Nepal, che ci faccio qui?

Ottobre 2004. Da sette giorni siamo tornati, e da sette giorni piove. Chiuso in casa, cerco di uscire gradualmente da una saudade come sempre direttamente proporzionale all’intensità del viaggio e aggravata dal fatto di aver conosciuto un gruppo splendido. La notte sogno colori, confusione, animali. Ho già visto gli amici qui a casa, mi hanno pregato di avvertirli quando tornerò davvero dal Nepal.

Il primo impatto il 10 ottobre, dopo il lungo volo via Qatar con il gruppo di Avventure nel Mondo, è stato di buon auspicio: la vitalità caotica di una metropoli dell’Asia, i colori violenti, gli occhi verdi di una ragazza dal finestrino dell’automezzo. Invece il primo segnale della sindrome del turista mi colpisce come uno schiaffo il mattino dopo a Budhanilkantha, dove una statua di Vishnu giace sdraiata sulle spire di un serpente al centro di un laghetto, vestita di tessuto giallo amaro come se fosse viva; secondo gli hindu fu ritrovata scavata nella roccia quando le acque si ritirarono dalla valle. I re del Nepal non possono contemplarne il volto, pena la morte. Un continua processione di devoti scende i gradini fino alla superficie dell’acqua, porta fiori e riso, si tocca le labbra e sfiora i piedi di Dio. Pellegrini e mendicanti sono sparsi nel cortile intorno, il profumo di incenso si mischia a quello delle offerte bruciate sulle fiamme libere. Entriamo scalzi nel tempio della musica, dove strumenti acustici accompagnano un Hare Krishna senza fine. Qualcuno del gruppo porta dipinta in fronte la tika, un terzo occhio arancione; quello di Luisa è più elaborato, un nucleo di riso dipinto di argento e bordo rosso.

La nostra guida Tana ci porta poi al tempio di Gokarna Mahadev, dedicato a Śiva ; costruito nel XV sec. in riva al fiume Bagmati, è avvolto nell’aroma dolciastro di incenso al quale dovremo abituarci. All’ingresso sono incise una svastica e una stella a sei punte. Le statue degli dèi sparse intorno, Ganesh, Hanuman, Brahma, sono strofinate di polvere rossa e gialla, la stessa usata per dipingere la tika. Una scimmia tenta di saccheggiare un piattino di offerte, i devoti strillano per cacciarla. Un santone magrissimo e con i capelli arruffati sembra in posa per una foto; un agnello entra nelle edicole di pietra per mangiare il riso. Sul retro della pagoda, la statua della dea Parvati è vestita di un sari rosso.

Al ritorno verso la città ci fermiamo a Bodnath. Questo stupa buddista, il più grande del Nepal e fra i più grandi del mondo, domina una piazza rotonda circoscritta da negozi artigiani, fiorente centro religioso dei profughi tibetani. Festoni di bandierine da preghiera colorate raggiungono gli occhi vigili del Buddha dipinti sotto la cuspide. Alcuni gompa, monasteri lamaisti, sono sparpagliati nelle strette vie intorno; le mani dei fedeli sfiorano le ruote di preghiera di legno o metallo. Monaci vestiti di amaranto e giallo intenso passeggiano intorno allo stupa rigorosamente in senso orario, i più giovani vestono magliette Adidas. Dalla porta aperta di un negozio di musica ascoltiamo per la prima volta la stucchevole versione new age del mantra che accompagnerà il viaggio, trasformato in un banale souvenir turistico: Om, Mani padme, Hum: Altezza dell’universo, Gioiello nel loto, Profondità dell’universo. Mentre il gruppo acquista tangka dipinti a mano in un negozio affacciato sullo stupa, trovo un telefono pubblico a una tariffa ridicolmente bassa in una bottega spettrale dove monaci buddisti digitano sui PC allineati alle pareti. Davanti all’uscita, un bambino di pochi anni mi prende per mano, ha capito che stiamo andando a pranzo. Cerco di salutarlo davanti al ristorantino, non mi lascia; si siede in braccio a me con un’urgenza che commuove e divora i miei momo, grossi ravioli di verdure piccanti cotti a vapore. Mi tiene la mano fino al parcheggio dove il guardiano lo ferma, e saluta con la manina attraverso i finestrini dell’automezzo.

Ci spostiamo a Pashupatinath, il più importante tempio di Śiva dell’intera Asia, dedicato al signore degli animali, incarnazione non sanguinaria del dio creatore/distruttore: le decine di piccoli templi allineati sui gradini in riva al fiume e più in altro sulla collina hanno all’ingresso un animale di pietra in atto d’adorazione. Come il Gange, il Bagmati è un fiume sacro per le cremazioni. Alcune sono in corso in questo momento. I piedi del defunto spuntano dalla catasta di legna; il fumo sale senza fretta, restio a disperdersi. Un’altra pira è pronta, i parenti sono radunati in una stanza di fronte al ghat. I santoni vestiti a colori vivaci si mettono in posa e chiedono qualche rupia per le foto: Milk Baba si nutre di solo latte, Stone Baba solleva una pietra di diversi chili con il membro virile. Non ci teniamo a toccare con mano. Il pomeriggio allunga le ombre e attenuta la luce violenta filtrata attraverso il fumo. Salgo in collina con Nello e Marco, in un’ordinata città di tempietti libera da questuanti; osserviamo i pellegrini fra i tetti a pagoda nella tranquillità della sera. Uno dei templi è dedicato alla vagina della dea Parvati, intuisco perché dopo la guerra tutti i freaks del mondo arrivavano a Kathmandu.

