Argento e Oro della biblioteca. C’era il senso del meraviglioso, dell’avventura, dell’esplorazione; a quei tempi, qualsiasi cosa avesse un minimo di sapore avveniristico o anche solo inusuale, strano, mi interessava: trasmissioni TV, film (L’inferno di cristallo, pensate!), fumetti, francobolli sulla corsa spaziale, monete commemorative, illustrazioni eccetera. Alcuni romanzi colpirono la mia immaginazione più di altri: Straniero in terra straniera, che ha fatto parte della mia educazione sessuale quanto le lezioni in incognito dell’insegnante di religione; Nascita del superuomo di Sturgeon, perché si vedeva sotto la superficie qualcosa di tanto profondo che non riuscivo a capire, e che perciò stimolò la mia immaginazione; il ciclo dei Fabbricanti di universi di Farmer perché c’era tanta avventura da stregare un ragazzo sui quattordici anni; Solaris, per il quale vale il discorso di Sturgeon, e perché con le sue prolisse (allora tali le giudicavo) descrizioni mi parve molto più virtuoso delle sarabande pirotecniche americane. Prima di partire per le vacanze estive passavo dalla zia di un mio amico, la quale mi riforniva d’una trentina d’Urania e Pocket Longanesi che avrei letto al ritmo di uno al giorno. È di questo periodo l’infatuazione per Fahrenheit 451 che per un certo periodo mi portai appresso come una Bibbia. Infine, i miei accettarono di malavoglia questa mia infatuazione per una letteratura sicuramente minore, e arrivarono i primi libri della Nord in regalo, ma senza esagerazioni: uno all’anno, per il compleanno. I reietti dell’altro pianeta fu tra i primi, un autentico fulmine. Inviai la famosa cartolina (e chi non l’ha fatto?) per ricevere il Cosmo Informatore contando con trepidazione i giorni per il ricevimento, facendo la posta alla buca delle lettere. Per aprirlo fuggii nel viale sotto casa (i miei controllavano tutta la posta) ed eccolo tra le mie mani: in copertina una riproduzione in bianco e nero di un vecchio numero, mi pare, di Amazing, un uomo a torso nudo che lottava spada in pugno contro uno scheletro.

Era il ‘75, credo.

Decisi di scrivere il mio primo romanzo dopo aver letto i primi racconti italiani sul Cosmo Informatore: Gilda Musa, Virginio Marafante, Gustavo Gasparini, Rudy Salvagnini. Non ricordo neppure come lo intitolai: due astronauti americani partono alla volta di Nettuno per ampliare le frontiere di una Terra ormai impoverita di risorse e ideali, lacerata da quelle che ora chiamano crisi regionali. L’astronauta bello, espansivo, solare muore in un incidente; l’altro, riflessivo, taciturno, notturno (così pure mi vedevo io) riesce a far ritorno ma una setta (mi pare “I Figli di Destino”) lo assassina all’astroporto. La scena madre è l’ultima: l’ambulanza sgomma sulla pista d’atterraggio, la moglie singhiozza sulla barella e il capo dei servizi segreti, sporgendosi dal portellone per rispondere al fuoco degli invasati, viene colpito a sua volta e cade sul selciato.

Nel frattempo avevo letto Il gregge alza la testa di John Brunner, che mi stregò per anni; elessi a mia vocazione la fantascienza sociologica. Scrissi i primi raccontini (da due a cinque, sei cartelle) e li inviai a Mondadori, Fanucci e alla Nord. Solo mettendo metà cifra a testa con la mia ragazza (lei lavorava già in fabbrica, io studiavo) potei abbonarmi alla Cosmo Argento; nel 1980 partecipammo insieme all’Eurocon di Stresa, riportando autografi di Gilda Musa, Alfred Bester, James White, Harry Harrison, Ben Bova, Luigi Menghini, Virginio Marafante e forse qualcun altro. La mancanza di Aldani, la cui presenza era annunciata sul Progress report, mi deluse parecchio, e benché il suo mito si rafforzasse, mi parve fosse oramai uscito di scena. Partecipare al congresso fu un’esperienza eccitante: sino ad allora avevo seguito con attenzione sul Cosmo Informatore i reportage degli SFIR, ma udire Brunner parlare di ecologia, sentire la lezione in esperanto di Harry Harrison (Luca Baumer, ci guadagnasti un sigaro con il suo autografo, ricordi?) e l’intervento di Pagetti (mi pare sull’universo mitico), mentre dalla fila di poltrone dietro di me Antonio Caronia sbuffava a una pesante allusione sulla mitologia marxiana, tutto questo fu un’esperienza fenomenale: e quale shock quando nello stand dell’Editrice Nord trovai il libro che raccoglieva i racconti da votare per il II concorso letterario indetto dalla casa editrice, con il mio primo racconto stampato! Non vi era molta gloria nel fatto (pubblicavano tutti gli arrivi), ma era il modo di farsi leggere; trafugai due copie del volumetto. Totalizzai ben tre voti compreso il mio. L’anno seguenti ripetei l’exploit scendendo a zero voti, neppure il mio benché avessi inviato regolarmente la cartolina voto.

