Una città per i poeti

Secondo post del racconto di viaggio in Iran, maggio 2017

Dopo Tehran, raggiungiamo in volo la città meridionale di Shiraz, una delle principali mete del turismo nel paese, e con essa l’epicentro della storia persiana: ci troviamo infatti a pochi chilometri dalle capitali dell’antico Impero achemenide. Shiraz è una città di famosi giardini, uno dei quali è patrimonio dell’umanità, e ospita i mausolei di due grandi poeti del medioevo persiano, Hafez e Sa’di, ancora oggi enormemente amati in patria.

Come in ogni città dell’Iran, non ci sono mezzi pubblici per l’aeroporto. Noleggiamo due taxi, che sembrano fare a gara sulle strade lungo il fiume Khoshk. Dal nostro apartment hotel basta una breve passeggiata lungo una via trafficata e fiancheggiata di negozi per raggiungere il centro città, con il bazar e la fortezza di Karim Khan Zand.

Ci troviamo molto più a sud di Tehran, il clima è decisamente più caldo. Karim Khan Zand, l’uomo che sposta a Shiraz la capitale del regno nella seconda metà del Settecento, è uno dei pochi governanti del tempo disinteressati alla guerra. Non assume neppure il titolo di Shah, accontentandosi di essere chiamato reggente. La bella masjed-e Vakil accanto al bazar è costruita su suo impulso. Accanto alla fortezza che porta il suo nome mangiamo per la prima volta il faludeh, il dolce di amido di riso che si può gustare con una palla di gelato allo zafferano.

Il bazar·e Vakil ha vie ampie e regolari che seguono una pianta a croce, e alte volte a ogiva la cui ombra mantiene una temperatura molto più favorevole che all’esterno. Anche questo è costruito su iniziativa di Karim Khan Zand. Nel serraglio a cielo aperto al suo interno, i negozi si allineano in piena luce in uno dei pochi punti raggiungibili direttamente dai raggi solari. Nella chaikhanè al primo piano riceviamo il benvenuto di un gruppo di turiste iraniane; la più spigliata ci confida che vive e lavora in Germania. Parla un inglese ottimo, ci supplica di dire al nostro ritorno su tutti i social network che l’Iran è un paese ospitale e per niente pericoloso, e che gli iraniani amano gli stranieri. Lei e le sue compagne ci cantano strofe di una canzone, mantenendo il tempo con un curioso modo di schioccare le dita a mani unite che non riusciamo a imitare.

All’entrata della moschea Vakil alcuni bambini offrono parrocchetti da tenere sulle dita per farsi fotografare. Come in tutte le moschee iraniane, gli edifici si dispongono intorno al bel cortile quadrato, al centro del quale c’è una vasca d’acqua per le abluzioni. Piastrelle di maiolica sono il rivestimento più comune, sia per le splendide cupole che per gli alti muri interni e per i minareti. A differenza dell’arte sunnita, quella sciita è figurativa. Rami di rose stilizzate si intrecciano sulle mattonelle all’ingresso. La sala di preghiera è sorretta da 48 magnifiche colonne istoriate, le pareti sono ricoperte di maiolica. Accanto all’entrata sorge l’hammam·e Vakil, un bagno pubblico della stessa epoca, con prese di luce sul soffitto a volta, ricoperto di piastrelle di maiolica blu.

Prima di rientrare in albergo ci fermiamo in un caffè all’aperto, appena fuori da una delle entrate del bazar. Un caffè per poeti, vista la straordinaria quantità di versi scritti su biglietti di tutte le dimensioni e attaccati alle pareti, alle colonne e ai separé, insieme a vecchie foto di famiglia, immagini religiose, ritratti di cantanti e di antichi poeti, diplomi in cornice, pagine di rotocalco, e oggetti vari. Per la prima volta bevo l’acqua di rose, allungata con ghiaccio e acqua gelata. Diventerà la mia bevanda ufficiale fredda nelle giornate afose.

Dopo il calare del buio raggiungiamo a nord del fiume l’hafezieh, la tomba del poeta Hafez (1315-1390), sempre affollata di curiosi, specialmente la sera. La nostra ospite Mehrnoush, che è venuta in vacanza con noi a Shiraz insieme alla madre e a un’amica, Parand, è contenta: venerdì, quando cade il genetliaco tradizionale del poeta, saremo già in viaggio vesto sudest, evitando i consueti scontri tra la folla insofferente e la polizia che tenta di controllare l’enorme afflusso di appassionati.

I giardini intorno alla tomba, in stile classico con un colonnato circolare aperto su ogni lato, sono invasi da famiglie. Sulla soglia di un negozio di souvenir, una ragazzina con un vestito tradizionale turchese è in posa per le fotografie. C’è chi ci osserva con curiosità, quattro stranieri in compagnia di donne iraniane. Parand ha portato con sé il Canzoniere di Hafez, che soprattutto qui sulla sua tomba viene usato come libro di risposte: l’interessato si concentra su una domanda mentale, scorre il dito sul filo delle pagine, apre a caso. Alla luce dello schermo di un telefono cellulare, Parand legge come responso la pagina di destra — di sinistra se questa ospita solo un’illustrazione. Nel nostro caso, Parand salmodia i versi su un’antica litania, molto suggestiva. In teoria le donne non potrebbero cantare in pubblico alla presenza di altri uomini, ma nessuno ci fa caso, come già è successo nella chaikhanè del bazar.

