Le rivoluzioni dei pianeti

di FRANCO RICCIARDIELLO

Il presente post è una rielaborazione dell’intervento presentato  a Stramimondi 2018, Milano, 6 ottobre 2018

Ricordo che è stato per me uno choc la scoperta, da ragazzo, che non tutti gli appassionati di fantascienza erano di idee progressiste. Non riuscivo a farmene una ragione: non capivo come si potesse credere nel futuro senza un approccio ottimista, scientista. Frequentando le convention di appassionati, mi resi conto in seguito che le posizioni ideologiche si polarizzavano in due campi: quelli che prediligevano il fantasy, chiaramente “di destra” perché anti-moderni, e quelli per la science-fiction, che al contrario già vivevano in un futuro che mi sembrava dietro l’angolo: fu un sollievo, perché quelli di destra erano “di là” e non “di qua”.

Scoprii che la fantascienza negli USA aveva già vissuto il problema, testimoniato dal celebre avviso a pagamento di due pagine apparso sul numero di Galaxy del giugno 1968. Nella pagina di sinistra si può leggere: «Noi sottoscritti crediamo che gli Stati Uniti debbano rimanere in Vietnam per adempiere alla responsabilità verso il popolo di quel paese.» Seguono 72 firme tra cui Poul Anderson, Leigh Brackett, Marion Zimmer Bradley, Edmond Hamilton, Robert Heinlein, R.A. Lafferty, Larry Niven, Jack Vance. Nella pagina a fronte invece: «Noi ci opponiamo alla partecipazione degli Stati Uniti alla guerra in Vietnam.» Le firme sono 82, si possono leggere i nomi di Isaac Asimov, Ray Bradbury, Samuel Delany, Philip Dick, Harlan Ellison, Ursula LeGuin, Joanna Russ, Robert Silverberg, Norman Spinrad. Fu uno choc, ma mi consolava il fatto che almeno la maggior parte dei miei autori favoriti fosse lì, nella pagina di destra.

Infranta definitivamente la mia illusione di un genere letterario progressista, sono stato costretto a verificare, e non solo durante i congressi di appassionati, che l’ambiente è frequentato da misogini, suprematisti bianchi, maschilisti, nostalgici del Medioevo, guerrafondai, e da ogni genere di scetticismo dei confronti della scienza.

“L’ultima frontiera” © Alejandro Burdisio, Córdoba (Argentina)

Non stupisce quindi che l’argomento Rivoluzione sia tra i meno frequentati nella fantascienza mondiale; anzi, a parte alcuni (pochi) notevoli esempi, siamo di fronte piuttosto a un deserto piatto.

Intendiamoci: non che siano in pochi gli autori a tentare di cimentarsi, ma quasi sempre il risultato è desolante perché il presupposto di base è totalmente errato. Meglio procedere con ordine.

Numerose storie pubblicate in diverse lingue raccontano l’antefatto di una rivoluzione: una società oppressiva, una dittatura tecnocratica e totalitaria, la resistenza di poche cellule nella totale rassegnazione degli altri. Anche il post-rivoluzione è una strada piuttosto battuta: dopotutto, cosa sono le varie utopie che fioriscono in tanti immaginari futuri, se non il punto d’arrivo di uno sconvolgimento sociale? Manca invece una storia che racconta il cuore del movimento, il momento in cui tutto salta per aria, e la Storia prende un’accelerazione. Perché? È forse delusione per la deriva di tante insurrezioni, di tanti movimenti libertari degenerati in oppressioni burocratiche, di tante magnifiche palingenesi marcite nelle acque stagnanti del riflusso?

È un peccato, perché fino dai suoi albori la letteratura del futuro si prestava alla speculazione politica: Il tallone di ferro di Jack London (1907) racconta il fallimento di una rivoluzione negli USA, e il quasi contemporaneo La stella rossa di Aleksandr Bogdanov parla della possibilità di esportare sulla Terra una rivoluzione socialista che ha preso il potere sul pianeta Marte. Cos’è dunque accaduto? Come possono coesistere un grande interesse per l’argomento del ricambio sociale, e l’indifferenza narrativa per il concreto processo che porta a quel cambiamento?

