L’ACCADEMIA DI SVEZIA HA SCELTO BOB DYLAN
Lasciatemi dire che sono non soltanto contento, ma entusiasta per l’assegnazione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan. Certo, rimango sempre in attesa per Murakami Haruki l’anno prossimo, se non addirittura per Thomas Pynchon; ma Dylan ha un posto speciale nell’immaginario, nella cultura, e da oggi anche nella storia della letteratura. Oggi, appena letta la notizia, ho messo sul piatto il vinile di Desire — possiedo anche la versione CD, ma quanto mi mancano le copertine 30×30 dei long-playings… Senza contare che a differenza del CD la busta interna riporta una lunga poesia di Allen Ginsberg (che si autodefinisce «condirettore della Jack Kerouac School per Poeti Disincarnati») contenente le note dell’album, o forse sono le note redatte da Ginsberg in forma di poesia.
La prima volta che ho sentito parlare di Desire (pubblicato a fine 1975) fu durante una gita scolastica, nella primavera 1976; ero uno studente delle superiori, piuttosto monotono in quanto a preferenze musicali, decisamente appiattito sulla musica italiana — ma a casa mia non c’era alcuna educazione musicale, inoltre eravamo tutti stonati, per cui mi muovevo da autodidatta. Sapevo leggere la musica, questo sì, perché l’insegnante delle medie me l’aveva inculcata. Una compagna di scuola aveva portato questa audiocassetta per il lettore dell’autobus, in copertina c’era un tizio che non avevo mai visto né sentito nominare, con un cappello bianco a larga tesa, un foulard al collo e il risvolto di pelliccia del cappotto, che decisamente non mi ispirava. Non ricordo se nel corso della gita verso il Lago di Garda abbiamo ascoltato anche quella cassetta.
Pochi anni più tardi a Somma Lombardo, a casa di un’amica, parlavamo di gusti musicali; era presente anche una sua amica che io vedevo per la prima volta, una ragazza molto timida, che indicò soltanto una canzone di Bob Dylan dal titolo Sara. Non sapevo naturalmente fosse su Desire.
Per ragioni familiari in quel periodo frequentavo abbastanza spesso la città di Salò; in una strada del centro, un negozio di dischi svendeva a prezzo irrisorio 45 giri di seconda mano recuperati dai juxe-box; erano ficcati a caso dentro le copertine, e mi capitò in mano quella del singolo di Hurricane, il brano più famoso del disco che ancora non conoscevo, benché di nuovo non mi attirasse in modo particolare la foto in bianconero di un pugile in posa con i guantoni che figurava sulla busta.
Nell’inverno 1981-82, mentre facevo il servizio militare a Treviso, un giorno ascoltai dal mangiacassette, sull’automobile di un compagno, una canzone che mi fece provare più di un brivido. Lui mi rivelò che era One more cup of coffeee. Ero convinto di non aver mai sentito niente del genere, muoveva dentro qualcosa in profondo. Lo compresi soltanto quando acquistai finalmente il vinile e lessi nella nota-poesia di Allen Ginsberg che la voce si leva in una cantillazione ebraica mai sentita prima in una canzone negli USA, sangue ancestrale che canta. Ancora oggi quando ascolto One more cup of coffee, dopo trentacinque anni sento lo stesso brivido; per dirla ancora con Ginsberg:
Un poco come l’America ora, non più paranoica, sono i veri anni Settanta (ogni generazione fiorisce nel mezzo della decade, Rinascimento della Poesia 1955, Pace Vietnam Berkeley 1965) – perché ora la congregazione dei poeti attraversa il paese con nuova vecchia anima-gioia, svanita la merda, ego riconosciuto & messo al suo posto, piacere-libidine accantonato con dolore suicida, cuore caldo che canta chiaro, cantillando come un cantore di sinagoga.
E Sara? Chi mai pensava che Dylan potesse scoprirsi così tanto per recuperare il compromesso rapporto con la moglie Sara Lownds, da dedicarle una delle più belle canoni d’amore mai scritte, che aveva stregato l’amica della mia amica; chi mai pensava che Dylan potesse mostrare al mondo che anche lui è un’anima che piange vulnerabile, catturata in un corpo in cui noi tutti ci troviamo?
Acquistai finalmente il disco nei primi anni Ottanta, e da allora non mi sono mai stancato di ascoltarlo. Paradossalmente, conoscevo in precedenza Romance in Durango dalla bella traduzione di Fabrizio De André che già possedevo, anche se in questa canzone la voce di Dylan diventa essa stessa uno strumento, e Ginsberg ci spiega:
La Canzone divenne poesia cosciente, il meglio che si possa dire sul ritmo assoluto, permettendo un discorso simile al talk radiofonico di tua madre, permettendo al cantante di aprire l’intero corpo all’Ispirazione, per soffiar fuori una lunga vocale folle e inchiodare la parola nel cuore di ciascuno – qui è dove c’è la sincope divertente– soffermandosi per pronunciare il verso proprio come avanza la musica, libera, ispirata, saltando dentro e fuori da fatali accordi.
Un giorno di fine giugno 1975, mentre gira senza meta per Greenwich Village, Dylan vede camminare per strada una ragazza, ha capelli nero piume-di-corvo e la custodia dello strumento in mano. È Scarlet Rivera. Dylan ferma l’automobile rossa di fianco al marciapiede, le chiede se vuole suonare con lui. Si recano immediatamente nello studio di registrazione, provano Isis, One more cup of coffee e Mozambique, lui suona la chitarra e poi anche il piano. «Se avessi attraversato la strada qualche secondo prima, non sarebbe mai accaduto nulla» ammette nel 2012 Scarlet Rivera. E invece è invitata a partecipare alle registrazioni in studio del nuovo album — ed è una fortuna per lei, per Dylan, per tutti noi, perché il violino di Scarlet Rivera è il martello che inchioda le note della nostalgia lungo tutto questo album indimenticabile.
Che grande scoperta, queste canzoni sono l’apogeo della musica-poesia sognata negli anni ’50 & primi ’60 – poeti che recitano-salmodiano con strumenti e bonghi – Ritmo regolare che sostiene il linguaggio elastico, il poeta da solo al microfono a recitar-cantare il testo di una surrealistoria d’amore. — — — Allen Ginsberg