Ahimé, queste zingare maliziose dai dolci modi, che mettono a soqquadro la città,
hanno spazzato via la pace del cuore come fanno i Turchi col banchetto del bottino.

La bellezza quale bisogno ha del nostro imperfetto amore?
Un bel viso non ha bisogno di belletto, colore, neo e ombretto.

Sia che tu mi insulti o che tu mi maledica, per ciò io ti loderò;
un’aspra risposta si addice a un dolce labbro di rubino.

La voce  di Parand è così suggestiva che i passanti si fermano a ascoltare i versi di un poeta di seicento anni fa, che qualcuno ha definito lisān al-ghayb, la lingua del mistero.

Il mattino successivo, il primo sito che visitiamo è il famoso bagh·e Eram, giardino del Paradiso, uno dei siti protetti Unesco. È letteralmente invaso da scolaresche in gita: bambini in età prescolare, orgogliosi di cantare in coro nelle loro divise bianche e blu sotto la direzione del maestro; ragazzini in età media che ci fermano per una foto, ma sono in grado di scambiare poche parole in inglese; e soprattutto frotte di studentesse in divisa, con il velo blu dell’hijiab tirato indietro per scoprire la frangia: ragazzine intraprendenti, spigliate, che parlano un inglese fluente e sostengono una conversazione molto superiore a quella dei coetanei maschi. Ci fermano nei viali del giardino, desiderose di parlare, di scambiare. Vogliono scattare foto insieme a noi, davanti all’obiettivo una si aggrappa al mio amico Franco, gli dice che ha occhi bellissimi. Ci chiedono da dove veniamo. L’Italia? Un paese meraviglioso. Certo, è vero, ma anche l’Iran è meraviglioso. L’Iran? Risponde una. No, l’Iran no. Hanno divise di un elegante blu scuro. Il velo copre anche le spalle ma i capelli risaltano, neri e lisci. La carnagione è sempre bianca, poche ci tengono all’abbronzatura. Vediamo da lontano un gruppo di loro che gioca in un prato, si rincorrono fra gli spruzzi d’acqua di un irrigatore automatico. Mi viene da pensare che abbiano caldo, con la gola e le spalle coperte a questo modo.

Percorriamo i viali di alti cipressi di questi giardini dell’epoca cagiara. La zona a nord del palazzo del Paradiso, accanto alla fontana d’acqua dove i locali si fanno fotografare in costume d’epoca, è troppo calda per fermarsi; la attraversiamo in fretta, mentre i ragazzini si alternano davanti all’obbiettivo di una fotografa incaricata dalla scuola.

Raggiungiamo in taxi i giardini di Afif Abad, copmplessivamente meno interessanti dei precedenti. Un gruppo di signore di mezza età veste costumi tradizionali. Ci sono anche uomini con divise militari di velluto e oro e occhiali a specchio. Si mettono tutti in posa per una fotografia. La giornata è calda, dopo una sosta sul prato ci dirigiamo verso la chaikhanè in un angolo del giardino. Si scendono alcuni gradini verso una sala fresca dalla volta decorata di maiolica, dove ci aspettano grandi cuscini nelle nicchie sotto mosaici di piastrelle con antiche scene di guerra. La luce entra da alte prese nel soffitto. Prendo di nuovo acqua di rose. Il locale è così fotogenico che tutti i turisti si fermano a scattare qualche foto dei muri e della volta, e molti selfie. Al centro, una fontanella intorno alla colonna portante diffonde un’allegra musica di acqua su marmo. Due studentesse tracciano schizzi a matita su un foglio da disegno, tre giovani seduti a gambe incrociate in una nicchia sorseggiano una bevanda arancione e mangiano una fetta di dolce simile a pandispagna.

Torniamo in taxi fino al centro città, appena oltre la zona del bazar, per visitare il Naranejstan, l’Orangerie: un vasto cortile ordinato, con fiori intorno a un canale centrale e file di palme e agrumi che conducono lo sguardo fino al padiglione Qavam, con le sue sale su due piani decorate di una quantità di specchi di ogni dimensione. La veranda centrale, affacciata su una vasca d’acqua, è un gioco continuo di luce. Magnifiche le porte di legno antico. Sembra sempre di cogliere un movimento con la coda dell’occhio a causa dei riflessi rimandati da uno specchio all’altro. Le finestre hanno vetri a piombo tinti di colori molto saturi: giallo, blu, verde, rosso.

Anche qui diventiamo soggetti compiacenti di chissà quante fotografie. Mentre mi aggiro con la mia Nikon vengo fermato da due ragazze: una è bionda, con una sciarpa bordeaux sui capelli, e labbra tinte di rosa inglese; l’altra è bruna, lineamenti eleganti, occhiali da sole sopra i capelli per fermare la sciarpa: mi propone un selfie, quindi come saluto mi dice You are very handsome, you know?
Mentre tento di riprendermi dalla sorpresa, si allontana.

