TREKKING LIGHT CON AVVENTURE NEL MONDO SULLE MONTAGNE DEL NEPAL.
Kathmandu, lunedì: sveglia all’alba, ci aspetta il lungo viaggio verso est per il trekking sull’Annapurna. Lo stato di manutenzione della Prithvi highway deve essere tragica perché scopriamo che la distanza è di soli duecento km. Incappiamo in un ingorgo alla periferia di Kathmandu, un tumulto di clacson e automezzi che si sorpassano in una confusione senza fine. In mezzo all’incrocio, un poliziotto impassibile con la divisa perfettamente stirata e una mascherina sulla bocca. Una lunga coda di camion Tata di fabbricazione indiana, adornati di festoni variopinti e luci come alberi di natale, è ferma al primo posto di blocco dell’esercito: sbarre di ferro, sacchi di sabbia, armi automatiche puntate con negligenza sul traffico. Ne incontreremo ogni dieci km circa; i turisti non hanno noie, ma tutti gli altri automezzi vengono fermati per la fobia della guerriglia maoista. La sollevazione armata è iniziata nel 1996, dopo l’esclusione dal governo del partito comunista che aveva vinto le elezioni. La risposta della monarchia è stata la creazione di una forza paramilitare che ha infierito sui contadini nelle zone di influenza della guerriglia. Dopo anni di scontri armati, rapimenti di rappresentanti governativi e devastanti scioperi generali, oggi (2004) l’impressione è che il re controlli ormai ben poco del territorio: forse le valli e le città.
Inizia una serie impressionante di tornanti in discesa, sempre più giù, con l’impressione di raggiungere il livello del mare. Dopo qualche ora ecco il fiume del rafting: i sei interessati fra di noi indossano i giubbetti salvagente e i caschi, e li vediamo salire sul gommone per obbedire alle prime manovre in inglese, poi virano nella corrente e scompaiono lentamente verso valle, rifiutandosi di fare testamento. Noialtri seguiamo la guida Maila e i portatori a pranzo: dal con riso, salsa piccante di lenticchie, verdure bollite e pezzi di ossa di volatile. Abbiamo l’impressione di correre più rischi in questo locale che lungo le rapide. Gli intrepidi del rafting approdano poco distante. Onide ha salvato con un gesto eroico un turista taiwanese sbalzato fuori dal gommone. Mentre i reduci delle rapide pranzano al sacco sulla riva, noi facciamo una breve passeggiata su un ponte pedonale sospeso per decine di metri da una sponda all’altra. Incrociamo un giovane che porta sulla schiena uno strano carico. Mi volto di scatto: al posto della gerla di vimini c’è una vecchina con ombrello.
La strada torna a salire tra le risaie. Attraversiamo un ponte a passo d’uomo: un autobus di linea ha sfondato il guard rail e capottato a testa in giù sul greto del fiume, ci sono sette morti, i soccorritori recuperano bagagli inzuppati di sangue. La strada sembra non finire. Senza preavviso, mi ritrovo in uno di quei momenti sospesi che spesso mi sorprendono in viaggio. Tutto congiura: la stanchezza fisica, la complicità con il gruppo, i panorami stranieri che scivolano fuori dai vetri. Mi sento sospeso, stancamente euforico, nell’occhio del ciclone di quella voglia di avventura che mi trascina ogni anno nel richiamo irresistibile di un viaggio. I suoni si attutiscono, i colori si impolverano, il tempo perde importanza di fronte allo spazio, e come Bruce Chatwin mi chiedo anch’io “Che ci faccio qui?” Ma sono contento di esserci.
Arriviamo a Pokhara con il buio, non riusciremo a vedere nulla di questa città cresciuta troppo in fretta. Il giorno dopo il trekking ha inizio. Raggiungiamo in poco più di un’ora d’autobus Naya Pul, proprio mentre comincia a piovigginare. Maila ci aveva assicurato il sereno, per fortuna ci siamo procurati tutti una mantella impermeabile in uno degli innumerevoli negozi di Pokhara. Camminiamo fra le risaie, accompagnati dalla foschia; il sentiero raggiunge Birethanti, a mille metri d’altezza, poi risale una valle lavata dalla pioggia. Le nuvole scendono dalle creste con un effetto incantato. Comincia a piovere più forte. Oltre che da noi undici del gruppo di AnM, la spedizione è composta anche da altrettanti nepalesi: Maila, lo sherpa Jay, il cuoco, accompagnatori che ci precedono e seguono e portatori con l’essenziale dei nostri bagagli e le provviste per tutti.
