Fenoglio, «Una questione privata»

di FRANCO RICCIARDIELLO

Scrive Italo Calvino nella prefazione al suo romanzo sulla resistenza Il sentiero dei nidi di ragno, in occasione della ripubblicazione nel 1964 per il Club degli Editori:

E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo, e morì prima di vederlo pubblicato nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare adesso c’è e il nostro lavoro ha un coronamento, un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata.

Calvino conclude con una frase che è un’ammissione sincera e encomiabile: «È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione: non al mio

Due partigiani sono fermi davanti a una villa presso Alba, nelle Langhe. I proprietari sono probabilmente lontani, a Torino; il partigiano Milton ha chiesto al compagno qualche minuto per abbandonarsi ai ricordi. Questa è la casa di villeggiatura di Fulvia, la sua ragazza.

Quando la rivedrò? Prima della fine della guerra è impossibile. Non è nemmeno augurabile. Ma il giorno stesso che la guerra finisce correrò a Torino a cercarla. È lontana da me esattamente quanto la nostra vittoria.

Il suo compagno Ivan freme, vorrebbe tornare al comando perché teme di incontrare nella nebbia pattuglie di soldati repubblichini; ma Milton è ormai in balia dei ricordi, perché ogni albero intorno alla villa gli ricorda Fulvia.

Era successo proprio all’altezza dell’ultimo ciliegio. Lei aveva attraversato il vialetto ed era entrata nel prato oltre i ciliegi. Si era sdraiata, sebbene vestisse di bianco e l’erba non fosse più tiepida. Si era raccolta nelle mani a conca la nuca e le trecce e fissava il sole. Ma come lui accennò ad entrare nel prato gridò di no. «Resta dove sei. Appoggiati al tronco del ciliegio. Così» poi guardando il sole, disse: «Sei brutto». Milton assentì con gli occhi e lei riprese: «Hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma complessivamente sei brutto». Girò impercettibilmente la testa verso di lui e disse: «Ma non sei poi così brutto. Come fanno a dire che sei brutto? Lo dicono senza… senza riflettere».

È stato l’amico comune Giorgio Clerici a presentargli Fulvia, sedici anni, dopo una partita di pallacanestro. Giorgio che ora è in montagna insieme a lui, ma in un’altra brigata partigiana, l’ha introdotto dicendo «Fulvia, questo è un dio in inglese», e lei l’aveva invitato in casa perché le traducesse il testo di Deep Purple, la canzone di Peter DeRose.

Lui tradusse, dal disco al minimo dei giri. Lei gli diede sigarette e una tavoletta di quella cioccolata svizzera. Lo riaccompagnò al cancello. «Potrò vederti, — domandò lui, — domattina, quando scenderai in Alba?» «No, assolutamente no.»

Lui le porta libri, Edgar Allan Poe, poi traduzioni fatte da lui stesso, finché a un certo punto Fulvia non legge nient’altro. Costretta dai genitori a ritornare a Torino dopo l’8 settembre, quando le colline e la campagna sono diventate più pericolose delle città bombardate, Fulvia impone a Milton di scriverle lettere, e lui ubbidisce.

Mentre Milton è perso nelle sue fantasticherie, la custode della villa lo sorprende, acconsente che lui entri, malgrado la contrarietà di Ivan. Il suo è un itinerario sentimentale nelle stanze della casa, la camera di Fulvia dove lei amava ballare, specialmente con Giorgio Clerici perché Milton non balla; ma poi viene a sapere con sgomento dalla custode che mentre lui era sotto le armi, prima dello sbando, Giorgio veniva sempre alla casa, si chiudeva in camera con Fulvia oppure uscivano insieme per lunghe ore nei boschi.

Il tarlo atroce del dubbio si insinua in Milton. Cos’è accaduto tra Fulvia e Giorgio in sua assenza? Già Milton si era accorto di quanto i due fossero adatti a fare coppia:

Fulvia ballava spessissimo con Giorgio Clerici, duravano anche per cinque o sei dischi consecutivi, slacciandosi appena negli intervalli. Giorgio era il più bel ragazzo di Alba ed anche il più ricco, ovviamente il più elegante. Nessuna ragazza di Alba era in condizioni di far da pendant a Giorgio Clerici. Arrivò da Torino Fulvia e la coppia perfetta fu formata. Lui era biondo miele, lei bruna mogano.

E al tempo stesso lei gli ha dato rassicurazioni, vuole solo le sue lettere, legge i suoi libri, le pagine che Milton traduce apposta per lei.

Deve sapere cos’è accaduto davvero. «Il fatto è che più niente m’importa. Di colpo, più niente. La guerra, la libertà, i compagni, i nemici. Solo più quella verità». Al ritorno al comando di brigata chiede mezza giornata di permesso, vuole andare al comando partigiano a Mango per cercare Giorgio. «Non poteva più vivere senza sapere e, soprattutto, non poteva morire senza sapere, in un’epoca in cui i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere.»