Il mio primo racconto pubblicato, “Fiore di sangue” (1980)

Partii militare, con una borsa piena di libri, e dalla libreria Tarantola di Treviso (città dove mio malgrado rimasi quasi un anno) acquistai parecchi usati e remainders. Mi innamorai di Galassia: Catani (L’eternità e i mostri), Montanari (La sepoltura), Budrys (Incognita uomo). Nei primi sei mesi in divisa lessi ben settanta romanzi di fantascienza, abbandonando quasi totalmente la letteratura mainstream cui ancora non ho accennato ma che ha sempre costituito il 50% delle mie letture. Feci indigestione di romanzi marginali, ma anche del ciclo del Mondo del Fiume di Farmer. City mi diede la speranza di pubblicare Io non sono Luciano Pavesi sull’antologia Una rosa per la vita, ma poi la cosa sfumò. Un altro racconto, che per fortuna non ha mai visto la luce, avrebbe dovuto essere pubblicato su Lettere da un antico caffè di Trieste, ma non se ne fece nulla. Ci abbonammo, la mia ragazza e io, a TTM[i] per un anno, lei si iscrisse all’ANASF[ii] (aveva seguito il padre in Abruzzo a quel tempo), ma quel contatto con il mondo amatoriale si recise finché un anno, dopo aver a lungo letto di TDS[iii] sul solito Cosmo Informatore, suonammo il campanello di Gian Piero Prassi con un pacchetto di sei racconti sotto il braccio, gli stessi respinti da tutte le case editrici, dal Mary Shelley e dal Frederic Brown. Si fece qualcosa solo per Io non sono Luciano Pavesi, tutti gli altri nulla, e li accantonai definitivamente.

contiene “Io non sono Luciano Pavesi”

Cominciammo ad entrare nel giro del fandom grazie a Prassi, benché la mia ragazza stesse iniziando a staccarsi dalla fantascienza. Ricordo l’ottimo II congresso femminile della fantascienza e del fantastico, in una Milano semiparalizzata da sessanta centimetri di neve; conoscemmo Mario Sumiraschi e Patrizia Thiella, Angelo De Ceglie che ammiravo per i suoi racconti e che di lì a poco ci avrebbe lasciati tragicamente; rimasi affascinato dalla preparazione e dalle capacità di Nicoletta Vallorani, e gongolai quando Prassi mi presentò a Stefano Bon e Luigi Pachì come “un autore davvero promettente”. Cosa era accaduto per alzare la sua stima? Gli avevo semplicemente consegnato i dattiloscritti di La casa in riva al mare e L’eterna estate sul fiordo. Senz’altro fu quest’ultimo a impressionarlo.

Ricordo bene come nacque il mio primo racconto maturo (ora, rileggendolo, mi viene da ridere a questa definizione): avevo in mente una vaga trama, due o tre accenni tratti dai marginalia di un libro di Yeats, e una certa voglia di scrivere. A quel tempo avevo letto quasi tutti i romanzi di George Orwell, e la notte prima di iniziare la stesura del manoscritto mi ritrovai a pensare “E se inserissi Orwell nel mio racconto?” Non riuscii a prendere sonno che a notte inoltrata. Dopo nemmeno due settimane pensai e buttai giù (raramente modifico quanto scrivo) Il giardino dei fiori in comune che inviai a TTM dove fu subito accettato da Franco Stocco, ma mai pubblicato perché l’ultimo numero della rivista non si fece. Per la prima volta, mi sentivo in grado di scrivere. Era il giugno dell’84. Due mesi dopo, grazie alle suggestioni di un viaggio in Irlanda ancora a contatto delle retine, scrissi La rocca dei Celti[iv]quasi di getto.

“L’eterna estate sul fiordo” (1985)

Iniziai una collaborazione assidua con TDS. Con Prassi, Claudio Tinivella, Marco Perello e Giorgio Tumelero selezionavo i racconti con il metodo del voto (da 1 a 5). Al concorso letterario “Terre del Sogno” di Cossato (BI) giunsi in finale con Conchiglie, con mio sincero stupore, perché era un racconto che non avevo imparato ad amare, avendolo spedito subito dopo la stesura. Ed è questo stupore che dovetti spiegare a Mauro Gaffo, che ne era rimasto entusiasta e aveva saputo della mia freddezza in proposito; ma a lui toccò spiegarmi le ragioni per cui La rocca dei Celti era stato rifiutato dalla Nord. Anche Il giardino dei fiori in comune era stato respinto da La spada spezzata, il che mi depresse perché lo consideravo uno dei miei migliori.

L’indipendenza economica aveva portato con sé una piccola biblioteca personale, le cui perle furono 1984, La mano sinistra delle tenebre e il ciclo del Libro del Nuovo Sole di Gene Wolfe. Ma esisteva un mio stile? Quale scrittura mi dava maggior soddisfazione (perché è in tal modo che ci si rende conto se la propria narrativa può piacere)? Sino allora ero rimasto molto influenzato (stilisticamente) dalla prosa emozionale e reiterativa di Oriana Fallaci, dagli stereotipi science-fiction anglosassoni, dalla precisione analitica di George Orwell. Quando feci conoscenza con Gabriel García Márquez (questo è un particolare che ti sei lasciato sfuggire, Tavosanis), con i suoi attacchi rapidi, le prime frasi che già racchiudono in nuce tutta l’atmosfera del racconto, allora il mio stile si affinò.

“Conchiglie” (1986)

1 – continua


Note

[i] The Time Machine, fanzine a stampa edita dal Circolo Fantascienza Padova negli anni Settanta.

[ii] Club di fantascienza romano degli anni Settanta che pubblicava la fanzine Sf…ere.

[iii] The Dark Side, fantine ciclostilata, in seguito fotocopiata e poi a stampa, edita da Vercelli dal 1981 al 1991, dapprima sotto la direzione di Giampiero Prassi, poi di Franco Ricciardiello.

[iv] Franco Ricciardiello, La Rocca dei Celti, Editoriale Ambra, 1987, pp. 132.

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