La questione del punto di vista nel mio primo romanzo “senza genere”.
Sabato 24 settembre ci sarà una nuova edizione di Vercelli in Bionda, la manifestazione librario-gastronomica organizzata dalla Libreria Mondadori durante la quale una serie di autori locali avranno a disposizione cinque minuti a testa per presentare il proprio libro e scolare una birra alla spina. Ho avuto la fortuna di partecipare a tutte le precedenti edizioni, essendo sia un autore relativamente prolifico che un incontrollabile goloso di malto fermentato – e anche quest’anno sono della partita.
La manifestazione si sottintende dedicata alla letteratura gialla, ma il confine non è tracciato così rigorosamente, e anch’io quest’anno come altri autori presenterò il primo romanzo non di genere che ho pubblicato, Disertori. Voglio approfittarne per parlare della questione del “punto di vista” in questo romanzo.
Nella scrittura creativa la definizione punto di vista indica “gli occhi” attraverso i quali il lettore vede la vicenda – nelle lingue anglosassoni questo concetto può essere indicato con il termine voice, “Voce”.
Semplificando, il punto di vista può essere quello di un “narratore onnisciente” che racconta la storia dall’esterno, da un luogo imprecisato e da un tempo futuro rispetto a quello della vicenda (quasi tutta la letteratura classica ottocentesca è scritta in questo modo, con il tempo verbale passato remoto); oppure può essere qualcuno che racconta in prima persona secondo il principio della willing suspension of disbelief, la “volontaria sospensione dell’incredulità” alla quale il lettore si abbandona come premessa per godere la storia; ancora, infine, il punto di vista può essere una “terza persona immersa”, e allora l’effetto è quello di vedere gli avvenimenti da una distanza ravvicinata. Quest’ultimo caso è la Voce più utilizzata in tutta la letteratura contemporanea, dato che permette al lettore un minimo di intimità e dunque di immedesimazione con il personaggio punto-di-vista (che non sempre è anche il protagonista); talvolta chiamato “discorso libero indiretto”, il punto di vista della terza persona immersa è diventato popolare quando si è imposta quella colossale fabbrica di immagini (e di immaginario) che è il Cinema, con la macchina da presa che è sì vicina agli attori, al punto di captarne le emozioni, ma mantiene comunque un certo grado di distanza.
Disertori è costruito come una serie di nove racconti parzialmente indipendenti, perché la storia raccontata in ciascuno di questi è autoconclusiva; al tempo stesso possono essere intesi come capitoli di un romanzo fortemente unitario, ognuno con un suo personaggio punto-di-vista, o una Voce, differente.
L’effetto ricercato è quello di portare il lettore a immedesimarsi di capitolo in capitolo con un diverso personaggio, così che possa vedere soltanto una parte della realtà; in questo modo avvenimenti inspiegabili in un racconto trovano soluzione in un altro successivo. Inoltre, il tempo narrativo di ogni racconto si sovrappone in parte al tempo degli altri, le storie si svolgono in simultanea, ma sono viste da un punto di vista, appunto, diverso.
La trama è in fondo semplice: in una grande città del Norditalia, nell’ultimo mese di un inverno qualsiasi, un gruppo di uomini e di donne in crisi sentimentale cerca di recuperare un equilibrio personale: coppie si separano, altre si formano, ci sono innamoramenti e disillusioni, e passioni coltivate in segreto da anni. La rotazione del punto di vista (dieci personaggi diversi, perché il secondo capitolo alterna due diverse Voci) permette di comprendere sia le ragioni di ciascuno, gli equivoci della difficoltà di comunicare, i gesti e le motivazioni che a prima vista parrebbero irrazionali e inspiegabili.
Questo gioco di voci non sarebbe comunque sufficiente a motivare una costruzione romanzata – e infatti c’è altro. Il lettore ha l’impressione, difficile da motivare, che nell’architettura della storia manchi qualche elemento essenziale. Solo il penultimo capitolo, che ha una lunghezza doppia rispetto ai precedenti, offre finalmente la soluzione: per comprendere l’architettura che sostiene la storia manca un ultimo protagonista / Voce, che il lettore ha già visto comparire qua e là nei capitoli precedenti in episodi di scarso rilievo. Solo a questo punto si rende conto che i primi sette capitoli sono un lavoro preparatorio di scalpello intorno a una costruzione ancora tutta da innalzare, e che le storie precedenti sono lì soprattutto per preparare l’emozione e giustificare l’azione del protagonista, che a questo punto può dispiegarsi in libertà perché molti dettagli di profondità sono già a disposizione del lettore.