Ma Giorgio non è a Mango, è rimasto indietro al ritorno da una missione, gli altri l’hanno perduto nella nebbia fitta. Tutti sanno che è un solitario, «Giorgio pareva sopportare il solo Milton, coabitava solo con Milton». Si è fermato per mangiare qualcosa in una cascina di sostenitori? Le ore passano, e le peggiori ipotesi trovano conferma: perduto nella nebbia, «un mare di latte», si è imbattuto in una pattuglia di fascisti. L’hanno riconosciuto subito come partigiano, indossa una delle divise che gli inglesi paracadutano dal cielo insieme ai rifornimenti, ed è armato.

Ora è prigioniero in città, ma i prigionieri non durano molto in questa guerra. È essenziale uno scambio di ostaggi: ma i badogliani, i partigiani in cui Milton milita, non ne hanno in questo momento. Si reca al comando della formazione garibaldina che occupa una vicina collina; tra le due correnti non corre buon sangue, i comunisti sono gelosi perché gli alleati paracadutano armi e vettovaglie solo agli “azzurri”, i badogliani. Milton conosce il comandante comunista Hombre perché hanno combattuto insieme, ma il suo tentativo individuale non gli è d’aiuto, l’ultimo fascista nelle loro mani è stato fucilato il giorno precedente.

A questo punto non rimane che prendere l’iniziativa. Perché si dà tanto a fare, Milton? Per salvare l’amico più caro, o per sapere la verità su quello che considera un tradimento? Si reca da solo a Santo Stefano Belbo (il paese di Cesare Pavese), e qui rimane nascosto insieme ai partigiani del luogo mentre il grosso paese è occupato per qualche ora da una colonna di fanti di marina della divisione San Marco. Impossibile sorprenderne uno isolato.

Decide di recarsi a Canelli, ma deve fare un lungo giro in collina per evitare di essere intercettato a sua volta dai fascisti. Viene sorpreso nella vigna da una vecchia contadina che ha il figlio in montagna, nella Stella Rossa. La donna, venuta a sapere la sua storia, gli confida che un sergente della milizia viene quasi ogni giorno a trovare una vicina di casa di facili costumi.

Milton tende un agguato al milite, riesce a farlo prigioniero, si fa consegnare al sua arma e lo scorta verso il più vicino comando partigiano; il soldato però non si fida e tenta il tutto per tutto, gettandosi a correre mentre si trovano in un sentiero d’aperta campagna. Milton gli spara per riflesso condizionato, uccidendolo. Il suo piano di scambio così è saltato.

Raggiunge un’altra formazione di badogliani, con i quali si consulta sul destino di Giorgio. È quasi sicuro che gli faranno un processo prima di fucilarlo, perché è uno studente, non un proletario come la maggior parte dei ribelli in collina.

Con la morte del sergente, che provoca per rappresaglia la fucilazione di due ragazzini catturati come staffette partigiane, Milton ha perso la speranza di riuscire a liberare Giorgio e sapere la verità. Si interroga persino se abbia capito bene le parole della custode, decide di tornare alla villa presso Alba dove ha avuto inizio il suo incubo; ma qui incappa in una retata di soldati, cinquanta contro uno. Fugge, corre, inseguito dai proiettili, in una corsa disperata.

Una questione privata è un titolo redazionale, scelto recuperando quello che Fenoglio usava nel parlare con la moglie, e che riflette la sua convinzione per cui la Resistenza sia stata soprattutto una tragedia personale, una guerra civile dell’anima umana. Sorpreso dalla malattia nel mezzo della maturità, anche artistica, Fenoglio si preoccupa di lasciare su un biglietto istruzioni sull’ordine in cui avrebbero dovuto essere pubblicati i suoi racconti, tralasciando di disporre per i romanzi: forse perché non li considera pubblicabili nella versione parzialmente completa in cui si trovano.

Lascia numerosi manoscritti, generalmente privi di titolo; “il libro grosso sul quinquennio 1940-1945”, su cui lavora a lungo, oggi pubblicato come Il partigiano Johnny, dal quale si ricaverà però anche Primavera di bellezza. Fenoglio sembra abituato a cannibalizzare i testi più lunghi per ricavarne storie autonome e brevi: La paga del sabato smembrato in due testi brevi, L’imboscata, che pure ha per protagonista il partigiano Milton, diviso per ricavarne racconti sulla guerra civile, che finiranno nell’unica raccolta pubblicata durante la vita, I ventitré giorni della città di Alba.

In Una questione privata, che tanto ha impressionato Calvino, pubblico e privato si intersecano in un intreccio indissolubile, che rende ancora più vera la storia. La disperata ricerca di Milton di un metodo per salvare il compagno non è dettata da amicizia o cameratismo, ma dal più umano e ambiguo sentimento della gelosia. Si sviluppa in un crescendo di tensione, che culmina nella scena finale della disperata fuga di Milton, e di quell’ultima frase in cui il protagonista crolla a un metro dal muro d’alberi tra i quali cerca riparo. È riuscito a salvarsi? È stato colpito dai fucilieri della milizia?

Secondo il fratello, Fenoglio sul letto di morte avrebbe chiesto alla famiglia di distruggere tutti i suoi scritti con l’eccezione di due racconti e di Una questione privata, segno che era consapevole quantomeno del valore del romanzo, anche se non considerava pubblicabili altri testi, forse perché incompiuti. Per nostra fortuna, il suo desiderio non è stato esaudito.

Il presente post è tratto da: Franco Ricciardiello “Storie di Torino”, ed. Odoya 2018

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