«L’ORFEO» DI CLAUDIO MONTEVERDI SEGNA IL PASSAGGIO DAL MELODRAMMA CORTIGIANO ALL’OPERA LIRICA.
La vita e l’opera di Claudio Monteverdi (1567-1643) si situano al confine tra due mondi musicali: cioè tra il tramonto quasi improvviso della polifonia antica, sopravvissuta fino al termine del Cinquecento, e la monodia che permetterà la nascita del melodramma, diventerà opera lirica, e in seguito canzone.
L’Orfeo, Favola in musica, segna il primo momento di passaggio dall’opera cortigiana a quella degli impresari teatrali. Suo soggetto è il mito greco di Orfeo, recuperato a fini ideologici da un gruppo di intellettuali radunati intorno alla corte medicea di Firenze, la Camerata Bardi. In origine, i compositori Giulio Caccini e Jacopo Peri mettono in musica, ciascuno per conto proprio, un libretto del letterato Ottavio Rinuccini intitolato Euridice, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio. L’Euridice di Peri, la più antica partizione d’opera che si sia conservata sino a noi, viene rappresentata il 6 ottobre 1600 a Firenze, come spettacolo in occasione delle nozze di re Enrico IV di Borbone re di Francia con Maria de’ Medici.
La grande innovazione segnata dallo stile musicale che verrà chiamato recitar cantando è l’idea di adattare la musica al testo, per permetterne l’intelligibilità e sottolinearne il significato emotivo. Oggi sembra difficile da credere, ma prima della nascita del melodramma non esiste il concetto di canto a una sola voce: il madrigale polifonico del Cinquecento intona anche testi lirici, e persino di provenienza teatrale, ma sempre a più voci e con melismi e abbellimenti che permettono il magnifico dispiegarsi del contrappunto, ma rendono difficile comprendere il significato del testo. Infatti, se la parte di un personaggio è cantata da diverse voci, e di conseguenza da più di un cantante, agli occhi del pubblico è difficile identificare l’interprete e il personaggio. L’intreccio delle voci impedisce la comprensione delle parole, il sentimento è affidato solo alla bellezza dell’armonia.
È il fiorentino Giovan Battista Doni, uno dei letterati della Camerata Bardi, a parlare per primo di monodia, in opposizione alla polifonia; il neologismo è tratto dal greco, in coerenza con l’intento di casa Bardi di recuperare il senso della tragedia greca, che rappresenta agli occhi di questi intellettuali la perfetta integrazione tra parole e musica. La monodia prevede un solo interprete per ogni personaggio: la voce più alta del canto polifonico accompagnata da un basso continuo strumentale, nei cui accordi si amalgamano le altre voci.
Il testo delle nuove composizioni è di origine poetica, la musica deve osservare la massima aderenza alla metrica del verso in modo da amplificare il parlato; o meglio, nelle singole composizioni (arie, madrigali, recitativi, eccetera) si può individuare una sorta di scala che va da una preminenza del valore verbale, poetico, alla preponderanza della musica, quando il testo poetico è organizzato in strofe e ritornelli strumentali.
Ben presto questo nuovo stile viene conosciuto come recitar cantando; la prima composizione di rilievo sono i madrigali a una voce e basso continuo di Giulio Caccini, non a caso intitolati Le nuove musiche (1602); ma il compositore più famoso è Claudio Monteverdi, e il grande musicista dovrà ben presto difendersi dagli attacchi dei tradizionalisti; Doni definisce la sua composizione “stile semplice e corrente”. Anche Baldassarre Castiglione nel suo Il Cortegiano compone l’elogio della nuova musica:
Bella musica parmi il cantar bene a libro sicuramente, e con bella maniera; ma ancor molto più il cantare alla viola, perché tutta la dolcezza consiste quasi in un solo; e con molto maggior attenzione si nota, ed intende il bel modo e l’aria, non essendo occupate le orecchie in più che in una sol voce; […] ma sopra tutto parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare; il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alla parole, che è gran meraviglia.
