La città degli dèi

LUOGHI SANTI IN RAJASTHAN E GUJARAT: HINDU, ISLAMICI, JAINISTI.

Ajmer, santuario di Muin-ud-Din Chishti

Ajmer, santuario di Muin-ud-Din Chishti

Nel suo celebre reportage di viaggio del 1961, L’odore dell’India, Pasolini definì «degenerata» la religione dell’India. L’induismo è in effetti un culto atipico, così antico da non vantare fondatori; non possiede gerarchie teologiche né autorità riconosciuta, e come se non bastasse non si cura di fare proselitismo. L’infinito pantheon di divinità hindu (a Mandore in Rajasthan si trova un Tempio dei 330 milioni di dèi) e l’apparenza preistorica del culto non contribuiscono a incentivare le conversioni, ma gli indiani sono un popolo mite e devoto. Le divinità più popolari sono Shiva, dio della distruzione, Ganesh dalla testa di elefante, dipinto per buon auspicio sui muri delle attività commerciali, e Hanuman, il dio-scimmia eroe dell’epopea del Ramayana.

Proprio a Hanuman è dedicato il tempio in riva al lago di Jamnagar, nella provincia del Gujarat, nel quale giorno e notte i fedeli si alternano per mantenere un dolce canto che non si è mai interrotto dal 1 agosto 1968:
Sri Ram, Jai Ram
Jai Jai Ram

Il tempio, dedicato a Bala Hanuman, è una pagoda sorretta da colonne all’interno di un recinto; i devoti cantano con un etereo accompagnamento musicale, gli uomini seduti a sinistra degli altari e le donne a destra, sotto le effigi di dèi e santi.

Il carattere spirituale degli indiani fa sì che la loro vita non si svolga completamente su questa terra: il soprannaturale minaccia in continuazione la percezione della realtà, e questo è testimoniato dall’immensa fortuna del cinema di Bollywood, vera fusione di miti antichi e moderni.

Un viaggio in Gujarat è dunque anche una discesa nella religiosità. A causa di questa sua vocazione, una legge vieta completamente il consumo di alcolici sul territorio statale. La città più sacra è Dwarka, la città definita capitale di Krishna, un gruppo di case e templi affacciati sul Mare arabico. Colonne di pellegrini fiancheggiano le strade che portano a questa località che ha il privilegio unico di essere sia una delle «quattro Dimore sacre» che una delle «sette Città sante» dell’India. Dwarka possiede l’atmosfera che avrebbe Pushkar se non fossero arrivati i freak. Lontano dai periodi di pellegrinaggio intenso, i templi (quasi tutti di recente costruzione) sono oasi di solitudine vagamente kitsch, a accezione del Dwarkadisha, antico e molto frequentato: è da qui che prese inizio nel 1989 la marcia del partito nazionalista hindu che terminò con la distruzione di moschee e sanguinosi disordini interreligiosi.

Sempre sulla costa ma più a sud sorge la ricostruzione del tempio di Somnath che secondo la tradizione avrebbe visto la creazione del mondo: edificato una prima volta in oro, distrutto e ricostruito successivamente in argento, poi legno e infine pietra. Intorno all’anno mille ospitava centinaia di suonatori, danzatrici e barbieri a disposizione dei pellegrini; fu saccheggiato più volte in epoca storica dai conquistatori musulmani e ripristinato dai devoti hindu. L’attuale suggestiva ricostruzione è del 1950.

Anche la devozione musulmana si è stratificata in sedimenti di grande suggestione. Nella città di Ajmer in Rajasthan, visitiamo il santuario di Muin-ud-Dìn Chishti, santo sufi persiano discendente in linea retta dal genero di Maometto. Il Durgah, il santuario che contiene la sua tomba, è probabilmente la seconda meta di pellegrinaggi dell’intero Islam. Oltre il maestoso portale verde dell’ingresso, tra cortili lastricati, moschee di marmo bianco, enormi paioli di ferro che raccolgono le offerte, sotto archi e porticati ho vissuto una delle esperienze più splendide e stranianti del viaggio. Uomini, donne bambini si aggirano tra gli edifici, pregano, banchettano fuori dal sepolcro di quest’uomo di pace, che ebbe grande influenza tra l’XI e il XII secolo e la cui venuta in India precedette la conquista armata dei suoi correligionari. Al riparo di un padiglione, due file di uomini recitano il rosario snocciolando pietre sferiche; donne dai colori vivaci pregano in ginocchio su stuoie, all’ombra di un porticato, probabilmente lo stesso sotto il quale si genufletteva l’imperatore Akbar durante i suoi pellegrinaggi annuali.

Un altro centro di devozione islamica è la cittadina di Sarkhej, alla periferia di Ahmedabad, dove accanto a un laghetto artificiale circondato da gradini sorge il complesso architettonico sacro del Roza, che comprende un antico e suggestivo mausoleo, la tomba di un santo musulmano e una moschea.

Tuttavia,  il più impressionante di tutti i luoghi sacri del Gujarat è senza dubbio la collina di Shatrunjaya, a pochi chilometri dalla cittadina di Palitana. Shatrunjaya raggruppa due linee di templi sulle sommità del colle e nella depressione che li separa, circondati da alte mura costruite a scopo difensivo. A causa delle persecuzioni dei conquistatori musulmani prima della concessione della tolleranza religiosa, nei suoi nove recinti di mura è contenuto il fantastico numero di 863 templi jainisti. Una larga scalinata di 3950 gradini conduce dalla piana fino all’altezza di 600 metri; conviene iniziare l’ascesa di mattino presto perché l’ombra non esiste lungo l’intero percorso.

I pellegrini sono numerosi, soprattutto fedeli jainisti: donne di ogni età vestite con semplici indumenti bianchi, a capo coperto, che salgono e riscendono di corsa tratti di gradini a piedi scalzi. La luce obliqua dell’alba illumina il bianco delle tuniche e si riflette sulla pietra dei gradini; Shatrunjaya appare come una cresta capricciosa sopra la collina, una città di favola costruita da qualche genio orientale. All’interno delle mura regnano quiete e serenità: fedeli inginocchiati davanti all’ingresso dei templi, monaci seduti a gambe incrociate, pellegrini e curiosi che ammirano il lavoro d’arte. Dall’ingresso aperto di qualche tempio ci raggiunge il mantra cantato di qualche fedele, il vento suona le campanelle cucite sulle bandiere. Dal punto più alto si abbraccia con un solo colpo d’occhio l’intera città degli dèi, una visione tutta bianco, oro e grigio, un panorama da sogno di guglie, statue e colonne separate dalla linea scura delle mura, e il lontano specchio d’acqua che dalla pianura riflette i raggi del sole ancora bassi.

Un viaggio di venti giorni è un breve passaggio in India sulle orme di generazioni che ci hanno preceduto di poco, stranieri venuti qui per cercare qualcosa che in occidente non esiste più. Al ritorno a casa, continuo a ripetere nella mente come un mantra le parole di una canzone che Giorgio Gaber scrisse per il suo spettacolo “Libertà obbligatoria”:

Se si vivesse a lungo non si saprebbe più dove andare per rifarsi una felicità. Ovunque abbiamo abbandonato degli aborti di felicità a marcire negli angoli delle strade.
L’India è un museo di tentativi di felicità
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