Compro insieme a Mariella, la mia compagna, una busta di fiori di agrumi essiccati per preparare il tè, poi ci trasferiamo nella vicina khan·e Zinat ol Molk, collegata all’orangerie da un passaggio sotterraneo non aperto al pubblico. Anche qui un padiglione a specchi aperto sul giardino, e due sale laterali con pareti affrescate e pavimenti a mosaico che imitano i motivi dei tappeti. Un’intera scolaresca di bambine chiassose invade il padiglione, si specchiano nei riflessi, ci osservano incuriosite, posano per una foto di gruppo — e naturalmente noi ne approfittiamo. La bella maestra sorride all’obiettivo delle nostre fotocamere e saluta per dare l’esempio.

Nel seminterrato c’è un museo di storia locale, con personalità del passato di Shiraz raffigurate in statue di cera dall’aspetto vivace. Finalmente vedo il volto di Hafez, dall’aspetto vagamente cristologico, con barba e capelli lunghi oltre le spalle. È significativo che gli iraniani siano così affezionati a questo antico poeta che cantava il vino e l’amore omosessuale verso i giovinetti, si proclamava interprete del Corano ma non disdegnava di cantare la lode di antiche religioni come lo zoroastrismo.

Raggiungiamo la bella masjid Nasir ol-Molk, che finalmente apre dopo la pausa meridiana. Questa moschea è uno dei luoghi più famosi e fotografati dell’intero Iran, grazie al fantastico gioco della luce attraverso i vetri a piombo, con disegni geometrici e floreali che inondano i tappeti e le colonne di colori surreali e trasformano la sala in un palazzo marziano.

A sorpresa ritrovo le due ragazze che mi hanno chiesto un selfie all’orangerie, sedute contro il muro sul fondo, dalla parte opposta rispetto alla vetrata. Mi avvicino e propongo di ricambiare con la mia Nikon. Parlano un inglese decente, decantano i pregi di Milano anche se non ci sono mai state. Sono due turiste di Bandar·e Bushehr, sulla costa del Golfo Persico. Quella bruna si chiama Maryam, mi chiede il numero di telefono per inviarmi le foto scattate all’orangerie, poi quando saluto mi ripete, mentre la sua amica non può ascoltare, By the way, you are very handsome, you know?

La sera passeggiamo intorno alle mura della fortezza di Karim Khan Zand, insieme a famiglie in cerca del fresco. Al mattino attraversiamo a piedi il centro storico  per visitare una casa tradizionale: si scendono alcuni gradini attraverso un ingresso buio e fresco, fino a un cortile interno che si trova a un livello più basso. Anche qui c’è una veranda con finestre di legno e pareti a specchio. Tre ragazze si trovano in mezzo ai riflessi e ai nostri obiettivi; dal momento che si fotografano l’una con l’altra in un angolo con una luce laterale molto suggestiva, ne approfitto. Non si ritraggono, anzi ci lasciano il numero di cellulare perché al ritorno possa inviare gli scatti.

Mentre torniamo all’aperto, ecco che sulla veranda si radunano alcune ragazzine in costumi tradizionali. Cosa stanno facendo? Ci vuole poco a capire che sono le prove di qualche tipo di recita. C’è una regista che dà indicazioni, giù nel cortile, e le attrici affacciate alle finestre o sotto la veranda. C’è anche un giovane a una finestra laterale. La situazione è così curiosa che scatto diverse istantanee.

Nel pomeriggio ci rechiamo in taxi alla tomba del poeta Sa‘di, in periferia. È l’autore del Golestān, Il Roseto, ma la sua tomba è meno frequentata di quella del concittadino Hafez. Quando scende il buio raggiungiamo con una lunga camminata un albergo specializzato in kebab, che in Iran è carne cotta sulla brace, infilata su uno spiedo, spesso una spada a lama piatta. Per le nostre abitudini si mangia troppa carne.  All’uscita raggiungiamo la Porta del Corano, che un tempo era la via d’accesso a nord, sulla strada per Isfahan. La tradizione vuole che passare una copia del Corano sopra la testa di chi partiva gli portasse fortuna: si incisero dunque alcune sure sopra la porta, così che il viandante ne ricevesse automaticamente la benedizione.

La temperatura è tollerabile, a quest’ora di notte; adesso hanno tracciato la nuova superstrada di fianco, e la porta è la via d’accesso a un tratto pieno di ristoranti incastrati sotto una formazione rocciosa, con una guida di luci nella pavimentazione, e nelle lunghe pareti simili alle antiche mura di una città. Prendiamo il nostro congedo da Shiraz in mezzo a migliaia di persone a passeggio, tra bancarelle che vendono oggetti di strada, i bambini che corrono per gioco laggiù, oltre l’arco della porta, le lontane luci di mille colori della città.

Foto di Franco Ricciardiello e Franco Cavallo

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