Nasce la musica del Barocco. La musica strumentale, che già è nata a partire da metà Quattrocento, accompagna la voce e ne sottolinea le emozioni: il recitar cantando si situa a mezza strada tra il discorso parlato e la voce cantata. La locuzione recitar cantando è usata per la prima volta nel frontespizio di Rappresentatione di anima & di corpo del compositore Emilio de’ Cavalieri. In coerenza con l’idealizzazione della tragedia greca, i nuovi autori (compositori e librettisti) si cimentano da subito in una forma che definiscono “drammi per musica” e che diventerà l’opera lirica. Ciò che oggi definiamo però «opera» è una forma molto più sbilanciata verso il valore musicale rispetto alle origini, quando si privilegiavano il contenuto del testo, l’allestimento scenico e il recitar cantando.
Le Euridice di Peri e di Caccini sono infatti composte da recitativi, arie e cori, ma la musica strumentale è ridotta al solo accompagnamento di basso continuo. Molto diverso è L’Orfeo, primo tentativo di quel melodramma moderno, di stile concertato, che nascerà a Venezia quando Claudio Monteverdi sarà nominato Maestro di musica della Serenissima. L’Orfeo sfrutta sì le possibilità espressive del recitativo, come auspicato dalla Camerata Bardi, ma introduce anche arie di maggiore lunghezza cantate dal protagonista, madrigali a più voci, brevi intermezzi sinfonici e ritornelli strumentali tra una strofa e l’altra. Rispettando l’accento del verso poetico e il respiro dell’interprete, la sua musica riesce a sollecitare l’abbandono emotivo dello spettatore.
Agli inizi della carriera di Monteverdi, il canonico Giovanni Artusi gli rinfaccia violentemente di non rispettare le regole del contrappunti. Ciò che gli viene rimproverato è l’adattamento della linea melodica in funzione del verso, e l’impiego a fini espressivi della dissonanza. Monteverdi lascia la risposta al fratello Giulio Cesare, il quale negli Scherzi musicali distingue nella musica moderna due stili: la prima pratica e la seconda pratica. Prima pratica è la perfezione dell’armonia, intendendo con questa definizione la musica polifonica; seconda pratica è la perfezione della melodia, affidata a una voce unica, che mette l’orazione, cioè la parola, come signora dell’armonia.
Il passaggio dalla musica cortigiana all’opera avviene per impulso della corte dei Gonzaga. Vincenzo I duca di Mantova, impressionato dalla nuova musica udita durante le feste di nozze fiorentine del re di Francia, commissiona lo spettacolo di carnevale del 1607 al suo maestro di cappella Claudio Monteverdi e al librettista Alessandro Striggio; vuole riprodurre il piacere provato a Firenze, si è invaghito della musica di Caccini e del mito greco rivisitato da Rinuccini, perciò il soggetto non può che essere la storia di Orfeo e Euridice, come nei drammi fiorentini.
La prima rappresentazione dell’Orfeo avviene all’Accademia degli Invaghiti. È subito un successo, replicato il primo marzo nel teatro di corte.
Per Monteverdi la scelta di Orfeo, che nel mito geco-romano è il più grande musicista del tempo degli uomini, un semidio il cui canto magico ammansisce le bestie feroci, è un omaggio al potere della Musica sugli uomini. Come nelle Metamorfosi, il libretto originale si conclude con la crudele morte dell’eroe, fatto a pezzi dalle Baccanti, ma Monteverdi pubblica l’opera con un finale differente, nel quale Apollo interviene come un deus ex machina per condurre con sé in cielo il figlio disperato: ciò che nella prima versione il librettista evitare perché richiedeva la costruzione di macchine raffinate per la discesa in scena del dio.
Il suo Orfeo è già molto distante dall’Euridice di Caccini; l’esperienza dei cinque libri di madrigali scritti in precedenza, soprattutto gli ultimi due, genera una costruzione armonica molto più elaborata, distante dalle composizioni “senza complicazioni” dei suoi predecessori. Monteverdi impiega effetti come l’aggiunta di trilli di note, appoggiature per determinare gli accenti, anticipazioni di note e di sillabe, cascate di note diminuite, tutta quell’ornamentazione picciola che rientra nel repertorio di un cantante italiano dell’epoca, ma con l’indicazione di cantare senza passaggi, cioè senza virtuosismi vocali, lontani dall’estetica della musica nuova, la seconda pratica. D’altronde il primo interprete del personaggio di Orfeo è Francesco Rasi, lo stesso che aveva cantato nelle due Euridice, e che condivide la poetica della Camerata Bardi.