Sabato, giorno di festa in Nepal, viaggiamo verso la regione del Terai, striscia di terre calde al limite della pianura del Gange. La nostra destinazione è il parco nazionale del Chitwan, al confine con l’India. L’automezzo si arresta sulla riva di sabbia del Narayani, dove ci aspettano due barche a remi. Attraversiamo in silenzio il fiume caldo e tranquillo, sull’altra riva ci aspettano un cocktail di benvenuto e i fuoristrada. Il sentiero fangoso attraversa una distesa di erba e canne, poi una foresta di sal. Al Temple Tiger ci accoglie in un’umidità giurassica la PR del lodge, un’inglese snella e disinvolta il cui nome, Anna, i maschi imparano quasi subito. Gli alloggi sono basse palafitte di legno uscite da un romanzo di Hemingway, disposte a raggiera intorno agli spazi comuni: ristorante, shop e belvedere affacciato sulla zona umida tra il campo e il fiume. Sotto la cupola verde della foresta la luce è grigia, quasi preistorica; le lenzuola sono umide, i suoni hanno un’eco lattiginosa. Ci aspetta la passeggiata a dorso d’elefante, un giro di quasi due ore nel sottobosco e poi fra canne alte 3 metri, nel controluce del tramonto che illumina la lanugine della vegetazione. Gli animali selvatici possono sentire le nostre voci. “Rhino” annuncia sottovoce il driver del mio elefante: un rinoceronte ci osserva dal fiume. Uno degli altri elefanti scova una madre con il piccolo, che accenna una breve carica. L’elefante barrisce e si dispone sul fianco, senza ulteriori conseguenze. Al ritorno io e Maristella sentiamo un fruscio nel sottobosco e avvistiamo la corsa di una lince.

Sveglia poco dopo l’alba e nuova uscita a dorso di elefante. Riesco a salire con lo stesso driver, uno dei pochi nepalesi con i capelli bianchi che abbia visto. Punta i piedi nudi dietro le orecchie dell’animale, lo guida con i colpi di un sottile bastone che usa anche per scostare i rami davanti ai passeggeri, e ogni tanto gli percuote il cranio con un utensile di ferro. I tre elefanti si separano nel sottobosco soffocato dai rampicanti e avvolto in una nebbia irreale. Aggiriamo formicai di sabbia dura simili a tronchi, osserviamo le orme della tigre stampate sul fango. Il ranger ci ha detto che per ogni avvistamento, sono almeno 99 le volte in cui la tigre vede noi per prima; Enzo pretende lo stesso di averla vista. Carla punta il dito in alto: sopra di noi le scimmie fuggono veloci, scrollando tutta l’acqua condensata sulle foglie. Un branco di cervi ci avvista e si disperde nella foresta.

Nel pomeriggio, il viaggio di ritorno a Kathmandu è un’odissea. La strada che attraversa la catena del Mahabarat è una lingua di asfalto piena di buche e lunghi tratti sterrati, affacciata su gole tagliate dalle frane. La polvere dai finestrini invade l’abitacolo, distribuisco qualche mascherina di garza che sommata ai fazzoletti ci trasforma in una tradotta di maoisti. Sfioriamo camion Tata e autobus con i passeggeri seduti sul tetto. Per distrarci raccontiamo a turno delle storie: Carmen un episodio di Maupassant, Marco uno di Borges, io una storia delle Mille e una notte; Onide recita una propria poesia. Spesso lo vedremo aggirarsi distratto fra i templi con parole che affiorano alle labbra: a differenza di tutti noi, non è pazzo: sta semplicemente componendo poesie. Il destino vuole che sia il proprietario di un laghetto da pesca sportiva chiamato Lago Pascoli; quando stabiliamo di tenere il primo raduno post-viaggio a casa sua, viene facile battezzare l’avvenimento “Lago Pascoli e oltre”.

È buio quando inizia l’ultima ascesa verso la valle di Kathmandu: una serie infinita di tornanti dove i motori ringhiano e i fanali saettano come occhi di sauri, sempre più su lungo il fianco della montagna nera. La coda all’ultimo posto di blocco è lunghissima, l’aiuto autista scende con un cuneo di legno per bloccare e liberare ogni pochi metri i pneumatici surriscaldati. Qualcuno tenta un sorpasso e interrompe la discesa in senso opposto, i clacson ululano, il monossido di carbonio satura l’aria. Oltrepassiamo finalmente le canne delle mitragliatrici dietro i sacchi di sabbia, ecco di nuovo la capitale.

Foto © Franco Ricciardiello, 2004

il testo è parte di un articolo giù pubblicato su “Avventure nel Mondo” nel 2005

 

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