Mare della Tranquillità

di FRANCO RICCIARDIELLO

Quell’estate, eravamo probabilmente già tornati dalle ferie che trascorrevamo al paese di mio padre. Ogni anno percorrevamo in auto la dorsale della penisola, l’autostrada del Sole, e tornavamo in tempo per l’anno scolastico. Nel ’69 però le scuole avrebbero riaperto il 1° ottobre, dunque oltre due mesi dopo il nostro rientro; per cui siamo probabilmente tornati a causa dell’attività di mia madre, una rivendita di giornali, un commercio che negli anni Sessanta prevedeva pochissimi giorni di chiusura festiva — in un anno si potevano contare sulle dita di una mano. Quando eravamo in vacanza, doveva rimanere in edicola mia nonna, aiutata da mia cugina prima Patrizia, che viveva con noi perché i suoi genitori erano in Nigeria, nella vasta comunità italiana che lavorava nei grandi cantieri edili. Avevano tentato di portare con sé le due figlie, ma l’infuriare della guerra del Biafra li aveva convinti a rispedirle in Italia.

Questa è probabilmente la ragione per cui ci trovavamo a casa e non in ferie il 20 di luglio, la notte dello sbarco sulla Luna. Mio padre era un entusiasta autodidatta, interessato alle questioni scientifiche; aveva indotto me e mio fratello minore a seguire fino dall’inizio la missione Apollo 11. Conoscevamo i nomi dei membri dell’equipaggio, Armstrong, Aldrin e Collins, riconoscevamo il profilo del razzo Saturn e ci era famigliare anche la forma del Lem, il modulo di atterraggio Eagle che portò due uomini dall’orbita lunare alla superficie del satellite. Sapevamo invece poco o nulla del contemporaneo programma spaziale sovietico, molto più avanzato e superato solo negli ultimi mesi dalla Nasa, e pertanto abbandonato; per ragioni politiche, a mio padre non interessavano i russi.

Prima di andare a dormire, la sera di domenica 20 luglio, sapevo ovviamente che a un’ora imprecisata della notte l’uomo sarebbe sceso per la prima volta sulla luna. Può anche darsi che sia rimasto sveglio davanti alla tv fino alle 23,17, ora in lui il Lem si posò sulla superficie lunare (in luglio c’era l’ora legale, tornata in vigore nel 1966 dopo quasi vent’anni in cui non era più stata adottata), ma di sicuro mi spedirono a letto parecchio prima di mezzanotte perché ancora dovevo compiere otto anni, e non si sapeva dopo quanto tempo gli astronauti sarebbero stati autorizzati da Cape Kennedy a aprire il portellone.

Il mio doveva essere però un sonno agitato, perché a una certa ora, adocchiando i vetri smerigliati della cameretta, riconobbi quel chiarore bluastro e diffuso che era la caratteristica dei televisori negli anni Sessanta. Mi resi conto che i miei avevano acceso l’apparecchio, mi alzai e percorsi tutto il corridoio fino al tinello. Non c’era nessuno; probabilmente mio padre, disteso nel letto nella stanza accanto, sonnecchiava e prestava orecchio perché non si sapeva a che ora si sarebbe spalancato il portellone del Lem, per lasciar scendere il comandante Louis Armstrong sulla scaletta fino alla pianura che sembrava di polvere bianca, accecante nei raggi solari diretti.

E così i miei, incuriositi da qualche rumore in tinello, mi sorpresero davanti allo schermo tv. Non posso ricordare quanto tempo rimasi lì, mia madre dice che lei e mio padre andavano su e giù dalla camera da letto e io ero sempre lì seduto e attento. Ricordo invece le immagini dello sbarco, trasmesse in diretta mondiale: più che in bianco e nero erano in gradazioni di grigio, la stessa impressione eterea che ti lascia la memoria di un sogno. Quando quattro minuti prima delle cinque di mattina Neil Armstrong posò il piede sulla superficie, le immagini andavano interpretate, perché le riprese erano effettuate da una telecamera attraverso la finestra del modulo di sbarco, un piede del quale copriva le gambe dell’astronauta impacciate dalla tuta voluminosa. Si vedeva lo stivale andare su e giù, forse indugiava per dare più solennità al momento. Ciò che accadeva si poteva capire solo dal commento dei giornalisti nello studio Rai di via Teulada. «Uno o due pollici, affondato nella superficie lunare il piede di Neil Armstrong… ha saggiato con il piede sinistro il suolo della Luna, l’appoggio è buono!» Nello studio scatta un applauso. Pochi minuti dopo tocca al suo secondo, ‘Buzz’ Aldrin, il pilota del modulo Eagle. La voce in inglese di un commentatore della Nasa avverte l’astronauta, una forma grigio più chiaro impacciata dalla tuta contro il bianco abbacinante del suolo: mancano tre scalini.  All’ultimo, l’astronauta spicca un salto.

Più o meno è tutto ciò che vidi quella notte, cinque settimane prima di compiere otto anni. L’incantesimo della Luna si amplificò dentro di me nei mesi successivi. Ricordo su un rotocalco — può darsi fosse “Epoca”, un settimanale che mio padre leggeva volentieri — le magnifiche foto a colori scattate da Armstrong e Aldrin in poco più di due ore trascorse sulla Luna. Oggi so che utilizzarono una Hasselblad modificata, verniciata di color argento per riflettere i raggi solari, con un vetrino inserito tra il corpo della fotocamera e il magazzino delle pellicole (che nella macchina svedese sono moduli separabili): è per questo che le immagini contengono una serie di segni appena visibili, croci sottilissime, che la Nasa volle per calibrare le distanze, nel caso in cui lo sviluppo delle pellicole Kodak distorcesse le proporzioni.

La Hasselblad modificata usata durante la missione Apollo 11

Le immagini più famose sono quelle di Aldrin ripreso da Armstrong: una luce netta, quasi violenta, che rivela in obliquo un mondo in bianco e nero, un suolo che ha il colore del cemento o della sabbia bagnata. Aldrin, con la spessa tuta bianca, il casco e lo zaino accanto a una delle gambe del modulo, di colore dorato o ramato. Aldrin di profilo, saluta militarmente con una mano alla visiera del casco la bandiera Usa, mantenuta distesa da una bacchetta nella parte superiore del drappo. Aldrin di spalle accanto a un modulo per rilievi sismici passivi, sullo sfondo l’Eagle si staglia contro il cielo nero. La più famosa: Edwin Eugene ‘Buzz’ Aldrin ripreso di fronte, l’orizzonte alle sue spalle è alto e inclinato, il cielo nero è solo una striscia sopra la distesa butterata di sabbia grigia, il vetro del casco crea un effetto a specchio, riflettendo come in una meta-immagine Armstrong con la fotocamera, una parte dell’Eagle e la lunga ombra di Aldrin stesso.

Mi rendo conto che non sono certo l’unico sulla Terra a sognare l’incanto di questa foto. Miliardi di uomini e donne, quando pensano alla conquista della Luna, hanno quest’istantanea davanti agli occhi, l’immagine di una notte sulla Luna vissuta in un sogno.

 

 

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