Dopo la sosta-pranzo continua a piovere, l’interno della mantella si bagna di condensa; proseguiamo la salita nella fascia antropizzata fino a raggiungere i 1525 m di Tikhedunga, dove prendiamo posto nelle doppie spartane di un lodge dalle pareti così sottili che non capisci chi sta russando. Ci sono anche altri ospiti occidentali; il tè è già pronto, segue un brodo caldo e poi la cena.
La cima delle montagne è oscurata da nuvole di piombo. Sul muro di una casa è graffitata una scritta in blu luminoso, Long Live to CPN (maoist), Lunga vita al partito comunista (maoista) nepalese. Secondo Maila il precedente gruppo di Avventure è stato fermato dai maoisti, che hanno chiesto un contributo di 12 € a testa, dietro regolare ricevuta.
Sveglia presto, affrontiamo sotto un cielo cristallino la ripidissima scalinata che porta a Ulleri, 1960 metrui, da dove l’Annapurna Sud sembra a portata di mano. Tè caldo, si riprende a salire attraverso foreste di querce e poi di rododendri. Ci fermiamo spesso per i greggi di capre portati a valle dai pastori: sta per incominciare dasain, la più importante festività del calendario nepalese che chiude la stagione dei monsoni. La salita si fa più dura. Oltrepassiamo case dai tetti di ardesia, greggi spaventati, lodge verniciati di azzurro. Arriviamo esausti a Ghorapani (2750 m) quasi al tramonto, niente mi impedisce di provare per primo la doccia bollente cui si accede dall’esterno del lodge. Al centro del piano terra c’è un’enorme stufa chiusa in un bidone di metallo; oltre a asciugare i vestiti e bruciare a morte il pile di Carla, diventa il punto di ritrovo serale dei nostri giochi di società alla luce esangue di una lampada a olio. Tosse e raffreddore imperversano, compaiono i primi antibiotici.
In altitudine fatico a dormire, solo un paio d’ore di occhi chiusi: è un sollievo quando ci svegliamo per salire a vedere l’alba sorgere sull’Annapurna. Dobbiamo usare la giacca a vento; partiamo in nove perché in due hanno rinunciato. L’ascesa di un’ora è il tratto più faticoso dell’intero trekking. Maila zompa come un cervo in amore, Luisa sfiora terra con la lingua. In cima a Poon Hill c’è una torre d’osservazione di legno, dove un folto gruppo di turisti assiderati sfida il vento al riparo della balaustra. Le nuvole accerchiano in un silenzio irreale l’Annapurna Sud e il Machapuchhare, la cima a coda-di-pesce, poi l’aurora sfolgora lentamente sulle nevi eterne. Torniamo a valle a fatica, inizia il tratto più lungo del trekking. Saliamo di nuovo oltre tremila, sotto un sole meraviglioso, la corona dell’Annapurna ci sovrasta immensa. Segue una lunga discesa tra rododendri soffocati dai rampicanti, in un sottobosco umido e poi in fondo a gole di ardesia trattenuta solo dalle radici; le pietre hanno riflessi magnetici, l’acqua filtra dovunque e trasforma i sentieri in strisce di fango, ponticelli di tronchi in equilibrio attraversano i ruscelli. Siamo sempre più stanchi, il cielo rannuvola. A pranzo comincia a grandinare; riprendiamo la discesa, di nuovo nella fascia delle risaie a terrazza. Torna il sole. Superiamo gruppi di case, il fumo esce dai camini. Una bambina mi chiede di medicarle il dito, non ho che un inutile cerotto per una brutta lacerazione sporca. Un’altra bambina solleva il vestitino e mi mostra una larga crosta sulla parte posteriore del bicipite femorale, sembra un’infezione virale. Perché non ho tenuto le medicine nello zainetto? Chissà dove sono, nel bagaglio dei portatori.
Siamo stanchissimi, ho le ginocchia rigide e doloranti. Arriviamo a pezzi a Ghandruk. Nel nuovo lodge abbiamo tutti le docce in camera (quasi tutti); tè, brodo e cena, poi quelli che non sono a letto con la febbre giocano a Mafiosi & Bravi ragazzi. Dopo la scorsa notte insonne, dormo come un ghiro.
L’ultima tappa ci riporta a Naya Pul, dove arriviamo distrutti a metà giornata; abbiamo percorso un anello di cinquanta chilometri, la prima parte del trekking del Jomsom Trail.
Foto © Franco Ricciardiello