Che poi non sarebbe neanche esatto affermare che non ci sono opere che parlano di rivoluzione; più che altro, gli autori si accontentano di raccontare lo statu quo dell’oppressione, che non  è mai descritta come effetto di un blocco sociale, bensì di una risicata minoranza che fa leva su una tecnologia pervasiva che permette di prevenire l’opposizione. Il modello non è dunque 1984 di George Orwell, che presenta una società totalitaria ma con un certo grado di consenso, bensì una sua versione semplificata, che per comodità chiamerò modello Matrix (dal film delle sorelle Wachowski, 1999): l’élite, ristrettissima, esercita un potere quasi esoterico, brutale nelle sue manifestazioni repressive, e l’opposizione si annida nelle zone d’ombra, “zone temporaneamente autonome” che possono anche essere virtuali, e che offrono alibi di segretezza a causa della ottusità dei tirapiedi del regime.

Naturalmente, il realismo delle narrazione crolla a livelli bassissimi. La possibilità di riscatto degli oppressi è garantita solo dall’iniziativa individuale, da un ribellismo quasi inscritto nella personalità-stereotipo dei protagonisti più che nelle dinamiche sociali dell’oppressione.

Volendo comunque compilare un piccolo elenco delle opere più significative — escludendo quelle che parlano di resistenza all’oppressione, come Fahrenheit 451 di Ray Bradbury e la trilogia Eclipse di John Shirley — ecco in ordine sparso, e più o meno in tema: Gli anni del precursore (A woman a day, 1960) di P.J. Farmer, Miliardi di tappeti di capelli (Die Haarteppichknüpfe, 1995) di Andreas Eschbach; Eclissi 2000 (1979) di Lino Aldani; 2038: la rivolta (2000) di Francesco Grasso; infine, tre romanzi di John Brunner scritti con il medesimo stile: Tutti a Zanzibar (Stand on Zanzibar, 1968), L’orbita spezzata (The jagged orbit, 1969), e Il gregge alza la testa (The sheep look up, 1972).

“Traffico” © Aldo Martinez, Vancouver (Canada)

Ma non è a questi che voglio dedicarmi, perché i romanzi che più hanno centrato l’argomento sono altri, e tutti di autori statunitensi: La Luna è una severa maestra di Robert Heinlein, Marte in fuga di Greg Bear, infine la trilogia di Marte di Kim Stanley Robinson. Tutti e tre hanno una caratteristica in comune: raccontano una rivoluzione — o una guerra d’indipendenza coloniale — su un pianeta che non è la Terra.

Marte in fuga (Moving Mars, 1993) è senza dubbio il meno riuscito dei tre: è una sorta di Nascita di una Nazione ambientato su Marte, con una comunità di coloni combattuta tra volontà di mantenere un certo grado di indipendenza dalla Terra, pressioni del pianeta madre e particolarismi di varie organizzazioni sociali chiamate “clan”. E qual è la sintesi politica che i coloni marziani riescono a elaborare durante la loro rivoluzione? La versione fantascientifica forma partecipazione democratica, di gestione della cosa pubblica? No: un sistema elettorale in cui i candidati scendono a farsi pubblicità tra la gente, assaggiando specialità alimentari del posto e affidandosi alla classica comunicazione del sistema dei mass media. E la forma di rappresentanza che partoriscono è costituita da due Camere, delle quali una eletta proporzionalmente a secondo del numero di appartenenti a ciascun clan, l’altra composta da due membri per clan: una repubblica presidenziale in cui il candidato a presidente sceglie un candidato a vicepresidente, dopo di che fanno campagna elettorale insieme.

È chiaro che Bear vuole spacciarci come non-plus-ultra di democrazia una riedizione della forma costituzionale degli Stati Uniti, ricalcata quasi punto per punto: non c’è elaborazione teorica, nessuno sforzo speculativo.

“Nightclub”, illustrazione per Endless Space 2 © Sylvain Sarrailh, Toulouse (Francia)

1 – continua

Nella testata del post: illustrazione da Project Alice di © Juan Pablo Roldán, Medellín (Colombia)

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5 pensieri su “Le rivoluzioni dei pianeti

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